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UNA SCATENATA VOGLIA D’ESSERE VIVA. IL “BELLO MONDO” DI MARIANGELA GUALTIERI – PREMIO VIAREGGIO REPACI POESIA

Bello mondo

Se è vero che la poesia si configura come una fitta stratificazione di veri e propri ipodiscorsi che vanno dall’ambito fonico a quello semantico spingendo le possibilità e le mire comunicative del discorso oltre la pura informazione, la scrittura di Mariangela Gualtieri, una delle voci poetiche più apprezzate della scena contemporanea, è un lampante esempio di tale attitudine. Nella sua versificazione le componenti fonica e orale appaiono sempre preponderanti, partecipando in maniera pertinente e discreta al conferimento di senso del testo.

Più di ogni altra, la poesia di Gualtieri congiunge gli elementi ricavati dal suono (primo livello di senso, alogico) e dal significato (secondo livello, semantico) garantendo al testo quel surplus di informazione che realizza connotazione al di là della semplice denotazione (terzo livello, connotativo). L’attenzione ai valori fonosimbolici della lettera contribuisce cioè alla moltiplicazione dei significati e alla realizzazione del carattere intensivo della poesia, creando un discorso plurimo che assicura al testo un’ulteriore accezione sprigionata dalla connotazione, cifra peculiare del fare poetico.

Non si riesce infatti, nella lettura silenziosa del suo Bello mondo (Einaudi, 2024), a isolare segni grafici che compaiono sulla pagina dal ricordo della voce della poeta e dalla sua presenza sulla scena. Le sillabe limpide, le pause, le braccia incrociate dietro la schiena, il volto che nell’espressione asseconda la parola e la riempie. E ancora le variazioni del tono, le mani che si aprono, le sopracciglia corrucciate. Persino le rotture della quarta parete, laddove la vita erompe e si fa poesia e la poesia non ha più bisogno di un intervallo liminare che separi sacralmente la parola-poetica dalla parola-di-tutti-i-giorni. Sono tutti elementi che vivono sulla pagina di questo libro e, tra gli spazi bianchi, sono inevitabilmente rievocati. Gualtieri incarna la poesia. Anche attrice e drammaturga, fondatrice nel 1983 con il regista Cesare Ronconi del Teatro Valdoca, l’autrice cesenate riconduce l’arte poetica alle sue origini di “fatto acustico” e di parola ritmica “cantata” da una voce e passata al vaglio dell’oralità, nonché della sua naturale vibrazione. Una poesia dunque che, come scrive in Fuoco centrale, sorge «sempre a ridosso della scena» e che «ha ritmica, ha melodia, timbro. Musica è. Tutti i poteri della musica. Tutti li ha»1:

Io ringraziare desidero il divino
labirinto delle cause e degli effetti
per la diversità delle creature
che popolano questo universo singolare
ringraziare desidero
per l’amore, che ci fa vedere gli altri
come li vede la divinità
per il pane e per il sale
per il mistero della rosa
che prodiga colore e non lo vede
per l’arte dell’amicizia
per l’ultima giornata di Socrate
per il linguaggio, che può simulare la sapienza
io ringraziare desidero
per il coraggio e la felicità degli altri
per la patria sentita nei gelsomini

e per lo splendore del fuoco
che nessun umano può guardare
senza uno stupore antico

Sfogliando Bello Mondo si ripercorre buona parte della sua produzione. Cinquantanove poesie da otto diverse opere, tra sillogi poetiche e testi teatrali: Ossicine (1994), Fuoco centrale (2003), Senza polvere senza peso (2006), Bestia di gioia (2010), Le giovani parole (2015), Quando non morivo (2019), Paesaggio con fratello rotto (2021), Giuramenti (2021, debutto teatrale nel 2017). È un libro dedicato al lettore, alla sua fame di bellezza, al suo “capire” e al suo “non capire”, al suo “coraggio” e alla sua “paura”. Mariangela Gualtieri esordisce specificando «Sono qui raccolti i versi a cui ho dato voce davanti a ragazze e ragazzi di ogni età, in varie scuole, dalle primarie agli atenei, in teatri, in centri giovanili, nei centri occupati delle grandi città. È stato come dare pane a spiriti denutriti e affamati». I bambini e i cuccioli, i piccoli corpicini anche rotti, anche spezzati, sono il Leitmotiv di queste pagine. Il loro incondizionato amore per la vita emerge senza vincoli, diventa l’essenza da cui il bello mondo sembra voler ripartire. La loro, ci ricorda ad ogni verso la poetessa, è però una stagione fugace in cui tutto si sente ma nulla è definito né certo. Proprio da qui pare nascere il mistero della poesia gualtieriana, a tratti impenetrabile nella sua essenzialità: si gridano la meraviglia (Meraviglia dello stare bene), il «ridere largo», la ricerca di gentilezza e dolcezza (Sii dolce con me. Sii gentile). Eppure «è breve il tempo che resta», non si hanno abbastanza parole. Un grande messaggio di verità è stato consegnato al lettore-uditore un attimo prima e, l’istante successivo, si torna ad essere indeboliti cuccioli, voci che si seccano, un dire fallimentare. Ma anche di fronte alla cronaca dello sfacelo, a tutto il ghiaccio del mondo, Gualtieri è lei stessa una ragazza ardente, il cui bacio rovescia un impero e la cui rinnovata gioia si fa preghiera:

Forse sono i bambini a sostenere il mondo
e gli animali, forse sono i cuccioli d’ogni specie.
C’è tanta gioia dentro quei corpi piccoli
tanta di quella preghiera, forse sono i bambini
i fiori l’acqua, le cose fatte da due mani,
la quiete di una casa, robe di niente.

