Da dove viene il successo di “Uvaspina” di Monica Acito?
Su Uvaspina, il romanzo di esordio di Monica Acito, si è scritto molto. Troppo? Dopo la vittoria al Premio Calvino Racconti nel 2021, la scrittrice e professoressa napoletana, fiore all’occhiello della Scuola Holden di Torino, ha pubblicato il suo primo romanzo con Bompiani ed è stata accolta con un elogio pressoché unanime da parte della critica. Negli ultimi mesi del 2023 Uvaspina ha vinto il premio Massarosa e il Premio Fiesole per la narrativa under 40. Ora è candidato anche al Premio POP 2024 e, sebbene non sia rientrato nella cinquina finalista, ha continuato a farsi notare come uno degli esordi più promettenti degli ultimi anni. Perché? Quale allineamento di pianeti ha realizzato questo successo? Ma soprattutto, questo successo è meritato?
Uvaspina, per prima cosa, è una storia inventata, il che non è scontato in un panorama letterario come quello di oggi, stracolmo di racconti di non-fiction e di autofiction, e forse saturo. Dunque, il primo ingrediente della sua popolarità è il fatto di aver intercetto una tendenza – o una controtendenza – macroscopica: un grande ritorno alla finzione. Un ritorno testimoniato anche dalla stragrande maggioranza dei romanzi candidati al Premio POP e al Premio Strega 2024, in cui, più che al tema (non una storia “vera”, da onorare e rispettare solo in quanto “vera”), viene dato risalto allo stile, alla voce autoriale e all’intreccio della trama.
Ed è proprio nella trama che si può ritrovare il secondo ingrediente della buona riuscita del romanzo. L’opera racconta le vicende adolescenziali di Uvaspina e Minnuccia, fratello e sorella cresciuti in una Napoli onnivora e densa di tradizione e magia. Lui, soprannominato come la forma della voglia che ha sotto l’occhio (o come le bacche del cespuglio su cui è stato concepito), è destinato ad essere spremuto dagli altri proprio come un acino d’uva. Lei, Minnuccia, è la principale spremitrice: una trottola inarrestabile che, invidiosa della grazia femminile di Uvaspina e viziata da una madre accondiscendente, non perde l’occasione torturare il fratello a furia di violenze fisiche, verbali e psicologiche.
Allora Uvaspina non può fare altro che rifugiarsi nell’amore di Antonio, un pescatore dagli occhi diversi che per primo lo accompagna nella scoperta della propria sessualità, una sessualità proibita e considerata un assoluto tabù nei vicoli di Napoli. Il loro rapporto omoerotico ha qualcosa di iniziatico, come quello che, nella Grecia classica, univa allievo e maestro. E in effetti il personaggio di Uvaspina, “femminiello” al liminare della vita adulta, figura ibrida, fluida, nel vivo di un profondo cambiamento esteriore e interiore, sembra compiere un rito di iniziazione lungo tutto il romanzo, che sicuramente deve molto agli studi classici dell’autrice.
Il merito di una trama del genere è il fatto di inserire il tema della fluidità e della sessualità in un quadro complesso e reale, senza cadere nei soliti cliché, senza accontentarsi di una visione superficiale della questione. Ancora una volta, non è l’argomento a fare la qualità del romanzo, ma il modo in cui è raccontato.
Lo stesso vale per Napoli. La città è lo sfondo prediletto di innumerevoli narrazioni italiane ed estere, letterarie e cinematografiche. Raccontarla con originalità ed evitando gli stereotipi non è affatto un compito semplice e Monica Acito decide di farlo attraverso il filtro della superstizione. Nel romanzo, Napoli non è la capitale della mafia italiana, non è la città con il mare più bello del mondo, non è coperta di spazzatura. Nella Napoli di Uvaspina, ogni questione sociale, ogni realtà, è subordinata alle credenze popolari, all’aura di magico e misterioso. Ogni soglia della vita – un matrimonio, un incidente – viene preannunciata o volontariamente predeterminata da un gesto rituale.
Così bollire un fazzoletto macchiato di sangue in una pentola è il modo migliore per compiere un omicidio. E sciogliere del piombo in una bacinella d’acqua la notte di San Giovanni può rivelare l’identità del proprio futuro marito. Se si tratti di coincidenza o di magia, sceglierlo sta a chi legge. Così si rimane, insieme ai personaggi, increduli e confusi di fronte all’ambiguità della verità.
Una soluzione ben più riuscita se confrontata con quella di un altro romanzo d’esordio di un’autrice della Scuola Holden, pubblicato sempre nel 2024, La Malnata di Beatrice Salvioni, vero e proprio caso editoriale, pubblicato contemporaneamente in tutta Europa. Qui la protagonista, con il potere della parola, controlla per incanto le altre persone, in uno scenario lombardo in cui la superstizione riguarda lei soltanto, e non penetra nelle viscere della realtà come in Uvaspina.
A fare Napoli, nel romanzo della Acito, sono soprattutto le persone, con le loro piccole credenze e con la loro voce. La stessa voce narrante, pur essendo onnisciente, è vestita della musicalità del luogo e utilizza espressioni dialettali come se fosse una comare del paese intenta a raccontare la storia di Uvaspina e Minnucia. Abbonda poi nelle similitudini, una strategia stilistica che si sposa alla perfezione con un’ambientazione in cui ogni cosa non è mai soltanto se stessa, ma si compone di rimandi e modi di dire che permeano tutta la città.
Le persone, a loro volta, nascondono mondi. I personaggi di Uvaspina sono moltissimi e reali perché il femminiello che dà il nome al romanzo è soltanto una parentesi della loro vita. Ciascuno di loro ha una storia che procede parallela alla trama principale del romanzo: Graziella La Spaiata, madre dei due fratelli, ogni mercoledì sera inscena la propria morte di crepacuore per elemosinare un’attenzione del marito; Pasquale Riccio, il padre fedifrago e pieno di debiti, deve trovare un successore alla presidenza del Circolo Nautico di Posillipo per non fare una brutta fine. E molti altri come loro, che compongono l’universo del romanzo in un equilibrio delicato.
Allora non rimane che chiedersi: cosa non funziona in Uvaspina? Poco, in realtà. L’insistenza sulle scene di sesso raccontate con trasporto nella parte centrale del romanzo potrebbe sicuramente sembrare stucchevole a qualcuno, anche se rende bene il punto di vista dei protagonisti, che le vivono come un momento catartico. Le similitudini, essendo numerosissime, non sono sempre ben riuscite e a volte sembra che l’autrice si sia sforzata di trovarne di nuove solo per rispettare il pattern stilistico prefissato. La risoluzione finale della trama non ha nulla di sorprendente e si salva grazie all’ultima scena che regala al racconto un’ultima nota di chiaroscuro.
Per il resto, Uvaspina merita l’entusiasmo con cui è stato accolto. L’opera prende il meglio sia dai racconti popolari, con il loro mistero e la loro poesia, sia dalle narrazioni più pop tipiche della Scuola Holden, spesso criticate per la faciloneria della trama e dello stile. E ci aggiunge un taglio originale che è tutto farina del sacco di Monica Acito. Non resta che aspettare il suo prossimo romanzo.
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