“Verso le stelle glaciali” di Tommaso Di Dio
Pubblicato con Interlinea nel 2020, Verso le stelle glaciali è uno degli ultimi testi di poesia di Tommaso Di Dio, del quale ci accingeremo a parlare in questo articolo.
Tommaso Di Dio è un poeta contemporaneo milanese, annoverato nell’antologia poetica di Internopoesia tra gli autori più importanti nati negli anni ’80. Tante sono le sue pubblicazioni, si ricordano in particolare: Tua e di tutti, uscita nel 2014 per Lietocolle, in collaborazione col Pordenonelegge, tradotta anche in francese da Joëlle Gardes per Recours au poème éditeurs; la pubblicazione della plaquette Per il lavoro del principio nel 2015, in collaborazione con il Centro di Poesia Contemporanea di Bologna; e infine ha curato una delle prefazioni al Musicante di Saint-Merry di Vittorio Sereni edito dal Saggiatore.
Altre sono le sue pubblicazioni importanti, ma qui ci limiteremo a citare solo queste, non tanto allo scopo in sé di tracciare un breve spaccato di biografia, quanto per svelare, almeno per sommi capi, quella dimensione circostanziale che attornia il poeta e la sua opera, e in particolare Verso le stelle glaciali.
Infatti è importante ricordare la vita del poeta, poiché in questa raccolta la vita assume i contorni di un viaggio, talvolta senza meta, in un orizzonte infinito, e talvolta verso una qualche cosa che non si raggiunge mai, come chi prova a raggiungere le stelle, per poi però rimanere sempre intrappolato nella fissità del proprio sguardo.
Un rapporto magmatico con una realtà intermittente, che pare entrare e uscire, attraverso un io che vuole prendere la parola ma rimane ai margini. Lascia spazio ad altro, a volte anche ad un se stesso-altro, come un sé fuori dal sé più vero, quasi capronianamente ”per interposta persona” (Testa 2000)
Ma addentriamoci nella raccolta.
Verso le stelle glaciali, o verso un senso, o verso il nulla
In fondo, l’ordine in cui ci si perde – qui come altrove – è in se stesso sempre libero.
sezione avvertenza
Il macrotesto ci si presenta subito come un’opera particolarmente costruita e complessa nella sua dispositio, infatti vi è sottesa una logica alla base dell’avvicendamento dei singoli componimenti che si può vedere già in parte svelata nell’avvertenza dell’autore che precede il testo.
Quattro itinerari compongono questo libro
sezione avvertenza
Da qui abbiamo già una visione dall’alto di quello che ci troveremo ad affrontare nella trama di questa complessa costruzione macrotestuale: un iter, un viaggio, che possiamo scegliere tra quattro itinerari, diversi e allo stesso tempo uguali, poiché la destinazione è poi sempre la stessa anche se in luoghi diversi, almeno così ci viene promesso dall’autore.
E così possiamo prendere la nostra strada. Ciò che ci balza subito all’occhio sono le mappe: tutto il testo ne è ricolmo e si pongono spesso in forte relazione coi componimenti di riferimento, e in certi casi anche nella costruzione totale. Sono immagini e già questo ci proietta in una prospettiva estremamente interessante della letteratura contemporanea, ossia il rapporto tra foto-immagine e testo. Da tempo infatti le immagini hanno perso quel senso puramente illustrativo, tipico dei testi per bambini che hanno riempito le giornate della nostra infanzia, per lasciare posto ad un senso più concettuale e spesso in una veste simbolista, quasi caricata di interminabili silenzi, o parole non scritte, lasciate ai margini del testo, sottintese, che però in qualche modo detengono una chiave di volta nella semantica complessiva. Talora l’immagine diviene dunque definitoria, indispensabile e, a volte, un feticcio narrativo/poetico che con l’io lirico o il protagonista intrattiene un rapporto simbiotico.
Ma in questa raccolta ciò non accade: non vi è un rapporto che l’immagine-mappa intrattiene con l’io lirico. I rapporti sono altri: quelli col lettore e con il macrotesto. Insomma l’immagine è una sorta di trade union tra la costruzione macrotestuale e il lettore stesso, che viene immerso tra i sentieri intricati della raccolta con una mappa che funge da guida ”di senso”, e si ritrova come un flaneur baudelairiano, che vaga oziosamente, senza fretta, sperimentando emozioni.
