USA 2020: Per una storia della democrazia americana – Parte 2
Gli europei sono abituati a considerare la democrazia come un filo che, nato dai telai della Grecia classica, si è poi dipanato attraverso i fasti della Roma repubblicana; per poi riemergere nei Comuni medievali e, esportato dai britannici, finire con l’ornare dei propri traguardi l’intero mondo civile e le sue propaggini, quali il Nordamerica.
Una visione, questa, quanto mai fuorviante. Non vi è stata continuità tra democrazia classica e moderna. E se è vero che le origini del pensiero liberale che caratterizzante quest’ultima vadano rintracciate nell’Inghilterra di fine XVII-XVIII secolo, essa si però è sviluppata nel XIX secolo nei neonati Stati Uniti.
“Avremo una repubblica, se sarete in grado di mantenerla”
Con tali parole, nel 1787, Benjamin Franklin si rivolse ad una signora che, terminati i lavori della Convenzione di Filadelfia, gli aveva domandato per quale forma istituzionale avessero optato i padri fondatori dell’Unione. Una risposta che tradiva l’approccio originale dei framers: gli USA non avrebbero dovuto essere una democrazia (parola che mai appare nella costituzione), bensì una repubblica.
Il termine demokratía, sulla scia dei pensatori politici classici, richiamava una pericolosa incarnazione del governo da parte del popolo. La nuova Unione avrebbe invece dovuto essere guidata da elitisti illuminati, prestati solo temporaneamente alla politica. Una rappresentatività per censo sarebbe stata il diaframma da frapporre tra il perseguimento dell’interesse pubblico e l’umoralità delle masse.
Gli americani, dal 1776 resisi indipendenti dalla corona britannica, avrebbero riperduto la libertà solo se la popolazione avesse imposto la propria volontà alla classe dirigente.
Un simile distacco tra cittadinanza e res publica avrebbe dovuto rendere immune la giovane nazione dalla violenza in cui era caduta la vecchia Europa. Da ciò, la diffidenza di George Washington verso i partiti politici, forieri di potenziali conflitti interni. Fuori d’ogni contrasto, la minoranza avrebbe dovuto esporre i problemi ad una maggioranza che doveva limitarsi ad ascoltare.
La rivoluzione ottocentesca del self-government
Scomparso Washington, a fine Settecento quell’universo gerarchico in cui continuavano a muoversi figure di spicco quali James Madison e Thomas Jefferson finì presto con l’assumere un connotato sempre più orizzontale.
Merito di un concetto che germogliò in quel frangente, secondo cui l’affermazione individuale era conseguibile attraverso l’esercizio della cittadinanza. Un paradigma che ribaltava la concezione illuministica europea, portando al sorgere d’una peculiare forma di democrazia: una vera e propria rivoluzione, che agli occhi dell’Europa divenne la caratteristica più distintiva del popolo americano. Nonché, per gli americani, il proprio contributo più rilevante alla storia.
Il cuore d’una siffatta democrazia andava rinvenuto nell’autogoverno popolare. Checché ne pensassero le élite, il popolo pose da parte i valori individuali, rinvenendo nella sfera pubblica non una minaccia indirizzata a una libera espressione di questi ultimi, bensì il principio di una fruttuosa coesistenza, sempre in divenire. L’esatto contrario di quanto capita oggi.
Il termine “autogoverno” possedeva dunque un significato collettivo, che s’integrava con l’autodeterminazione individuale: con quell’individualismo di derivazione lockiana che oggi associamo ad una forma di egoismo, ma che in origine puntellava l’esistenza di una salda collettività umana.
Se ancora i primi partiti diffusisi a livello nazionale ad inizio Ottocento (quello federalista ed il repubblicano) erano organizzati in maniera verticistica attorno alle grandi personalità della rivoluzione, questo modello scomparve dopo la guerra anglo-americana del 1812-1815.
L’opinione pubblica voleva essere partecipe delle grandi questioni del tempo. Dalle ristrette élite settecentesche, il potere subì quindi una progressiva estensione: nei singoli Stati, gli ordini cessarono di calare dall’alto ed il potere si trovò sempre più decentrato in cellule di autogoverno.
La democrazia jacksoniana
Un simile scenario si dispiegò in tutta la sua dirompenza nell’epoca della “democrazia jacksoniana“, principiata con la rivincita di Andrew Jackson alle presidenziali contro John Adams nel 1828 (la quale condusse peraltro al frammentarsi del Partito repubblicano in democratici e whig).
