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“Una minima infelicità” di Carmen Verde – Premio Strega 2023

Di Francesca Manzoni

“L’infelicità non è soltanto una categoria dello spirito. Se cosí fosse, se si trattasse di una faccenda esclusivamente interiore, chiusa nel segreto del nostro essere, nessuno riuscirebbe a vederla.

No. L’infelicità è un luogo, un luogo fisico, una stanza buia nella quale scegliamo di stare. Tanto che, quando accendiamo un lume, subito lo schermiamo, perché nessuno possa spiare all’interno.”

Quando si affronta per la prima volta “Una minima infelicità”, romanzo d’esordio di Carmen Verde (nella dozzina del Premio Strega 2023) si ha l’impressione di compiere un operazione illecita, di infrangere la sfera intima di Annetta, protagonista assoluta e voce narrante. Il lettore entra, senza bussare, all’interno dei capitoli più intimi del diario, in cui, frammento dopo frammento, la giovane donna racconta tutta la concatenazione di cause ed effetti che hanno portato al suo presente, a quello stesso atto di scrittura. 

In pochissimo tempo, ci rendiamo conto di avere sotto mano un vero e proprio diario, fatto di frammenti e fotografie, capaci di evocare, passo dopo passo, tutta quella sfera di traumi e di non detti che trovano il loro punto di convergenza in un amaro presente. Attraverso questo espediente narrativo Carmen Verde scrive la storia di tre generazioni di donne (la nonna Adelina, la mamma Sofia e la figlia Annetta), viste con gli occhi di chi non solo le ha amate, ma ne ha anche subito traumi e complessità. 

Disamore materno e mondo giudicante: un toccante resoconto di grandi ferite

“Una minima infelicità” è un romanzo che, senza il bisogno di condannare nessuno o generalizzare sulle problematiche relative alla maternità, ci sottopone il risultato di una reazione a catena, che porta Annetta a vivere le conseguenze di un rapporto disfunzionale con sua madre, Sofia, che, a sua volta, è il prodotto del disamore di Adelina, in un circolo vizioso che argina le tre grandi protagoniste della narrazione in una bolla invalicabile per chiunque si trovi all’esterno. 

Prima di essere ricoverata nel manicomio di **, e poi in quello di **, Adelina Gentile aveva dilapidato due patrimoni: quello enorme di suo padre e quello piú modesto di suo marito, professore di liceo. Lo scoprii molti anni dopo, aprendo armadi e cassetti, le piccole bare in cui una parte di noi si accomoda ancora in vita. Adelina era pazza. E perciò anch’io, senza merito alcuno, avevo nel sangue un po’ di follia

Esattamente come la voce narrante, anche noi lettori sappiamo poco di Adelina e del suo rapporto con la figlia: ciò che ci viene raccontato è lo spettro di una malattia mentale, che porta la prima generazione, quella della nonna, ad una mancata predisposizione all’affetto nei confronti di una bambina con cui non riesce, non può, costruire un legame solido. Il risultato di tale sofferenza è Sofia, che per la madre non prova altro che un profondo disamore, capace di creare una distanza e un silenzio che l’atrocità di una morte improvviso lascia in sospeso per sempre.

Se il primo confronto generazionale è veicolato esclusivamente dalla distanza, il secondo, quello tra Sofia e Annetta si configura essere l’esatto opposto: ciò che ci viene raccontato, per la maggior parte del romanzo, è un legame fortissimo, di venerazione esclusiva, provato da una figlia nei confronti di una madre profondamente altalenante, capace sia di regalarle misurate dimostrazioni d’amore, sia di sottoporla a grandi sofferenze.

Mamma non mi guardava mai. Ma la sua indifferenza non faceva che accrescere il mio amore già smisurato. È piú facile capire le ragioni dell’odio che quelle dell’amore. Sospetto che se mia madre fosse stata una madre migliore, se non mi avesse continuamente esclusa dal suo mondo, se insomma mi avesse amata di piú, forse non le avrei voluto cosí bene. La mia fantasia di bambina la trasformava, giorno dopo giorno, in una dea.”

Annetta è, come suggerisce il diminutivo con cui viene chiamata per tutto il romanzo, piccola: la sua bassa statura si contrappone alla visione della madre, donna che ai suoi occhi non solo è altissima, ma anche bellissima, ciò che più si avvicina alla perfezione. Nonostante quella donna, agli occhi del resto del mondo, sia vista come “solo una puttana”, per lei è un modello intoccabile, in cui spesso e volentieri ricerca frammenti di se stessa, e da cui non riesce in alcun modo ad emanciparsi. L’amore che Sofia decide, talvolta, di dare a quella bambina, durante un pranzo speciale o una chiacchierata notturna, è tutto ciò che Annetta desidera: la casa in cui vivono è l’unico spazio in cui la sua statura non la rende inadeguata, dove tutto l’amore che necessita si trova a portata di mano, e dove non ha bisogno di nulla o di nessuno per raggiungerlo.