Questo carattere peculiare dell’immagine è stato definito in un recente saggio di Giuseppe Carrara, Storie a vista. Retoriche e poetica del fototesto (Mimesis 2020) come ”ecfrasi nella sua funzione di dinamizzazione”.
La dinamizzazione (dell’ecfrasi) che letteralmente vivifica e risemantizza l’immagine (…) ha la funzione di animare e fotografie inermi, di sprigionare da immagini di per sé non significative una galassia di significati, una storia completa, che nasce solo dall’interrelazione fra scrittura e foto.
Giuseppe Carrara, Storie a vista (pg 81)
In questo caso, tra l’altro, le foto vengono spiegate alla fine del testo e non sono soltanto lasciate alla libera interpretazione del lettore.
Ed ecco che, premesso questo, ci troviamo davanti alla prima mappa, un albero tremante. Un tremolio che però ci viene spiegato come originato non si sa se dal fotografo o dalla terra, quasi come se il rapporto tra il soggetto, l’io, e il reale di fronte a sé, fosse un rapporto magmatico, biunivoco, dove il reale sfuma nel soggetto, o il soggetto sfuma nel reale, non lo sappiamo. E’ questa una delle incognite che ci vengono poste fin da subito e che poi attraverseranno tutti i testi.
Arriviamo alla prima sezione, Hanno freddo Le strade, la storia.
Ci appare subito un’altra mappa, una maschera nera, dall’aspetto terribile ma con una proprietà: quella di essere una maschera per bambole capace di specchiare in se stessa il volto della bambina. Ma non solo il volto, anche tutto il resto, i desideri, le speranze, i dolori. Allo stesso tempo però, nella mappa successiva, che troviamo a poche pagine di distanza, la maschera viene girata e nel retro vi è una perlina, utile per mantenere l’oggetto sul viso. Ma quella perlina nega a chi indossa la maschera di parlare e così ci si ritrova con se stessi, in silenzio, e si impara in qualche modo forse a morire, o a veder morire sé, il proprio io, dentro una dimensione più ampia, infinita, universale, in una metamorfosi che porta l’io lirico ad amalgamarsi col tutto sfumando, come un soffio di vento in una giornata autunnale, senza vita, dentro il reale. E questa metamorfosi, questo abbandonarsi all’infinito, all’universale sarà per tutto il testo la richiesta del poeta al suo io e anche al lettore.
Pare che la bambina, guardando il mondo attraverso questa pelle adagiata sulla propria, impedita a parlare dalla perlina di vetro fra i denti, veda se stessa e, al contempo, impari a non esserlo più.
Mappa 3 (pg. 129)
Con queste premesse ”topografiche” incomincia il viaggio poetico tra i componimenti, che tra loro hanno una serie di parallelismi, riprese e rapporti antitetici.
Troviamo l’uomo del bar, una donna giovane che si getta dentro un ”non amore”, poi una donna anziana in un vagone della metropolitana con le caviglie gonfie, un giovane immigrato suicida, che si contrappone in antitesi con un uomo non più giovane e non più anziano, e così via. Insomma la situazione rappresentata è quella di una società urbana di metropoli. Più in là si capirà essere probabilmente Milano. Una realtà spaziale quindi sfaccettata, fatta di diverse sotto-realtà che si dispiegano dentro un complesso affresco sociale dove la città rimane da sfondo ad una serie di storie nascoste tra le fatiche, i dolori, le percezioni, che possiamo avvertire soltanto attraverso lo sguardo dell’io poetico. Un io che però rimane a guardare, non fa nulla, descrive in presa diretta la scena rappresentata ma lascia spazio nella situazione enunciativa a questi altri e alle loro storie.
