Critica di Prosa,  Premi Letterari,  Premio Strega Europeo

Triste Tigre di Neige Sinno – Premio Strega Europeo 2024

Scrivere di Triste Tigre non è impresa facile. Se l’ambizione e lo scopo della critica letteraria consistono, infatti, nella produzione di un’azione comunicativa e operazionale volta alla descrizione, all’interpretazione e alla valutazione di un’opera, diventa complesso – o quantomeno ambiguo – occuparsi di un testo che fa del disvelamento dei suoi stessi meccanismi e della continua descrizione dei suoi obiettivi, principale punto di forza e presupposto primario per la creazione di un suo valore estetico.

In questo senso, può essere utile partire dall’antefatto referenziale, dalla “storia vera” che sta alla base e precede la composizione dell’opera di Neige Sinno, autrice, narratrice ed eroina del testo[1]. Tra i 7 e i 14 anni, infatti, Neige viene regolarmente violentata dal suo patrigno. Una volta compiuti 21 anni, la donna, per proteggere i suoi fratelli e costringere la madre a lasciare l’uomo, decide di sporgere denuncia. Il patrigno, una volta tradotto in prigione e sottoposto al regime di custodia cautelare, confessa gli abusi, viene processato e infine condannato a 9 anni di reclusione (dei quali ne sconterà 5, per buona condotta).

30 anni dopo i fatti, Neige decide di raccontare la sua storia, scrivendo un libro complesso, in cui il resoconto dei fatti e la descrizione degli avvenimenti rappresenta solo il punto di partenza di una riflessione continua, profonda ed insistita sul significato umano, sociale e culturale dell’abuso sessuale nei confronti dei minori, sulle sue conseguenze, sull’essere vittime e carnefici.

L’opera di Sinno è certamente ibrida e difficilmente inquadrabile in un genere ma si configura come un testo che prende in prestito il meglio di quanto hanno da offrire Autofiction[2], Auto-Socio-Biografia[3] e Memoir. Mescolando gli stilemi di questi generi – tipici della modernità letteraria – la riflessione dell’autrice si snoda, nel corso dell’opera, secondo due principali linee direttrici.

Innanzitutto, assecondando un gusto ancora tipicamente postmoderno, Sinno frantuma e moltiplica continuamente i punti di vista e costruisce una fitta rete di richiami intertestuali, a partire proprio dal titolo che è un riferimento sia a Tigre Tigre di Margaux Fragoso – un Memoir in cui l’autrice racconta la sua storia di abuso – e la poesia The Tiger di William Blake – composizione in cui l’autore si domanda come tigre e agnello, vittima e carnefice, possano essere entrambi creature dello stesso Dio. Oltre a questo primo, immediato, richiamo intertestuale, nell’opera sono moltissimi i riferimenti letterari espliciti sia ad opere di autori che hanno affrontato direttamente il tema dello stupro come Nabokov – le pagine che l’autrice dedica a Lolita rappresentano un autentico saggio di critica letteraria in miniatura – , Angot, Despentes e Hatzfeld, sia ad autori che, come Carrere e Ernaux, hanno riflettuto per primi sulla propria scrittura e sulle possibilità della non-fiction letteraria.

Lo scopo di questi continui richiami intertestuali non è quello di dare vita ad una summa, una riflessione completa e definitiva sul tema dell’abuso – la stessa Sinno ammette candidamente di non aver letto, per esempio, le opere femministe che si sono occupate del tema – ma quello di costruire uno strumento con cui confermare, criticare, mettere in discussione o accompagnare con un punto di vista differente le sue idee e le sue posizioni, ma anche quello di realizzare un controaltare estetico, utile a fornire dei precedenti non finzionali illustri, di cui Sinno riprende le riflessioni, superandole e condensandole in un testo che rappresenta, forse, uno degli esempi più fulgidi delle potenzialità e dei risultati a cui la non-fiction può ambire oggi.

“la cosa bella della non-fiction è che possiamo infischiarci della verosimiglianza, esporre fatti e concatenamenti di fatti che appaiono incoerenti, addirittura impossibili, ma abbiamo la facoltà di farlo. Certo, occorre che il lettore ci dia fiducia, visto che gli diciamo che le cose sono andate così”

Per compiere questa operazione, dunque, Sinno si basa unicamente sulle opere che ha letto e di cui è a conoscenza, restituendo una bibliografia del fenomeno necessariamente parziale ed incompleta ma significativa perché frutto del filtro e della selezione operata dall’autrice stessa che, in questo modo, mette in primo piano la sua soggettività di autrice-testimone-critica.

