Critica di Poesia

Quel «posto di fumo da dove si viene». Su “Un altro che ti scrive” di Cristiano Poletti

È opinione diffusa, tra militanti incattiviti, che la poesia contemporanea non possa più confrontarsi con la luna, gli usignoli, l’aura romantica del paesaggio; che la prima persona, affinché sia all’altezza dei tempi, debba assumere posture sempre nuove, che la deviino o la riducano falsificandola. Periodicamente, vengono pubblicati elaborati di ricerca o profili analitici che, rapportandosi ai più importanti lavori della nostra epoca, evidenziano le dissociazioni del soggetto da un punto di vista prettamente stilistico. Le raccolte che non ricorrono ai disparati stratagemmi de-identificanti vengono considerate meno frequentemente e liquidate come fossero scadute, appartenenti a un tempo trapassato. Critica e snobismo si alimentano a vicenda, generando una serie di green e di red flags immediatamente riconoscibili in un componimento, poiché configuranti il fantasma della poesia contemporanea, un vero e proprio schema mentale collettivo che suggerisce cosa si dovrebbe predisporre o evitare di scrivere oggi. Per il poeta conscio di tutto ciò è complicato, poiché rischioso, scegliere di divincolarsi da tali limitazioni, e tanto più difficile farlo con successo. Il panorama odierno non è però affatto privo di prove che perseguono questa anti-direzione ottenendo risultati eccellenti, come testimonia, tra le altre voci, la lirica di Cristiano Poletti, recentemente uscito con Un altro che ti scrive (Marcos y Marcos, 2024).

Cristiano Poletti, Un altro che ti scrive

L’opera in questione adotta i suddetti temi, generalmente censurati, e non adopera interposte persone o strategie di adombramento dell’io; al contrario, quest’ultimo è spesso pronunciato chiaramente, anche per nome e cognome (Dalle Sefirot: «Come si chiama? Poletti. Guardi, le assicuro che non abita qui»), e la sua centralità è assoluta in relazione ai motivi di volta in volta affrontati, come gli affetti, il dipinto e il paesaggio. Ciò non toglie che il soggetto sia franto, allo stesso modo dell’io eluso a livello stilistico di altri autori, e forse anche più nitidamente. Accanto all’analisi linguistica, andrebbe supportato un adeguato studio del contenuto discorsivo della prima persona come requisito indispensabile per esprimersi riguardo al suo grado di individuazione. Nel caso specifico di Un altro che ti scrive, che peraltro dissocia già a partire dal titolo, un’attenzione mirata al rapporto che l’io lirico instaura con i temi del passato, dei luoghi e dei cari fa emergere un suo profilo tutt’altro che saldo e individualizzato: «Sembra avere un continuo bisogno / di nascondersi, Cristiano. / Come un pianto, / come la rugiada fa col verde» (Biografia in breve). Ci sembra sia questa la tensione veramente contemporanea della poesia di Poletti: una progressiva rinuncia del sé che assume la duplice forma di un’attrazione per la sparizione e di una sconfitta biologicamente inesorabile.

Sono diverse le immagini impiegate per effondere un desiderio di confusione con il «prodigioso / nulla» (Dalle Sefirot: «Nel respiro di un libro state / per ritornare dopo tanta luce / al nero»), dalla notte calante, che smantella i contorni nel buio («Se è notte / è la fede»), alla scalfittura, esaltata come «gloria» o «vittoria» entro un ribaltamento del concetto di piena vita, coincidente con la riconsegna di sé al nero originale («Nel grande nero è la prima luce»). Anche il pensiero espresso a parole è da diffidare, in quanto calcola e insegue un ordine, allontanando la prima persona dall’autenticità del vago, del nulla e del silenzio, lingue universalmente comprensibili. Per questo motivo la voce si consegna ai quadri, frutto di una confessione interiore immediata e oggetto di uno sguardo in grado di comprendere senza inclinare alla decifrazione, ovvero al traviamento: «Lo sguardo adesso è perso nella vista. Pensa, al mondo vissuto, a cosa hai amato, con che parole. Adesso mancano, vedi, non si mostrano più» (Risposte dei quadri appesi, Quadro 2).

La sconfitta biologica, invece, trapela da un sentimento di condanna esteso e diffuso nei testi. Si tratta di una percezione sensibile della sfuggevolezza della vita, del suo allontanamento dai fuochi di una giovinezza che permane soltanto nel ricordo, nei suoi attributi positivi e malgrado il ribaltamento di un’aura nostalgica su un tempo accusato come presentificazione degli assenti. Questo tratto della poesia di Poletti si incrocia sapientemente con l’ansia di sparizione ancora una volta nel paesaggio, meta di un’esternazione del sé e soggetto di una corsa alla morte analoga a quella dell’individuo: «Comprenderete / che l’albero via via si sfronda / mentre il tempo trascorrerà nel verde. / E come in un legno invecchiato, in noi / e dentro fino alle uova del tarlo / va di voi a formarsi il ricordo» (Dalle Sefirot).

Cardine di Un altro che ti scrive, il ricordo è insieme pena e pregio, poiché se da una parte induce l’io a trascinarsi in un presente immalinconito, dall’altra conserva le preziosità di un passato ancora rievocabile. Tale funzione della memoria controbilancia l’opposta tensione alla sparizione e innesca la ricerca di una biografia, anche ridotta, che attraversi la prima persona e la rinsaldi agli scacchi della sorte.