Era il trionfo del movimento che avrebbe infine abbattuto il potere dell’aristocrazia terriera.
Lo spostarsi della frontiera verso l’Ovest favorì un’ampia diffusione della piccola proprietà presso l’etnia bianca. Scomparvero così gran parte delle obbligazioni connesse alla lavorazione delle terre, che in Europa continuavano a soffocare buona parte della popolazione, rallentandone lo sbocco democratico.
L’autodeterminazione in campo lavorativo conferiva la perizia necessaria per partecipare alla vita pubblica, divenendo così l’irrinunciabile orpello del self-government negli USA. Qui, il costume democratico divenne una vera e propria competenza, mentre le ultime vestigia del privilegio politico vennero distrutte.
È in un simile contesto di piccoli possidenti che si sviluppò un primigenio concetto di populismo. Lontano dal rivestire l’odierna accezione di secessio plebis, rintracciava l’essenza della democrazia in quell’autosufficienza delle comunità tanto decantata da Tocqueville. Un’autosufficienza che sola poteva scongiurare il pericolo di una “tirannia della maggioranza”.
Guerra civile e democrazia
Si può pertanto comprendere come mai gli americani ritenessero che la democrazia non potesse aver futuro in un paese di lavoratori dipendenti; nonché perché i sudisti paragonassero lavoro salariato e schiavitù. Anche per Abraham Lincoln (come dimostra l’Homestead Act del 1862), il lavoro dipendente avrebbe dovuto essere una condizione temporanea lungo la strada d’una piena autonomia individuale; ma la Guerra di secessione, di cui egli stesso fu protagonista, contribuì a scompaginare una simile realtà.
Essa scoppiò di fatti per fattori economici, oltre che morali. Gli Stati del Sud richiedevano l’adozione di una politica liberista, consona agli affari dei grandi latifondisti. Al Nord si perorava invece una causa protezionista, all’ombra della quale far crescere l’industria nazionale (non sempre liberalismo e progresso vanno a braccetto).
Si combatté insomma per stabilire quale tipo di sviluppo avrebbe dovuto connotare l’avvenire dell’Unione: una lotta per affermare la visione della propria comunità, ricordata da ambedue le parti quale vitale espressione di democraticità.
L’abolizione della schiavitù permette di sottolineare il portato allo stesso tempo inclusivo (dei maschi bianchi) ed esclusivo (di donne, amerindi e afroamericani) della democrazia ottocentesca. Una situazione che, pur sotto altre forme, sarebbe perdurata tanto al Nord, quanto al Sud.
L’invasione di quest’ultimo, operata dalle truppe nordiste di Ulysses Grant, aprì la cosiddetta “era della ricostruzione”: nei fatti, un’occupazione militare.
Oltre allo smantellamento della schiavitù, agli ex-confederati venne imposto il modello di sviluppo industriale predominante al Nord. Se la liberazione degli ex-schiavi non portò alla loro integrazione nella comunità nazionale (organizzazioni come il KKK presero anzi forza), l’espandersi del paradigma industriale fece sì che il lavoro salariato smise di riguardare solo una minoranza della popolazione.
Un simile mutamento sociale non poteva che coinvolgere la stessa essenza della democrazia americana.
La metamorfosi della democrazia fra Otto-Novecento
Il rigoglio della vita democratica aveva compattato l’eterogeneità insita in un popolo d’immigrati, rendendolo un popolo di cittadini. Il tasso di alfabetizzazione era aumentato vertiginosamente: ricordandoci come la democrazia non debba essere un fine in sé; bensì un sistema da giudicare in base ai successi conseguiti nell’innalzare il livello culturale e morale della popolazione.
E sebbene l’Ottocento americano non fosse stato scevro dei dissidi interni e delle diseguaglianze cui oggi siamo abituati, mai la differenza nei livelli di ricchezza aveva impedito il dialogo fra le diverse parti sociali: era compensata dall’accesso paritario alla vita civica.
Una simile mancanza di ordine gerarchico, che pareva caos agli europei, fu la più grande fra le conquiste della democrazia in America. Le cose però cambiarono.
A cavallo fra XIX-XX secolo, si prese di fatti a colmare tal peculiare assenza di classi sociali gerarchicamente strutturate. Un contributo giunse dal governo di Washington, che si adoperò per invertire ogni tendenza decentralizzatrice. Altri fattori importanti risultarono essere la chiusura della frontiera, nel 1890, che rese impossibile perpetrare un’uguaglianza fondata sull’ampia diffusione della piccola proprietà; nonché la seconda ondata d’industrializzazione, col suo portato tecno-scientista ed accentratore di capitali e centri decisionali.