La voce narrante, all’interno del suo diario, racconta, con una tenerezza ingenua, come il presente non sia altro che il risultato di una sofferenza che, perpetuatasi di generazione in generazione, non le permette di emanciparsi al mondo, e di vivere attivamente in esso. Ma, a differenza di ciò che si potrebbe pensare, i veri antagonisti della narrazione, non sono i traumi intergenerazionali che si perpetuano di madre in figlia, ma lo sguardo giudicante di un mondo esterno che non vuole capire, creando una barriera, un dentro e un fuori, tra la casa in cui le donne si rifugiano nella loro malattia, e la società che, con sguardo inquisitorio, le osserva perire senza preoccuparsi di agire.

Ed è proprio questa contrapposizione tra dentro e fuori ad acuire quel senso di disagio che riusciamo a percepire sin dal principio del romanzo: Suor Adelina, maestra di Annetta, convoca Sara a scuola (portandola al di fuori, nel mondo) solo per rimproverarla per il suo pessimo “lavoro di madre”, Clara Bigi, la domestica, si intromette all’interno del loro ecosistema solo per imporre in essa una sua personale “dittatura”, soggiogando la madre al suo volere, rubandole i vestiti e cercando, in ogni modo, di distruggerla come donna. Anche nei momenti di maggior drammaticità il mondo all’esterno alle mura di casa appare ostile e giudicante: la loro tana risulta essere l’unico spazio in cui può esistere una forma, seppur precaria, di serenità, che viene puntualmente infranta nel momento in cui uno “straniero” decide di varcarne quella porta che, negli anni, è diventata per le due donne, sacra e inviolabile. 

Nel silenzio della mia stanza, sotto le lenzuola di lino, tutto si mescolava pigramente: il dolore e il piacere di non crescere, la gioia e la disperazione di restare in quella casa. Anch’io sarei andata via prima o poi? Intanto, desideravo che la mia vita rimanesse cosí, esattamente com’era sempre stata.”

Annetta e sua madre decidono così di rendersi loro stesse immuni al mondo esterno creando un limes, un confine che si delinea non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Soprattutto nella seconda parte del romanzo, la contrapposizione tra un “fuori” e un “dentro” riesce a cristallizzare anche il tempo, che smette di scorrere, permettendo alla giovane narratrice, varcata la porta di casa,  di tornare quella bambina che non può essere altro se non una figlia che elemosina l’amore della madre.

Abbracciare la propria “piccolezza”

La sola idea di deluderla era per me insopportabile. Come spiegarle che quella proposta tanto importante per il mio futuro non mi interessava? Che avevo imparato dal mio corpo ad accontentarmi dello stretto necessario, a rinunciare a ogni ambizione, a farmi bastare quello che avevo già. Il poco che avevo già.”

Al termine del romanzo troviamo un Annetta cresciuta solo dal punto di vista anagrafico: la tana, un tempo condivisa con la madre, è diventata una fortezza della memoria, un rifugio perfetto in cui aspettare la fine. La sua statura, all’interno di quel microcosmo, non è stigmatizzata e un esistenza quasi eremitica pare configurarsi come la migliore tra le alternative: l’atto stesso di scrivere il diario le permette di abbracciare la sua piccolezza, di prendere coscienza del fatto che quello è l’unico mondo in cui a lei è possibile vivere. Il suo rifugio è ora un diario costellato di fotografie e di ricordi capaci di prendere vita: la sua è solitudine solo per chi la guarda da fuori, mentre lei, nella sua fortezza invalicabile, sopravvive, accompagnata, dalle voci di Sara e di Adelina. 

Carmen Verde si candida dunque al Premio Strega con un romanzo profondamente enigmatico, che pur raccontando non una, bensì tre intere esistenze fatte di sofferenza, non aspira ad un finale ad effetto, fatto di colpi di scena e grandi rivincite personali: Annetta è un personaggio profondamente antieroico, che inclina il cliché da rivalsa “alla blockbuster americano” a favore di un processo di cupa introspezione dell’animo. Al racconto di una canonica grande vittoria contro i mali del mondo l’autrice preferisce la presa di coscienza della propria natura, l’accettazione della propria infelicità e il potere di convivere con i propri demoni. In questo accompagnamento alla fine, Carmen Verde non sente il bisogno di invocare una forma di pietismo o drammaticità, ma la scrittura, proprio come la protagonista, è quieta, profondamente pacificata con il proprio destino. 

Ed è per questo e molti altri motivi che “Una minima infelicità” è un opera speciale, che andrebbe letta e discussa a lungo: il ruolo del lettore all’interno del romanzo è qui fondamentale, perché, l’ambiguità delle ultime pagine apre ad uno spettatore ormai inerme, una molteplicità di interpretazioni possibili, tutte, a mio parere, ugualmente valide e degne di nota.


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Francesca Manzoni

Redattrice di Cinema e Letteratura