Se poi è vero che le identità sono relazionali, nel libro di Poletti la figura del padre è centrale per la stabilità del soggetto lirico: l’opera intera e, in particolare, la sezione Dove tremiamo ospitano i risultati del tentativo tenero e disperato di ridisegnare il profilo paterno, a partire dai ricordi acerbi di una «narice-fumo» o di una barba. In termini di costituzione dividuale, cioè della personalità in dipendenza dall’intorno rapportuale più stretto, il genitore abita l’autore ed è pertanto una voce che filtra nelle pagine insieme alla sua sensibilità. Si spiega dunque l’impiego del dialetto bergamasco in Alla fine, dove si legge, nel componimento Uselì che si riporta: «Che filo si è rotto tra noi? Esistenza / che continui, scrivi: scrivi, servus, / che gli è che de banda e il vero / brucia al sole e non tace». Il filo che l’io poetico non smette mai di tessere, nonostante la morte e l’oblio presiedente ai meccanismi mnemonici, è integro e riempie la scrittura come un soffio vitale. Sicché alla forza del padre è affidato l’incarico di rivelare al mondo le verità più scomode, generazionali e universali, come si libera un bambino delle proprie responsabilità: «Io che ti amo ti prego / questa mia lettera inviala tu. / C’è scritto: siamo / stranieri alla terra e in cerca di patria / nel caldo e in attesa crescente / noi, amorevolmente, d’acqua / respirando / il siccitoso respiro del mondo» (Dalle Sefirot).

Eppure la sfera semantica del paterno non si limita alla sua accezione più comune, sanguinea, ma ha uno spettro più ampio, coinvolgendo i significati di guida e maestro. Non a caso la lingua fa spazio a un latino patriarcale che, con l’esempio di Matteo 11, 29, «Tollite iugum meum super vos, quia mitis sum et humilis corde», contempla influenze più profonde e radicate anche nel canone della latinità pagana («Postremo pereunt imbres…» è una citazione lucreziana in Casa infinita).

Infine, un ultimo filo rinsalda l’impianto macrotestuale di Un altro che ti scrive: lo formano i testi collocati in epigrafe a ogni sezione, che introducono, appunto, il richiamo a un’eredità paterna ampia attraverso la tematizzazione della lavorazione della lana, manifattura tramandata di generazione in generazione. Così la storia e la tradizione culturale sono le portavoce di un io e di una biografia al tempo stesso privati e universali, strenuamente difesi e plurali, e le operazioni di apertura e chiusura del soggetto convivono come opposte tensioni, parimente legittimate dal comune attingimento a pregi e difetti di una sensibilità umana.


Da Biografia in breve

Verde e vento,
qualcosa che si sente e smette.
Tra il bisticcio di case scende il bianco,
ore di nebbia, di passo lento.
Poi la corsa solitaria e tutto
l’amore cui l’anima è destinata.

*

Così li hanno umiliati,
costretti a una terra non loro.
Verranno qui gli eserciti?
Torneranno alle case?
Una cosa insegna il silenzio,
torneremo alle frasi ripetendoci
un eccessivo amore cosa genera.

***

Da Dalle Sefirot

Premessa, semenza.
Conoscete
la collina che svetta e la sua vigna.
A voi che siete presto vita: tutti
dal primo all’ultimo venuto
assaggerete il vino
prima che sia secco
il mondo, asciugato.

***

Da Alla fine

Uselì

I à cantàt gli uselì töta nòcc,
i sarà stade i bombe e te
t’é scrécc negót, fermo solo
in odio e psiche.

I à cantàt e l’era ché
e adesso
ti cerchiamo, ti vediamo,
hai un figlio tra le dita prima di sera,
sembra anche a voi?
L’è ’na dóna ’na preghiera.

Passare per la lingua:
Pasqua per questa lingua questi morti.
Senz’acqua intanto qui tanto muore
e piena di cenere cresce l’aria
d’ansia, com’eri tu o tu
inchiostrato vento
scritto un giorno e per sempre.

I tàss mia, i sögöta. È tempo
che i segnati dalla morte li evitiamo e un’altra notte
amiamo morte stelle, amiamo
di giorno musicanti schermi.
Che filo si è rotto tra noi? Esistenza
che continui, scrivi: scrivi, servus,
che gli è che de banda e il vero
brucia al sole e non tace.

Come tutto fu grande, smisurato
fuori di noi. Ora più
sottilmente andiamo,
non lontano, i bombe denàcc…
Tollite iugum meum super vos.

Alberi magri qui, magrissimi
e allora giù per i colli, giù i destini
così viene meno la nostra dominata
mente.

La sìra amò
gh’è ’n òm o ö s-cèt, appare
dispare, io non so
come mormorano inchiostri e secoli
un richiamo ogni sera di ogni vita.
I canterà gli uselì töta nòcc.

*

Fuoco sulla pianura, VII

tutti dentro l’eternità tradita
votati al sole al chiaro quando
tra il mai e l’imminente c’è una linea
esile oscura lì
sale il sangue e si aspetta
un incendio la vita


Aratea
https://chiassoletteraria.ch/autori/cristiano-poletti/

Diego Ghisleni

Vicedirettore e redattore