Non è mai solo con se stesso, e anche quando pare così comunque l’io chiama parti di sé a soccorrerlo nel suo viaggio, come la mente. Ad esempio nella seconda parte della poesia Camminano per la strada in un giorno di sole, invoca infatti con una forte apostrofe la mente:
mente mia; lucida, chiara
pg 18
inesistente. Che vedi ciò che vedi
i muri dei palazzi e il metallo
dei carrelli della spesa
Poi l’Io si dissolve nella realtà circostante e si ripresenta all’interno di un nuovo soggetto, un soggetto plurale, un noi, nel componimento Noi non siamo così.
Noi non siamo così. Siamo
pg 23
la luce delle scale
che scende verso il garage
Un noi che pare proprio in questo componimento definire due persone: l’io e un tu. Un tu che si pone come interlocutore dell’io lirico e a cui questo si rivolge, arrivando addirittura a definirlo ”amore mio”.
E infine, nell’ultimo componimento prima della Mappa 3 l’io torna in se stesso, si riappropria dello spazio e della situazione enunciativa e apre un libro. Ma poi, alla fine di quello stesso componimento, si rigetta ancora nel noi, come se in questa oscillazione tra noi e io, tra il poeta e quel tu, quel loro, quella circostanza, quell’universo che compone il reale, ci fosse un così forte rapporto magmatico, tanto da far perdere l’identità dell’io, che non esiste più, è parte dell’alterità, ci dialoga, ma allo stesso tempo prova a scappare dall’altro, perché l’altro non parla. E’ come una vetrina di un negozio, piena di oggetti diversissimi tra loro con tante funzioni e storie, ma in quella vetrina oltre agli oggetti vi è pure il riflesso del soggetto, che vede se stesso immerso tra gli altri oggetti, nel medesimo spazio e cerca di scappare.
Certamente qui si può scorgere un forte rimando alla poesia del Mario Luzi di Nel Magma, dove il rapporto tra l’io e l’alterità era lo stesso: viveva pervaso dall’incomunicabilità, ma dalla voglia, dal desiderio quasi ossessivo di voler comunicare coll’altro per comprendere sé, in una comunicazione che però non avveniva mai. E in questo senso in Luzi l’io lasciava spazio alle altre voci nella situazione enunciativa per ascoltare e capire. Qui l’io fa la stessa cosa, si marginalizza, talora entrando a far parte di un noi, che poi pare essere a volte duale, io-tu, altre volte un noi collettivo dentro il mondo urbano milanese, quasi in una sorta di solidarietà tra l’io e l’altro, o gli altri. Altra somiglianza è certamente quel velo onirico, quasi di incubo, che conclude ogni scena reale, presentata con estrema vividezza e nitidezza, ma che verso la fine in qualche modo sfuma in un universo più grande, in qualcosa di infinito, che ci fa comprendere come la realtà rappresentata in modo oggettivo e perfetto mantenga questa relazione sottile coll’irrealtà. Dunque come il reale quotidiano sfumi nell’irreale e viceversa, allontanando da sé ogni pretesa di oggettività fino al nocciolo, al nucleo di tutte le cose: che cos’è la vita, è reale?
Parimenti vi è un collegamento forte con la poesia di Caproni, in particolare quella degli stessi anni di Nel Magma, come ad esempio Il Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee, dove l’io lirico lascia spazio addirittura a degli altri io che intrattengono con lui un rapporto di alter-ego, insomma si trovano, come è stato notato da una fortunata definizione di Enrico Testa, a presentarsi ”per interposta persona”. E anche qui quel noi che pare raccogliere l’umanità per poi rigettarla nel reale e guardarla, specchiarvici talvolta dentro, chiedere un senso, ecco: se il reale è dentro noi allora l’altro è un nostro alter-ego, perché è comunque parte di noi, di quel ”noi”. Noi siamo il tutto, siamo anche l’altro e l’alterità, siamo ogni cosa e forse alla fine siamo nulla.