L’era progressista (1890-1920)
Finché i redditi reali erano cresciuti, i confini tra middle e lower class erano rimasti labili. La fase di stagnazione in cui s’incagliò la prima globalizzazione a partire dal 1873 mise però in crisi i gruppi sociali di confine. Le due estremità della classe media entrarono in fermento: all’apice, un’upper class tentò di costituire un’aristocrazia del denaro; sul fondo, una variegata working class cercò di sviluppare un’autocoscienza unitaria. Entrambi i tentativi abortirono: la collettività reagì contro i sogni plutocratici dell’una; mentre la forza attrattiva della rispettabilità medio-borghese influenzò i leader radicali, portando al riassorbirsi delle loro istanze (di genere, etnia, equità sociale) nella dinamica democratica.
Gli stessi presidenti dell’epoca rifiutavano l’idea per cui la divisione in classi contrapposte dovesse essere il prezzo da scontare in vista del progresso. Specialmente Theodore Roosevelt perseguì un uso estensivo dello Sherman Act, per condurre una lotta contro quei trust il cui potere extra-congressuale andava a indebolire l’autorità pubblica e l’ordine sociale.
Ciononostante, nessuno impedì l’eclissarsi di una lower class sempre più isolata dal resto della cittadinanza. Per la prima volta, la classe media ritenne che le differenze sociali fossero ormai impossibili da colmare.
A preoccupare non era la povertà in sé, quanto la cultura della povertà che ne derivava. “Unskilled” divenne il termine atto a designare questi gruppi umani: non specializzati, dunque inadatti a prender parte alla vita pubblica. Un pregiudizio che si allargò al resto della cittadinanza. Non v’era più fiducia nei confronto dell’autogoverno di un popolo ritenuto incapace di colmare il proprio cultural lag nei confronti del progresso: era la fine della democrazia quale concepita nell’Ottocento.
Non bisogna pertanto stupirsi se l’affluenza alle urne prese a decrescere con costanza e nonostante l’approvazione del XIX emendamento nel 1920. Il suffragio estese sì il suffragio alla popolazione femminile, raddoppiando di colpo il corpo elettorale; ma i gruppi sociali più deboli disertavano il voto. Talvolta, continuarono persino ad esserne estromessi.
Novecento e democrazia
La stessa classe media finì col dividersi sul modo di gestire le politiche pubbliche in questa fase di transizione. Ne emersero una classe nazionale ed una media-locale: l’una guidò il passaggio da una società agricola ad una urbano-industriale, senza però riuscire a trapiantare la democrazia nel nuovo contesto metropolitano; l’altra ripiegò nel proprio particolarismo Middle-American.
National, middle e lower class: su tal sistema gerarchico tripartito s’instaurò la democrazia americana del Novecento. Stratificata, ma anche più inclusiva rispetto all’ava ottocentesca.
Data l’ampiezza della tematica, è bene limitarsi ad individuarne alcun punti-chiave.
- Warfare/Welfare State. Gli USA emersero dal primo quarto del XX secolo come società stratificatasi all’interno; ma novella superpotenza all’esterno.
Gli americani si trovarono a sostituire i britannici quali campioni della democrazia liberale: il che li condusse ad impegnarsi, dopo la lotta congiunta al nazifascismo, in uno scontro epocale col comunismo sovietico. Sicché, a fine Guerra Fredda, la democrazia si trovò unica vincitrice della carneficina ideologica caratterizzante il Novecento.
Per sostenere un simile sforzo, gli Stati Uniti dovettero dotarsi di un poderoso complesso militare-industriale, atto a proiettare potenza all’esterno e a sostenere una società del benessere all’interno. Già Dwight Eisenhower mise in guardia, nel suo discorso di congedo del 1961, sull’influenza che tal apparato stava assumendo nei riguardi della democrazia. A donare un tono profetico a tali parole avrebbero contribuito tanto l’omicidio di J.F. Kennedy a Dallas, due anni dopo, con le molte zone d’ombra mai chiarite alla cittadinanza; quanto i diversi golpe anti-democratici favoriti in giro per il mondo, per motivi di potenza. - Mass media. Una tendenza al disimpegno civico può rintracciarsi nella parabola dei media. Precedentemente partigiani e oggetto di consumo popolare, nel Novecento i giornali presero a puntare sull’obiettività. Sulla scia del famoso pubblicista Walter Lippmann, la classe nazionale prese a ritenere che, scomparse le condizioni sociali in cui la democrazia aveva affondato le proprie radici, la popolazione non avesse più né le competenze, né tantomeno l’interesse a governarsi da sé. La stampa avrebbe dovuto dunque diffondere notizie “neutrali”, indirizzate agli esperti nazionali; non più incoraggiare la discussione.
