Zola e Manet. Il ritratto di un’epoca, l’affinità di una poetica.
Nel Ritratto di Émile Zola (1868), firmato Manet, lo scrittore, dipinto di tre quarti seduto di fronte a uno scrittoio pieno di libri, guarda assorto e pensieroso fuori dal campo della tela, come se il pittore l’avesse colto in un attimo d’incantamento. In realtà Manet sottopose l’amico a interminabili sedute di posa, scriverà Zola: «Mi aveva dimenticato, non sapeva più che ero là, mi copiava come avrebbe copiato un qualsiasi animale umano, con un’attenzione e una coscienza artistica che non avevo mai veduto altrove».
A 120 anni dalla scomparsa del grande maestro del naturalismo francese, è interessante osservare come quello di Zola sia, per chi ha la fortuna di vederlo al d’Orsay o per chi ha la pazienza di dare un’occhiata alla foto, il ritratto di un’epoca. Manet con questa tela omaggia il suo ammiratore e difensore – Zola era stato licenziato dal giornale che gli aveva affidato la recensione del Salon del 1866, l’Evénement, proprio per certe affermazioni controcorrente che elogiavano l’opera del pittore – e celebra il sodalizio artistico tra i due.
Zola, alle soglie dei trent’anni e del suo esordio da romanziere, è frequentatore assiduo del Café Guerbois a Parigi, locale in cui trascorreva le serate con il nascente gruppo impressionista. In Manet lo scrittore ritrova la sua stessa ricerca di naturalezza e verità, in barba al gusto artistico istituzionale e ai soggetti più ricorrenti al tempo; d’altra parte, il pittore sembra apprezzare l’analisi della sua opera e raffigura nel Ritratto proprio quel pamphlet azzurro scritto da Zola in sua difesa l’anno prima. Qui lo scrittore si era soffermato, tra gli altri dipinti, sulla grande tela della Colazione sull’erba (1863) che aveva scandalizzato il pubblico soprattutto per la nudità della donna in primo piano, non giustificata in quanto soggetto mitologico, come, invece, gran parte dei nudi esposti senza preoccupazioni di sorta nelle sale del Louvre. Zola, centrando un punto affine alla sua poetica che in quegli stessi anni stava elaborando, osservava a tal proposito: «I pittori, soprattutto Édouard Manet, che è un pittore analista, non hanno questa preoccupazione del soggetto che tormenta soprattutto la gente; per loro il soggetto è un pretesto da dipingere, mentre per la gente è la sola cosa che esista. Sicuramente, perciò, la donna nuda del Déjeuner sur l’herbe è là al solo scopo di offrire all’artista l’occasione per dipingere un po’ di carne». Aggiungeva, poi, quale fosse, a suo parare, lo sguardo per godere dell’estetica del dipinto:
«Quello che deve essere visto nel dipinto non è un pranzo sull’erba; è tutto il paesaggio, con i suoi vigori e le sue finezze, con i suoi primi piani così grandi, così solidi, e i suoi sfondi di una leggera delicatezza; è questa carne soda modellata sotto grandi punti di luce, questi tessuti elastici e forti, e in particolare questa deliziosa silhouette di una donna che indossa una sottoveste che crea, sullo sfondo, un’adorabile chiazza di bianco nell’ambiente delle foglie verdi. È, insomma, questo vasto insieme, pieno d’atmosfera, questo angolo di natura reso con una semplicità così giusta, tutta questa mirabile pagina in cui un artista ha collocato tutti gli elementi particolari e rari che sono in lui».
Inevitabile il confronto di tale visione, stavolta in campo letterario, con le affermazioni che l’anno successivo Zola riporterà nel prologo alla seconda edizione del suo primo romanzo naturalista: Teresa Raquin. Come Manet si era scontrato con i benpensanti della borghesia parigina, così anche la storia scabrosa di Zola era stata bersagliata dalla critica e l’autore si ritrovava obbligato a illustrare il suo metodo d’analisi e rappresentazione del reale, cogliendo l’occasione per pubblicare un testo programmatico e quasi un manifesto della sua idea di naturalismo. Com’è noto, la trama del romanzo si dipana tra la relazione adulterina dei protagonisti, omicidi e nevrosi, ma l’attenzione dello scrittore è tutta focalizzata sull’analisi, quasi da scienziato o minuzioso chirurgo, dei meccanismi umani e non su giudizi morali o messaggi più o meno edificanti. Torna più volte, nelle righe conclusive, il paragone con l’arte coeva, quando scrive: «Mi sono trovato nella situazione di quei pittori che dipingono dei nudi senza essere sfiorati dal minimo compiacimento personale e che restano di sasso quando un critico scrive di essere profondamente scandalizzato dalla natura oscena della loro opera» o, ancora, laddove conclude: «L’umanità dei modelli spariva come la nudità di una donna scompare davanti al pittore che vuole trasferirla sulla tela nella verità oggettiva delle sue forme e dei suoi colori». Zola ci tiene a sottolineare la novità delle sue scelte letterarie e lo fa immaginando i suoi denigratori come la folla scandalizzata di fronte alle provocazioni degli impressionisti nel Salon. Letteratura e arte s’intrecciano nel segno di quella rivoluzione del gusto con cui dalla seconda metà dell’Ottocento non potranno mancare di confrontarsi tutte le correnti successive.
Bibliografia
C. Gatti, G. Mezzalama, E. Parente, L’arte di vedere, Mondadori, 2014.
G. Lemaire, Manet, Art e Dossier, Giunti, 2017.
E. Zola, Manet al Salon del 1866, in “L’Evénement”, 7 maggio 1866.
E. Zola, Prologo a Teresa Raquin, 15 aprile 1868.
E. Zola, Édouard Manet, étude biographique et critique, G. Charpentier, E. Fasquelle Editore, 1893.