La seconda direttrice su cui si incardina il lavoro di Sinno – questa volta squisitamente iper-moderna – consiste proprio nell’ambizione di dare vita ad una scrittura testimoniale. Una delle principali tendenze dell’ipermodernità letteraria consiste infatti proprio nella posizione assunta dalle voci narranti all’interno dei testi. In opposizione al postmoderno – che secondo la celebre formulazione di Barthes, decretava “la morte dell’autore”[4] – le opere non finzionali ipermoderne sono narrazioni testimoniali, poetiche del documento in cui la mediazione dell’autore diventa decisiva. Come ha acutamente osservato Raffaele Donnarumma 

“La testimonianza scavalca il documento, come la verità oltrepassa la realtà: se la prima convoca la responsabilità di chi la enuncia, la seconda non ne ha bisogno, poiché esiste indipendentemente dai nostri enunciati. La verità è quello di cui dobbiamo essere persuasi, la realtà è ciò che bisogna mostrare; a differenza della realtà, la verità è il campo della retorica: è la porta, insomma, attraverso cui le poetiche documentarie riaccolgono quei principi intorno ai quali tradizionalmente si è costruita la nostra idea di letteratura che, pure, corrodevano insidiosamente”[5].

Ipermodernità: ipotesi per un congedo dal postmoderno

Sinno inserisce nel testo, oltre ai riferimenti alle letture che ha fatto nel corso degli anni, documenti che testimoniano una realtà fattuale, come i ritagli di giornale che la riguardano o la lettera che ha inviato alla procura per denunciare il patrigno, riproducendoli fedelmente sulla pagina. Accanto a queste riproduzioni, Sinno dà anche vita a pagine dal sapore ecfrastico in cui descrive minuziosamente delle fotografie che la ritraggono in compagnia del patrigno e della famiglia.

In questa maniera Sinno costruisce una mediazione tra quello che racconta ed il lettore, amplificando il senso di realtà dato alla narrazione. In altre parole, il racconto di Sinno è credibile non solo perché l’autrice esibisce i documenti ma perché si trova in una posizione di grande credibilità ed esposizione, poiché ha vissuto in prima persona le vicende di cui sta parlando ed è nella posizione privilegiata – con tutto ciò che comporta, eticamente, essere privilegiati in quanto vittime di abuso – di poter dare alle sue riflessioni una risonanza capace, come ha notato Ernaux, di “far vedere davvero cosa significa essere un bambino abusato da un adulto”.

Ed è la stessa Sinno, all’interno del testo, a chiarire questo meccanismo e a rivendicare la forma e la struttura che ha scelto di dare alla sua opera:

“mettermi in una posizione di superiorità, cercare di arrivarci attraverso congegni linguistici, ribaltamenti di strutture, soluzioni inaudite che piacerebbero ai critici intelligenti e mi metterebbero fuori dalla portata del lettore comune, non essere più nel racconto della mia vita ma nella letteratura, come faccio a spiegare che tutto questo mi metterebbe a disagio? “

Le due direttrici che compongono il testo, se sono abbastanza evidenti nel loro procedere, si mostrano però continuamente mescolate, intrecciate, frammentate e intervallate a sezioni di natura più marcatamente saggistica, autofinzionale – come nelle sezioni la mia vita come un film dell’orrore o la mia vita come un melodramma americano – o auto-socio-biografiche – in cui Sinno riflette sulle origini sociali della sua famiglia e sulle conseguenze che la denuncia ha avuto sul suo ambiente di provenienza – in un testo per certi versi tautologico, che si piega continuamente su sé stesso, che ritorna sulle riflessioni che ha sollevato, mettendo in discussione esplicitamente l’impatto che esse potranno avere sui lettori, che mostra continuamente i suoi obiettivi e che tematizza e rinegozia continuamente sé stesso.

Triste Tigre – che, come detto sopra, è probabilmente uno dei prodotti più maturi e consapevoli della non-fiction contemporanea – mostra la scrittura nel suo farsi e disfarsi continuo e dedica delle ampie sezioni a riflettere sulla natura etica ed estetica di ciò che contiene. Ci sono infatti due momenti all’interno del testo in cui l’autrice si ferma a pensare a ciò che sta facendo e, in un certo senso, a giustificare e a rivendicare le sue scelte. Innanzitutto, nella sezione motivi che ho per non scrivere questo libro, l’autrice afferma con forza la sfiducia nella scrittura e nel racconto come strumenti dotati di qualche utilità verso le vittime di stupro, verso i parenti delle vittime, verso gli aggressori, verso chi vuole capire meglio l’argomento – anche se la struttura del testo parrebbe smentire quest’ultima affermazione – e soprattutto verso sé stessa. Se la scrittura e la letteratura non sono terapia e occasione di salvezza, allora perché Neige Sinno ha scritto Triste Tigre? La risposta, anche in questo caso, è tematizzata all’interno del testo, nella sezione Qualche considerazione estetica quando l’autrice scrive:

“in queste pagine l’autobiografia è soltanto un arma in più per affrontare l’impensabile, un coltello per vivisezionare il mondo, una scelta politica ed estetica che attesta l’unione tra contenuto e forma. è un mezzo, non un fine è […] il racconto è al servizio del pensiero, anche se il percorso compiuto dal racconto finisce col portare al fallimento del pensiero”.