Eppure, l’informazione non generata né sostenuta dal pubblico dibattito finisce col divenire inutile in una democrazia: l’informazione dovrebbe essere il prodotto, non la precondizione del dibattito. In altre parole, è deleterio venire inondati da flussi di notizie se non si conoscono le domande da porsi.
Come mostrato dagli effetti sociali sortiti dalla rivoluzione delle comunicazioni. L’innovazione tecnologica ha di fatti enormemente facilitato l’accesso alle informazioni; eppure il livello di consapevolezza pubblica è assai calato.
Un siffatto metodo comunicativo può persino rivelarsi manipolativo: oggi, specie sui social media, le notizie sono sempre più spesso prodotte da chi desidera promuovere qualcosa, o qualcuno. L’epoca delle post-verità esercita così, attraverso lo strumento mediatico, un influsso assai negativo sulla vita democratica. - Il compromesso locale-nazionale. Inaugurato negli anni Trenta per far fronte allo sfacelo della Grande depressione, sul compromesso tra national e local-middle class hanno poggiato per decenni gli equilibri democratici del paese. Lo rese necessario il New Deal di Franklin D. Roosevelt, che garantì decenni di politiche bipartisan di sostegno statale alle comunità locali; ma al di sotto di tal patina di convenienza si celavano valori e approcci alla vita nazionale totalmente differenti.
Da qui derivano alcune delle fratture oggi frastaglianti la vita del paese (coste-interno, città-campagna); nonché il germe dello spauracchio dell’America profonda per il Big Government.
Come mostrato dal totalitarismo, non è sufficiente un welfare per rendere democratica una società. Di certo alleviava le sofferenze delle categorie più disagiate; ma tal compromesso s’incrinò definitivamente a partire dalla presidenza Nixon. La crisi di stagflazione dei primi anni Settanta riaccese le mai sopite critiche allo Stato keynesiano, posto tra i fuochi incrociati sia di destra che di sinistra. Entrato in crisi di legittimità, esso venne sepolto sotto i colpi della rivoluzione neoliberale, assieme al compromesso fra classi. - Individualismo. Negli anni Venti, l’avvenuta distinzione in classi favorì l’emergere di un’interpretazione riduttiva del mito americano del self-made man, ora inteso come mobilità sociale. La possibilità di ascendere la scala gerarchica grazie al merito personale divenne un’illusione necessaria per gli statunitensi; nonché l’unica forma d’uguaglianza concepita dalle élite.
L’istruzione pubblica avrebbe dovuto sostituire la frontiera quale fattore redistributivo di pari opportunità. L’avanzamento sociale era invece da attribuirsi alle capacità dei singoli, che dovevano competere con le proprie controparti per assurgere ai ranghi alti della società.
Si può pertanto comprendere come l’autodeterminazione individuale venne a perdere il proprio connotato collettivo, assumendo l’accezione di appagamento personale: meramente egoistica e, in ultima istanza, anti-sociale. Individualismo divenne libertà negativa di singoli considerati alla stregua di atomi slegati dalla comunità. Gli anni Ottanta lo elevarono a dogma, quando la Reaganomics rilasciò il mostro del neoliberalismo: nientemeno che un’ideologia atta a spiegare la giustizia insita nelle disuguaglianze.
Accolto ai tempi come una promettente rivoluzione, oggi dobbiamo fare i conti con le ripercussioni non solo economiche, ma anche etiche ed assiologiche, venute al pettine dopo quasi mezzo secolo di pratiche neoliberaliste.
Alcune menzioni speciali
Su simili argomenti ci sarebbe di che riempire libri interi. Ci si limiterà dunque a pochi cenni su tematiche importanti per la democrazia, prima di riemergere nel presente.
I diritti umani
Gli argomenti sui diritti dell’Uomo vennero posti nell’introduzione alla Dichiarazione di Indipendenza del 1776, per definire una legittimazione che esulasse dalla fedeltà al monarca. Gli emendamenti, dal canto loro, definirono i diritti civili interni alla nazione americana.
Si dovrà attendere sino al 1948 per rinvenire, nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, una concezione di tali diritti quali appartenenti a ciascun membro della specie umana.