Mentre qui
Apro il libro (pg 24)
le metropolitane spariscono
i flussi meccanici dei passanti, davanti
a questo libro aperto, resta
qualcosa meno di un sospetto; che una volta almeno
in una nuvola amorfa, in un’alba
lungo la pianura, in uno
guardo fermo sulla neve, noi siamo
esistiti veramente
Un senso all’interno del tutto
Vediamo il passato
pg 72
e il futuro in un insieme confuso: adesso ci manca
il corpo della donna o dell’uomo
che abbiamo amato. I giorni
attraversano la mente (…) Dove si va
amici, le parole finiscono
Fino ad ora si è parlato molto dello spazio, che parte da un reale per stagliarsi poi nell’irreale, nell’infinito, nell’onirico, e viceversa. Ma è importante anche sottolineare la valenza della dimensione temporale, dal momento che nella sua deformazione molto similare è indissolubilmente legata alla dimensione spaziale.
Il tempo qui perde il suo valore puramente cronologico per andare ad informarsi a caratteri astorici, quasi in qualche modo volesse lambire una sorta di eternità di fondo che si nasconde dietro la vita. Un illimitato che continua l’essere al di là dei limiti del finito della vita, al di là della morte ma anche di se stessi viventis, del proprio corpo. E in questo senso l’io pare proiettarsi verso quell’orizzonte che riesce quantomeno a scorgere in lontananza, ma a cui non riesce mai ad arrivare, in questa dimensione che è ormai privata della storia, come se l’io poetico togliesse sé dall’incessante quotidianità che nel vedere avvicendarsi i giorni forma quella che è la storia umana.
Qualcosa venne ancora
pg 37
da dove non si sa ci riporta tutti
in una preistoria senza spazio (…) dove un mondo vive nella mente
e nessuno sa perché
La dimensione storica, o astorica in questo caso, si lega bene al senso della Mappa 4. Qui è rappresentata un’opera rupestre, riconducibile dunque all’epoca primitiva. Ma ciò che il poeta ci dice poi nella spiegazione della foto è che questa raffigurazione è quella scoperta nella grotta di Lascaux, dove il linguaggio pittorico evidentemente troppo articolato aveva portato gli studiosi a capire che era opera di diversi ”artisti” in diverse epoche. Così l’artista si ritrovava a continuare l’opera del predecessore, e così via, ”come una fase sola, che si articola in centinaia di anni e centinaia di metri di profondità”.
Così, di conseguenza, la dimensione storica e quella spaziale vengono tolte dal tempo. Non c’è più il tempo, ma solo un infinto che è uno. Come in un quadro di Fontana e in quel suo gesto del taglio, che crea un continuum tra Spazio (la tela tagliata) e Tempo (il gesto del taglio) in una visione spazialista e rivoluzionaria, al di là delle categorie assolute dello spazio-tempo e dunque del reale. Anche qui le epoche, i secoli, gli anni, i giorni e la materia si uniscono in una nuova dimensione lontana dall’idea spazio-temporale ricorrente.
E per tutta l’estensione tu sei
Un uomo entra (pg 49)
dimensione di nulla spazio né tempo, quasi non più
cognizione, né memoria. Dentro la caverna, hanno trovato
residui organici, rocce e frammenti di corno
sbozzato in zagaglie. Per ragioni oscure
in fondo a tutto questo; sulle pareti di pietra
e con milioni di mani
è stato dipinto un uomo.
In questo mondo-altro senza spazio né storia, dove il verso si deforma, non segue più nulla, nessuna regola, in un verso-liberismo dai tratti un po’ prosastici, quasi narrativi, l’io si abbandona e non comprende più cosa è e dov’è. Il verso deformato, altra tecnica che certamente ha dei rimandi a poeti del secondo ‘900 come Luzi, che esprime quello stesso senso angoscioso e di terrore, qui viene acutizzato ancora di più attraverso frequentissime spezzature e enjambements, che rendono talora la lettura affannata e veloce in alcuni tratti dove il verso è più lungo, e in altri spezzata e rotta dove ci sono versicoli lenti, truci, e caricati di forte simbolismo impressionista e ermetico quasi ungarettiano o alla Mallarmé. La poesia dunque si conforma in questa oscillazione eclettica, tra il narrativo e l’ermetico, tra la descrizione e il simbolo, che in qualche modo, pur descrivendo con affanno la realtà circostante, cerca comunque con lo strumento simbolista di travalicare il reale per riportarne dalle viscere, ”dalle caverne”, un recondito più grezzo ma forse più vero, che possa spiegare il tutto. O il nulla.