E ancora, poche righe dopo:

“la testimonianza è uno strumento di analisi, ma un utensile ben affilato arriva fino all’osso. E quando si arriva all’osso, l’arte non è mai lontana. La testimonianza mi limita, mi obbliga a circoscrivere la mia esperienza, a rinchiuderla nella sua singolarità, a fare in modo che non sia più di ciò che è. Ma per me si tratta anche di far sì che non sia meno di ciò che è, che non venga ridotta ad un niente […] affinché a riappropriarsene siano gli altri, con altre voci, in modo che circoli. Non è forse, anche, scopo della letteratura far sì che finalmente tutto questo esca da qui?”

La fantasmagoria di punti di vista e la proliferazione di riferimenti intertestuali, l’inserimento di fonti documentali, la continua rinegoziazione degli obiettivi riflessivi ed estetici e la riflessione sulla scrittura mostrata nel suo farsi sono, in ultima analisi, meccanismi che concorrono a stabilire la portata etica del testo e, in un certo senso, il suo obiettivo primario.

“io non scrivo volentieri in questa forma autobiografica. Mi piacerebbe sottrarmi alla prima persona singolare, potermi rifugiare in un plurale, di qualunque tipo. Non avere la sensazione sgradevole di raccontare la mia vita”

Se il testo non fornisce risposte alle continue domande che pare sollevare, racconta però proprio la vita dell’autrice e, nel farlo, stabilisce in maniera chiara e definitiva quali sono le modalità in cui poter narrare qualcosa di vero nell’epoca dell’iper-contemporaneo e della post-verità.

Il presente è infatti un tempo in cui ciascuno di noi è immerso in un flusso di informazioni in movimento su una serie di mezzi differenti; la letteratura non finzionale, nell’accogliere campioni di questi flussi informativi, figurerebbe questa condizione dell’uomo contemporaneo e cercherebbe di rispondervi appropriandosi delle informazioni oppressive, estranee, insensate e incontrollabili coinvolgendole in un discorso autoriale – e dunque in qualche modo mediato – capace di dare senso alla massa di informazioni stessa. Sinno sembra volerci dire che anche per raccontare qualcosa di intimo e di privato come un’esperienza tragica di stupro e abuso sessuale sia necessario rispettare questo stato di cose e che dire la verità e raccontare sinceramente la propria esperienza – seppure e, in certo senso necessariamente mediata e mescolata con stimoli, documenti, influenze e pareri disparati – sia l’unico modo per fare arte al giorno d’oggi.  


Note:

[1] Faccio qui riferimento alla celebre formulazione che Lejeune utilizza per descrivere il patto autobiografico in Lejeune, Philippe. (1986), Il patto autobiografico, trad. di F.Santini, Bologna, il Mulino (ed. or. 1975).

[2] Utilizzo il termine Autofiction nell’accezione che esso ha nell’editoria francese e cioè, secondo Paolo Zanotti, un sostanziale sinonimo “meno demodè, dell’autobiografia e non, come viene inteso in Italia, un mix più o meno ampio di biografia reale e finzione romanzesca.

[3] Con auto-socio-biografia faccio riferimento alla definizione che ne dà Ernaux nella lunga intervista la scrittura come un coltello, inedita in italiano.

[4] Barthes, Roland. (1988), La morte dell’autore (1968) in Id., Il brusio della lingua. Saggi critici VI, trad. di B.Bellotto, Einaudi, Torino, pp.151-9.

[5] Donnarumma, Raffaele. (2011), Ipermodernità: ipotesi per un congedo dal postmoderno. In “Allegoria”, 64. Pp. 29-30.


Bibliografia

Barthes, Roland. (1988), La morte dell’autore (1968) in Id., Il brusio della lingua. Saggi critici VI, trad. di B.Bellotto, Einaudi, Torino, pp.151-9.

Donnarumma, Raffaele. (2011), Ipermodernità: ipotesi per un congedo dal postmoderno. In “Allegoria”, 64. Pp. 29-30.

Lejeune, Philippe. (1986), Il patto autobiografico, trad. di F.Santini, Bologna, il Mulino (ed. or. 1975).

https://www.arateacultura.com

https://premiostrega.it/PSE

https://neripozza.it/libro/9788854529656