Purtroppo la UDHR pretese di applicarsi ad ogni individuo senza trattare la questione delle diversità culturali. Tali diritti vennero dunque concepiti nei termini valoriali occidentali, finendo col divenire una mera legittimazione all’intervento internazionale in paesi nemici.
Si è venuto a creare uno scenario in cui il desiderio personale è legittimato ad imporre obblighi a terzi: un’ottica rivendicazionista che assume la forma del bellum hobbesiano, più che instaurare una concordia pratica tra cittadini e nazioni. La logica di diritti così concepiti risulta assai fallace.
La democrazia per gli esclusi: il caso afroamericano
Né bisogna stupirsi di come la Dichiarazione del 1776 si fosse scordata di menzionare la schiavitù, istituto all’epoca assai diffuso e redditizio; o la reclusione femminile, o lo sterminio amerindo.
La democrazia convisse per decenni con simili esclusioni, finendo col fondere assieme razzismo (e misoginismo) e processo di nation building. Anche dopo che gli emendamenti XIII-XIV-XV ebbero proibito limitazioni all’elettorato basate sulla razza ed allargato a tutti i diritti civili, un ristrettissimo numero di afroamericani (e nessuna donna) poteva votare.
Le comunità afroamericane presero così a costituire una nazione dentro la nazione. Proiettando le proprie azioni sui neri, e negandole a se stessi, i bianchi ne crearono un’immagine di potenziali oppressori, a giustificazione del perpetuarsi di violenze ed esclusione.
Sicché i leader afroamericani riposero le speranze di forzare la morsa razzista nella national class. Grazie ai nuovi canali comunicativi, un evento locale quale il boicottaggio dei bus a Montgomery, nel 1955, assurse a rilievo nazionale. Iniziò così una marcia conducente al Civil ed al Voting Rights Act, approvati sotto la presidenza Johnson nel 1964-1965.
La grandezza di un leader come M.L. King consistette appunto nell’appellarsi a un comune standard di giustizia e condotta civile: giocò insomma i valori della classe nazionale contro il razzismo ancora imperante sul piano locale. Il sogno coltivato da W.E.B. DuBois di una nuova definizione di americanità, che riflettesse i particolarismi etnici senza negare l’appartenenza a una comune cultura, sembrò doversi realizzare dopo le battaglie degli anni Sessanta. Così non fu.
Nel 1975 gli apparati incaricarono la stesura di un “rapporto sulla governabilità delle democrazie”. In esso si sosteneva che “la vitalità della democrazia negli anni Sessanta” aveva finito col generare una “spirale dell’ingovernabilità”. La soluzione? Includere “una certa dose di apatia e disimpegno” nel sistema democratico.
La cittadinanza, una volta soggetto agente, veniva ora considerata alla stregua d’un oggetto da plasmare e tenere a bada: qualsiasi ne fosse l’etnia.
Sull’integrazione razziale la democrazia americana si giocò il proprio futuro, e infine perse.
Essa non si tradusse in una politica che conferisse pari accesso a una comune cultura civica. Dopo l’ondata di universalizzazione degli anni attorno al Sessantotto, la stagnazione del decennio seguente fece sì che le relazioni interraziali tornassero ad essere una questione solamente redistributiva.
Oggi l’idea stessa di standard unico è attaccata come razzismo istituzionale. È la cultura occidentale in sé a considerarsi razzista: come mostrato dalla vicenda Floyd e dalla successiva follia iconoclasta.
Il mai superato background storico fa sì che sia impossibile ignorare l’importanza dell’etnia negli USA.
From Twenties to Twenties: ritorno al presente
I precedenti anni Venti hanno rappresentato un’epoca di roboanti cambiamenti e convivenza dell’antitetico. In quelli che si sono appena aperti, queste opposizioni introdotte dal progresso sono giunte a piena maturazione, catalizzate dalla crisi pandemica.
La democrazia al bivio
Quello razziale è solo uno dei tasti sollecitati da Trump. Gettata rapidamente la maschera del condottiero anti-sistema preoccupato delle sorti dei forgotten della rust belt, da buon populista il tycoon ha governato evocando “il popolo” come entità omogenea, per poi rattizzarne ogni focolaio di divisione e di conflitto etnico, sociale e culturale. Strategia classica del dividi et impera.
Trump non ha sostenuto i connazionali in difficoltà; ha bensì fatto gli interessi di Wall street e di una sempre più potente upper class. Membro di quest’ultima, ha giocato una popolazione spaurita e incattivita contro gli interessi della medesima: oggi più che mai, le vere divisioni negli Stati Uniti sono quelle di classe.
