“Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi” di Michela Murgia- Premio Booktube 2024
Un articolo di Francesca Manzoni
Non posso spiegarlo, e quindi lo racconto.
Così Michela Murgia descriveva l’esegesi che ha portato alla realizzazione, nel 2023, del suo ultimo romanzo. Tre Ciotole. Rituali per un anno di crisi (Mondadori, 2023), oggi candidato al Premio Booktube 2024, regala al lettore-spettatore una raccolta studiata di punti di vista, di vite, di esperienze e di piccole psicosi tipiche del quotidiano, capaci di raccontare, sullo sfondo della pandemia, la vita di tutti e la quotidianità di nessuno.
È sbagliato pensare che, all’interno dell’opera, si possa trovare una morale consolatoria, è inutile pretendere un testamento poetico dell’autrice, ma è necessario avvicinarsi al romanzo senza presupporre nulla. Al lettore è chiesto di affrontare una narrazione che aspira (riuscendo meravigliosamente nel suo intento) a raccontare non solo l’esperienza collettiva del lockdown ma anche la vita per quella che è, talvolta banale e statica, talvolta costellata di profondi dolori, lutti e frustrazioni, che non rendono l’uomo migliore o peggiore, ma che sottolineano semplicemente la sua complessità. Il risultato, al termine della lettura, è quello di un opera che, ponendo l’accento su numerosi spezzati di vita quotidiana, componendo ritratti parziali di vite tanto differenti quanto simili, riesce a restituire un senso di completezza e comunità, derivata dalla comune e costante esposizione al dolore.
Un’unica cornice abbraccia la pluralità di voci: “una comune storia corale”
Il romanzo è costruito totalmente come un’opera antologica, composta da 12 storie autonome e differenti, raccontate sia in prima persona, dunque filtrate attraverso il punto di vista univoco della voce protagonista, sia attraverso l’onnisciente sguardo di una terza persona che ritrae uno spezzato di vita quotidiana. A creare la cornice narrativa comune a tutte le storie, tra di loro separate e indipendenti, è prima di tutto un elemento di carattere temporale: è infatti nel corso della pandemia, del COVID-19, del lockdown e dei mesi successivi ad esso, che si svolgono la maggior parte degli eventi narrati.
Ben presto, una volta interiorizzate le voci e le storie dei diversi personaggi, si prende coscienza di come il rimando all’attualità non voglia diventare, nelle mani di M. Murgia, uno strumento per mettere in atto una cronaca “giornalistica” del presente: il contesto socio culturale, storia dopo storia, si delinea sempre più come una complessa metafora di un cambiamento, spietato e repentino, in grado di costringere l’umano a ricostruire e riprogrammare se stesso alla ricerca di un nuovo equilibrio emotivo. Se nel primo capitolo, titolato Espressione intraducibile, a mutare la vita del protagonista è una diagnosi, quella di tumore, quelli successivi affrontano il dolore derivante dalla fine di un amore, la sofferenza e l’apprensione di un medico (lo stesso che, pochi capitoli prima, aveva inflitto la diagnosi) nel tornare a casa dalla moglie e il figlio durante la pandemia, le paure di chi vorrebbe, un giorno, diventare madre e il senso di inadeguatezza di chi, quell’istinto, non l’ha mai avuto.
“Quello che doveva essere un avversario da distruggere le era appena stato dipinto come un complice della sua complessità, una parte disorientata del suo corpo sofisticato, un cortocircuito del sistema in evoluzione, niente di più di un compagno che sbagliava. Non era abituata a perdere a parole. ”
La scrittura sapiente di Michela Murgia racconta le dodici storie in medias res, senza introdurre in alcun modo i personaggi e senza il bisogno di racchiuderli all’interno del confine di un nome: si tratta di storie tanto comuni, tanto collettive, da poter sembrare frammenti estirpati da una molteplicità di romanzi diversi, separati dalla loro storia madre e ricollocati in un’opera nuova. In quest’ottica, la mancanza di nomi propri a indicare i narratori, è una scelta tutt’altro che casuale: riprendendo le parole dell’autrice stessa, quelli proposti dal romanzo sono racconti scritti perché “chiunque possa immedesimare la parte oscura di sé in quelle voci”. L’obiettivo finale, l’esigenza celata dietro l’atto di scrittura è creare e sovrapporre una moltitudine di voci differenti, per sesso, per età e per condizione sociale, rendendo così lo spettatore capace, all’interno di una pluralità di voci, di ricercare la propria identità e il proprio dolore. La pandemia si configura dunque come la metafora di un trauma collettivo che obbliga al cambiamento: in un contesto preciso e riconoscibile si muovono numerose figure, che alla sofferenza di un intera società sovrappongono quella personale, cercando, a partire da essa, di ricostruire e ricostruirsi.
