Perchè “Women talking” potrebbe essere il miglior film candidato agli Oscar 2023?
Un articolo di Benedetta Ricaboni
“Women talking” della canadese Sarah Polley è il film che in molti aspettavano: candidato a due premi Oscar (“miglior sceneggiatura” e “miglior film”), dal trailer si presentava come una pellicola difficile da digerire, non solo perché i temi trattati (stupro, oggettivazione e tentativo di riscatto della figura femminile) sono fortemente sentiti e vissuti dalla nostra generazione, ma anche perché sembrava che essi venissero affrontati in maniera piuttosto cruda, tagliente ed estremamente interessante. Sembrava, appunto, perché di interessante nel film c’è davvero poco.
“Women talking”: cosa funziona del film?
“Women talking” è la storia di questo gruppo di donne appartenenti ad una isolata comunità mennonita del Canada che nel 2010 scoprono un’ atroce verità: i lividi e i dolori che tutte avevano al loro risveglio non erano frutto di possessioni o tentazioni demoniache vissute la notte precedente, come gli uomini della comunità le avevano convinte e credere, bensì la terribile conseguenza di stupri messi in atto dai loro stessi mariti, fratelli e figli, dopo averle rese inermi grazie a dei sedativi. La pellicola si concentra su una lunga assemblea che le donne tengono in un fienile, durante la quale dibattono su se sia il caso di andarsene e abbandonare la comunità o rimanere e trovare una soluzione.
La trama, detta così in poche parole spicce, non sembra delle più allettanti, questo perché in effetti il vero fiore all’occhiello di questo film sono i temi trattati, in primis quello della violenza di genere: queste donne si rendono lentamente conto di come gli uomini della comunità le abbiano sempre viste come semplici mogli, madri e (ora) pezzi di carne di cui disporre a piacimento, rinchiudendole nella sfera domestica quasi fossero cani in un canile.
Proprio da qui derivano i loro più grandi dubbi: dato che l’unico mondo che conosco veramente è rappresentato dalla famiglia e dalla comunità, come potrebbero orientarsi fuori da essa, posto che nemmeno sanno leggere o scrivere (ebbene sì, la scolarizzazione è prerogativa esclusiva degli uomini)? E, soprattutto, che fare dei figli maschi in età adolescenziale, portarli con sé ,correndo il rischio che una volta cresciuti ripetano le atrocità commesse dai padri, o abbandonarli? Ecco allora che le donne e August, maestro nella scuola della comunità e unico uomo ammesso a questa assemblea, si lasciano andare ad una riflessione sul ruolo che la società ricopre nell’incentivare questi comportamenti: i bambini nascono in un ambiente e ne subiscono l’influenza culturale, perciò, se le donne vengono viste come semplici macchine da riproduzione dalla comunità degli adulti, anche i piccoli si abitueranno fin dalla tenera età vederle e trattarle in questo modo, rischiando di ripetere le violenze commesse dai loro padri.
Non tutto però è perduto, perché baluardo contro questa strumentalizzazione e oggettivazione della figura femminile rimane l’educazione: August si assume l’incarico di rieducare i bambini, di sradicare dalle loro menti la visione mortificante della donna che i padri hanno inculcato loro, restituendoli al mondo privi di quella mentalità maschilista e becera che ha condotto all’umiliazione fisica e psicologica di madri e sorelle. Il messaggio del film è piuttosto chiaro: all’origine della violenza sulle donne e di qualsiasi sopruso perpetrato a loro danno ci stanno ignoranza e maschilismo che, sebbene siano ormai culturalmente radicati nella società (specialmente in quella di una comunità mennonita delle deserte praterie canadesi), è possibile estirpare grazie all’educazione, alla pazienza e all’amore.
“Calma piatta”: gli elementi che proprio non funzionano.
“Calma piatta” è la risposta perfetta alla domanda “cosa ti ha suscitato questo film?”. “Calma piatta”. Il problema della pellicola della Polley infatti sta nel fatto che vuole dire troppo, nel senso che i temi interessanti citati nel paragrafo precedente sono sparsi nel film come il prezzemolo sulle patate della domenica: un po’ di violenza di genere, un po’ di mascolinità tossica, un pizzico di polemica sul contributo dell’educazione nell’alimentare stereotipi e pregiudizi legati al sesso, per poi non farsi mancare il tema dell’identità di genere (totalmente random viene inserito il personaggio di Melvin , personalità queer che sarebbe stato interessante approfondire e problematizzare, ma che viene inserita nel film in maniera piuttosto rocambolesca).
“Women talking” in sostanza parla di tutti i temi caldi della nostra epoca e della nostra generazione, senza però svilupparli e approfondirli, facendo in modo che essi soccombano sotto il peso di una trama piuttosto prevedibile e dallo sviluppo pressoché inesistente, tanto che quegli eventi che vorrebbero essere dei colpi di scena (no spoiler, promesso) finiscono per essere banali proprio perché intuibili anche dallo spettatore più distratto.
Le conseguenze sono purtroppo inevitabili: il pubblico non riesce minimamente ad entrare in empatia con le protagoniste e le loro disgrazie, anche davanti a quelle scene vorrebbero essere particolarmente toccanti o disturbanti, bloccato ed esterrefatto nel vedere come una pellicola così promettente cada in uno dei peggiori difetti che un film possa avere: non trasmettere assolutamente nulla se non un’estrema noia.