Mi hai detto che non sai più (…) se sei vivo
pg 53
o se siamo tutti morti e poi da quanto tempo
quanto, non sai più nulla di te, basta
vivere qualche anno, ancora un po’ (…) che va bene così, basta vivere
con la luce davanti agli occhi (…)
la luce / davanti ai tuoi occhi
Ancorarsi al disancorato
La Mappa 5 ci viene presentata come una mappa che non porta da nessuna parte, ma che ”è necessaria affinché chi arrivi sappia di essere arrivato”. Una mappa che pare essere un po’ un rimando al primo Montale, quello degli Ossi di seppia, poiché qui, questo mare con delle onde concentriche che si dipanano da un nucleo, da un urto con un oggetto, è definito come una sorta di indifferenziato. E in questa dimensione l’io sembra abbandonarsi ed essere portato dalle maree e dai flutti marini fino alla spiaggia, dove viene lasciato nell’incerto, ad aspettare un senso nell’angoscia, nel male di vivere, un po’ come gli ossi di seppia lasciati lì, sul bagnasciuga delle coste liguri di Montale.
perché è il disancorato, ciò che si abbandona alla deriva senza dimensioni ed è disposto al gioco e alla morte in egual misura
sezione mappe
Da qui poi si penetra nella sezione successiva Il mare, la mente e la mappa che ci accoglie e che è strettamente legata alla precedente è la Mappa 6. C’è un viandante che saluta e il senso della mappa è questo: imparare a salutare.
Questa mappa ci insegna la grande arte del saluto. Non è facile abbandonare qualcosa: ci si affeziona persino al dolore. (…) Il collezionista pagando Coubert per dipingere su commissione, insegnava all’artista l’arte dell’abbandono: l’arte di abbandonare la realtà.
Mappa 6
Così, in questa nuova sezione, si abbandona la realtà, l’io e il lettore se ne vanno, quasi in quel ”naufragar me dolce in questo mare” Leopardiano, la poesia si perde, e scappa dal quotidiano urbano per immettersi a bordo di una nave, quella di Cristoforo Colombo. E qui l’io segue l’angoscia di chi non trova la terra sotto i propri piedi, e continua a sperare, prima o poi, che all’orizzonte si palesi qualche cosa, ma non arriva nulla.
Ma la speranza, pur nell’insipienza di che cosa si spera, la terra, se stessi, la gloria, continua a sopravvivere, nel cuore di tutti i personaggi che affollano lo spazio dell’io: del ”io tu egli, uno qualsiasi”.
E pure nell’Oceano della Mappa 7 rimane viva la speranza. Infatti l’io urla ”dobbiamo continuare” e pone una serie di motivi: il profitto, Dio, la Regina, ciò che sta al di là, l’ombra, ciò che non ha più sangue. Ma implora, implora agli altri di sforzarsi, di provare a viaggiare con lui, di spiegare i perché, di non lasciarlo solo.
Ma la speranza più grande il nostro Colombo, noi, il poeta forse, la trova in quel lume, che non è luce ma è lume, che illumina il foglio dove si può scrivere. Forse il senso sta lì, nello scrivere, nell’immaginare e dunque travalicare quest’indifferenziato grigio, spaventoso e doloroso che è la vita.
Riprendendo un po’ Montale, ci troviamo di fronte a questo muro che diventa muraglia e che si dispiega ”in questo seguitare (…) che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”. Ed è insuperabile, è la realtà quotidiana. Ma il verso, l’arte, la letteratura, l’immaginazione, ci portano al di là di quel muro, perché non abbiamo più bisogno di superarlo con il nostro corpo, no, lo abbandoniamo e diventiamo soltanto mente, al di là della vita, al di là del reale. E forse è questo il senso dell’abbandonare il reale della Mappa 6 e il senso di tutto questo viaggio poetico.
Questa è l’unica speranza alla disperazione, ma bisogna essere consapevoli che l’immaginazione è fugace, immateriale ed evanescente e si rischia di crollare poi nella realtà come l’Albatros baudelairiano. Infatti è un lume, non una luce. Ma forse basta, a volte basta perdersi un po’, raccontarsi qualche bugia, cercare qualche senso fittizio e poi non chiedersi più nulla, basta un lume, o una piccola candela. La luce non c’è, o forse era la candela, o forse lo si capisce solo dopo, quando la candela non c’è più che era l’unica luce possibile, poiché impossibile quella vera.