Forse la gioia è la preghiera più alta.

La poesia di Gualtieri conserva l’io lirico, non lo rimuove né lo rende ipertrofico, al più martellante e multiforme. Molti dei versi gualtieriani sono pensati e scritti per gli attori che li hanno interpretati, all’interno di una comunità e pluralità di voci di cui la pagina scritta testimonia il passaggio. Ricorrenti le seconde persone, le frasi volitive costruite all’imperativo che assumono la forma di esortazioni, più spesso di preghiere. È d’altronde, l’imperativo, per la sua stessa funzione conativa, il modo che più ricerca un destinatario e che fa assumere al discorso una valenza performativa, attraverso quella che Brecht aveva definito “tecnica gestuale”. 

Angolino spaccati, corpicino sbucciati, 

occhio apriti apriti, cuore staccati non aver paura, 

volto fanciullesco svelati, mano con rughe dormi, 

pensiero mio sta giù, e tu pancia con sesso ridi, 

orecchio assottigliati, parola mia ammaestrami, 

silenzio mio incoronami lavami, voce levati, 

con le tue lame e il tuo miele, fa’ il canto 

l’inno che slaccia, e avvicina allontana e bagna, 

e dà da mangiare alla fame, da bere alla sete. 

Gualtieri, nella sua “arte di dire la poesia”, parte dunque dal proprio io, dalla descrizione della sua personale condizione, per poi estenderla al di fuori di sé e rivolgere un invito all’umano e alla sé stessa che è nel mondo: 

Ho parole stampelle, parole porte parole ali sotto i vestiti, 
parole strade e fiumi parole barche affilate. 
ho solo parole e ali incerte – ali incerte e parole. 

dì la lettera color chiaro, l’inno.

            E c’è in Gualtieri il bisogno continuo di chiamarsidi dare nome, di scegliere parole di forza universale. La poeta ricerca i propri interlocutori nel collante rassicurante delle parole, al di là di una vuota comunicazione funzionale. È un’eco arcaica e primordiale che nei suoi testi dà ordine al disordine e rende inesauribile ogni poesia, come ogni vibrazione di suono:

Pochi metri più in qua e sono sola, nel terribile spazio, 

nel terribile tempo. Allora un corpo, tolto dai

suoni simbolici del ciao e del come stai è sbalzato

molto lontano. Dobbiamo chiamarci continuamente.

Il “bello mondo” gualtieriano è però anche un mondo di paure, è il mondo dei grandi verso i quali provare pietà, «con muri dentro, / con scarafaggi e muffe, dentro», mentre «fuori dell’umano il dolore è uno sparo». Alcuni testi in particolare lasciano addosso una netta sensazione di scoramento e pena, soprattutto le poesie tratte da Quando non morivo. A partire dall’invito al non agire, il disagio viene fronteggiato con la celeste pazzia del lasciarsi scrivere dalle parole, diventandone preda. Eppure, anche in questo dolore del mondo, tra le ossicine rotte, lo slabbro e la ferita, le parole che più ricorrono in tutta l’opera sono luceacquafogliealberiamore, anche le “trite parole che non uno osava” di novecentesca memoria. E non mancano i colori, anche quelli delle otto illustrazioni disegnate dall’autrice e inserite qua e là tra i testi, a «portare leggerezza nel peso del pensare», come annota la poetessa, per la quale «il tempo del dipingere questi piccoli giardini» è «un tempo d’anima, un modo di stare sola nel silenzio, e tirarmi fuori dal peso del pensare».

Se le certezze vacillano, se infiniti sono i se, allora diviene l’amore una, o forse l’unica, risposta possibile per essere vivi: «Amore che sei il mio destino / insegnami che tutto fallirà / se non mi inchino alla tua benedizione». Nella cristallinità del verso e del lessico le poche sicurezze provengono proprio da quella coralità, da un empatico tentativo d’insieme. Dalla ricerca di una comune libertà di volo che non tema lo stacco da terra:

Sento il tuo disordine
e lo comparo al mio. C’è
somiglianza. C’è lo stesso slabbro
di ferite identiche. C’è tutta la voglia
di un passo largo in una terra
sgombra che non troviamo.
Sento il tuo respiro schiacciato
lo sento somigliante
ti sento piano morire
come me che non controllo
l’accensione del sangue.

Anch’io cerco una libertà che mi
sbandieri, una falcata
perfetta, uno stacco d’uccello
dal suo ramo, quando si butta
improvviso e poi plana.

  1. Mariangela Gualtieri, L’incanto fonico. L’arte di dire la poesia, Einaudi, 2022. ↩︎