Dal trumpismo dobbiamo imparare che non esiste un’uscita populista dall’epoca neoliberale: populismo e sovranismo ne sono un effetto, cui va ad aggiungersi una più recente curvatura disciplinare. La quale non è definibile come fascista, perché incorpora appunto il lascito neoliberale di un individualismo libertario incompatibile con i precedenti autoritari novecenteschi; ma comporta dosi massicce di classismo, razzismo, xenofobia e misoginia che sono incompatibili con una società sinceramente democratica.
Il bivio perciò è tracciato: da una parte una radicalizzazione del progetto socialdemocratico, col rilancio di un qualche tipo di New Deal (possibilmente green); dall’altra, una tecnocrazia post-liberale, allineata con il capitalismo digitale. Lungi dal limitarsi agli USA, esso attende al varco l’intero Occidente.
L’america nella tempesta
Trump non ha rappresentato un’anomalia rispetto alla retta via della normalità democratica. Ne ha piuttosto rivelato i limiti, detonandone le contraddizioni accumulatesi nel tempo.
Presidenti come Ronald Reagan o George W. Bush sono ben più responsabili di Trump in merito al clima tossico che sta corrodendo la democrazia odierna; ma Trump ha oggi il potere di cavalcarne l’onda.
Capitol hill ha sancito il definitivo scollamento dell’America profonda dalle istituzioni pubbliche. Era da aspettarselo: il miliardario newyorkese si è ritagliato il proprio spazio in politica fomentando le teorie che vedevano Obama come un presidente illegittimo, poiché non nato su suolo americano. Poco importa che fosse una fake news: solo una delle circa 18mila diffuse da Trump negli anni, secondo un’indagine del Washington Post. Conta quel che l’elettorato crede. Su tal falsariga ha perseverato il tycoon e questi ne sono i risultati.
Per quanto riguarda invece il recente discorso del 28 febbraio, esso allunga l’ombra di una ricandidatura trumpiana nel 2024; accompagnata da quattro anni di campagna elettorale ininterrotta, che non potrà che contribuire ad un’ulteriore suddividersi del paese su posizioni arroccate in una reciproca contrapposizione. Un simile scenario risulta più preoccupante se si considera il tasso di violenza interna al paese ed il sempre più elevato numero di armi liberamente circolanti.
Joe Biden non avrà vita facile nel ricompattare la nazione: probabilmente non ce la farà. Le elezioni sono passate, così non sarà per il malessere degli statunitensi. L’America è entrata in una tempesta perfetta e non è una buona notizia. Né per la democrazia, né per il mondo.
Post Scriptum: da ogni attenta analisi emerge un quadro poco rassicurante sulla salute della democrazia nel XXI secolo. Eppure, da ciò non deve derivare alcun rassegnamento: nessuna profezia auto-avverantesi. Parlando di storia contemporanea, è necessario ricordarsi che siamo noi, che esistiamo al giorno d’oggi, ad essere agenti del futuro: nostro personale, ma anche collettivo.
Personalità come Donald Trump hanno ampio risalto mediatico; ma sono in minoranza.
Che il cambiamento possa passare da una maggioranza sin oggi silenziosa, ma che potrà finalmente alzare la testa nel futuro di crisi che ci aspetta. Dando magari inizio ad una “rivoluzione gentile”, chissà. Se ne sente un gran bisogno.
Sitografia
https://www.limesonline.com/tag/usa-2020s
https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/weekly-focus-usa2020-25188
https://www.ilpost.it/tag/usa-2020/
https://www.internazionale.it/opinione/ida-dominijanni/2020/11/02/elezioni-stati-uniti-2020-tempesta-perfetta
https://www.internazionale.it/opinione/david-remnick/2020/11/11/comincia-era-biden?fbclid=IwAR2G86d8Fyj31w8-9OOOMoaaoY9EH-TiI5U4spAPKfLm7Er3Ey-4o4npSb
Bibliografia (utilizzata/consigliata)
Robert H. Weibe, La democrazia americana, Il Mulino 2009;
Christopher Lasch, La rivolta delle élite, Neri Pozza Editore 2017;
Eric Foner, Storia degli Stati Uniti, Donzelli Editore 2017;
Andrea Zhok, Critica della ragione liberale, Meltemi 2020.
Marco D’Eramo, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, Feltrinelli Editore 2020.
Dani Rodrik, La globalizzazione intelligente, Editori Laterza 2011.