Adesso che sono qui, con il piede
pg 95
sopra questa terra. Adesso posso dire che
nulla è ancora stato fatto
solo la candela
era luce vera.
Verso le stelle glaciali, un finale
io tu egli
pg 99
noi voi essi, persone
E’ solo il vento, questo vento che è il passare dei giorni, che nel suo andare porta via la vita. Il vento che è un elemento che ricorre spesso in tante poesie della quarta sezione Verso le stelle glaciali, il vento, i pronomi.
Due imperativi emergono da una delle prime poesie della sezione Questa sera c’è molto vento: bisogna, bisogna.
Bisogna stare soli; scattare una foto / mandarla a caso ai gruppi su wathsapp / perché le ombre parlino (…) come ricordi/ Bisogna aver perso il proprio cuore. O averlo lontano / innominato e perduto (…) / per resistere e non avere paura di questo vento (…) che ci dimentica e ci cancella. / Qualcuno che dice io. E dice amore. / Amore. Amore. Parola. Nero. Notte. E vento.
pg 102
Due imperativi che sembrano invocare una sorta di resistenza dell’io, che si ostina ancora a proseguire il viaggio e rimane attaccato, avvinghiato al verso e alla vita.
C’è chi parla di sé, c’è chi dice ”io”, un io che però non è nulla e che ci ostiniamo a rimarcarlo.
e questo io
pg 112
che ci ostiniamo a scrivere io
che è solo un buco
E qui rimarca nuovamente la perdita d’identità dell’io lirico che ha attraversato tutta l’opera. Ma qui l’io ha con se stesso un rapporto quasi più maturo, vagamente riflessivo, come se fosse arrivato quasi alla conclusione del suo viaggio e dovesse un po’ tirare le somme.
E così si arriva finalmente alla poesia che con un suo verso dà il titolo alla raccolta. Si apre con ”io”, lasciato lì solo, un’improvvisa apostrofe a se stesso: io.
Sembra dunque che qui, tutta quella diffrazione dell’io, tutta quella realtà esterna, sia finalmente riconfluita nell’io lirico, che torna o diventa forse finalmente protagonista. Riprende la scena e torna a parlare di sé e a far parlare la poesia di sé.
Io
pg 111
verso le stelle glaciali
oppure puoi dire
un sentiero già segnato, un ritorno, una riflessione
E questa poesia è autobiografica. Qui il poeta in prima persona parla di sé e della sua vita. Lo capiamo dall’anno di nascita, 1985, e da una serie di altri indizi: la fiat, i genitori, il quartiere di Milano ecc.
Il poeta vuole vivere, l’io vuole vivere, nonostante non sappia il perché. Vuole vivere anche se sferza il vento, che si porta via ogni cosa, anche se il il piccolo lume è l’unica luce possibile, anche se il dolore pervade le strade di ogni giorno e le muraglie attraversano tutti gli orizzonti. Non importa, l’io vuole vivere, anche in questa realtà mendace, terribile, dolorosa ma essenzialmente bella, sempre verso le belle, fredde e irraggiungibili stelle glaciali.
Per concludere
Viaggiare è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. (…) E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi. E’ dall’altra parte della vita.
Céline, Viaggio al termine della notte
Il viaggio che qui ci è presentato, in questi quattro percorsi, è un viaggio dentro di sé, alla scoperta di sé e di tutto ciò che vediamo e viviamo. Dunque lo si potrebbe definire un viaggio esistenzialista.
Un viaggio che è riflessione sul senso dell’esistere e che è continuativo, ci accompagna nei giorni, nei mesi e negli anni, e ha dei tratti fortemente celiniani, come quel Voyage au bout de la nuit che arrivava allo stesso punto: all’io, a sé.
In questo senso, il viaggio che ci è dato non ha altra conclusione se non dentro di noi. Non serve andare tanto lontano, basta riflettere. E’ dall’altra parte della vita.