Tutto è autobiografico e nulla è autobiografico
La forma antologica che caratterizza il romanzo vede però, in alcuni elementi, infranto il suo principio. Le storie infatti, pur mantenendo salda la loro istanza autonoma e indipendente, trovano, in piccole frasi o in rimandi appena celati, una connessione capace di inserirle, sapientemente, all’interno del medesimo universo narrativo. L’intera opera sembra infatti connettere, nei primi capitoli, le diverse storie e i molteplici punti di vista: come palle di biliardo colpite per la prima volta, le storie si dipanano perdendo la loro natura consequenziale. Ad aprire le danze è infatti un racconto, in terza persona, che vede una donna messa al cospetto di una complessa diagnosi. Nel capitolo successivo, titolato Il senso della nausea il punto di vista muta, introducendo la prima persona e raccontando il rapporto di una donna (facilmente riconducibile alla figura descritta in precedenza) con la malattia e con l’atto di vomitare: nel raccontare la sua esperienza, la voce narrante rievoca il dolore derivato dalla fine di una relazione ormai passata, riportata alla luce da un messaggio ricevuto poco dopo la diagnosi. Ecco che al suo dolore si sovrappone, nel capitolo successivo, quello dell’ex compagno, in procinto di ricostruirsi un esistenza e una quotidianità dopo la tumultuosa fine della relazione.
Proprio quando però il lettore pensa di aver compreso la direzione del romanzo, ecco che nuovi racconti, autonomi e indipendenti, irrompono sulla scena: alla storia di un giovane professore alle prese con i colloqui genitori-insegnanti, impaurito all’idea di diventare presto padre (lui e la moglie aspettano un figlio tramite gestazione per altri) si sussegue l’irriverente racconto di una madre surrogata, costretta a fare i conti con il suo “odio” per i bambini. Ecco che le “palle di biliardo” si allontanano sempre più, raccontando prima la vita di un oncologo (che presto si rivela il medico protagonista del primo racconto) impaurito all’idea di destreggiarsi tra i rischi legati all’emergenza sanitaria e la famiglia che lo aspetta a casa, poi la storia di una governante, vedova, che assiste, come spettatrice, alla malattia del figlio del Colonnello, suo datore di lavoro. Così capitolo dopo capitolo, il nucleo si disperde, disegnando storie che da un lato sono sempre più indipendenti, ma dall’altro non smettono mai di sottintendere, attraverso rimandi e gesti, la natura comunitaria dell’opera.
Al termine del romanzo però, quasi inaspettatamente, l’ultimo racconto sembra riportare una parvenza di unità: Cambio di stagione si assume l’onere di raccontare la morte, attraverso l’immagine di un funerale, metafora lucida di un tempo che va avanti, prosegue e scorre per tutti, tranne che per una persona. Quella rappresentata non è una narrazione patetica o commuovente, semplicemente l’ultimo dei dodici racconti, un ultima storia di cambiamento. Nell’ultimo capitolo, senza che nulla sia esplicitamente detto, si ha però la sensazione di chiudere un cerchio, di vedere la pluralità di voci riunite e concentrate all’interno di uno spazio comune. Niente lo sottintende, nessuna parola o nessuna affermazione può essere utilizzata a riprova di ciò ma qualcosa fa capire che il primo personaggio introdotto sulla scena, la donna che riceve la diagnosi, sia la stessa che, al termine della storia, è assente.
“Preferirebbe non saper fare nessuna di queste cose a patto di non ammalarsi mai? Gli organismi unicellulari non sviluppano neoplasie, ma non imparano lingue. Le amebe non scrivono romanzi.”
Arrivati a questo punto è quasi spontaneo rivedere nel profilo dell’assenza il volto di Michela Murgia, di scorgere in alcune storie la sua storia, di vedere un esito che, anche se non ancora accaduto, era ormai scritto. È giusto domandarsi in quale misura la storia possa definirsi autobiografica, e quanto il romanzo racchiuda in se una richiesta, rivolta a chi l’ha amata, di trovare la forza per risorgere a partire da una collettiva condizione di dolore. D’altronde, come disse l’autrice presentando il romanzo, la narrativa, attingendo sempre (anche se in misura diversa) dall’esperienza, permette allo scrittore e ai suoi lettori insieme a lui, di accettare a pieno tutto ciò che la vita, da sola, fa fatica a comprendere.
Le “Tre ciotole” di Michela Murgia: l’arte di misurare il tempo
“Le tre ciotole rimettevano a posto tutte le gerarchie tra stomaco e cervello. Potevo prendere il cibo da una sola o da tutte, senza un ordine preciso. Potevo svuotarle in un colpo solo o consumarle a tappe all’ora che preferivo, bastava che a fine giornata tutte e tre fossero vuote, perché quello che contenevano era il minimo indispensabile.”
Il secondo racconto, titolato Il senso della nausea, vede la voce narrante alle prese con uno degli effetti collaterali della malattia: il vomito. Inizialmente imputato alla fine di un amore, ben presto si rivela un sintomo a sé stante, capace di presentarsi, con regolarità, a prescindere dalle circostanze. Inizialmente visto come un ostacolo, in poco tempo diventa un complice della donna, che impara ad accettare il rigetto come “misteriosa ma giusta reazione a qualcosa che non si poteva risolvere diversamente”, senza incorrere dunque nella necessità di intervenire, per mutare la situazione in atto.
L’atto stesso di vomitare la porta così a mutare il suo rapporto con il cibo e, di conseguenza, a rifiutare il paradigma canonico della colazione, del pranzo e della cena: la soluzione risiede proprio in quelle Tre ciotole che danno nome al romanzo, le uniche capaci di trattenere il cibo, diventate, col tempo, non più un rituale per uscire da una situazione difficile, ma un regime normale di gestione dei pasti. Quella delle tre ciotole è dunque la metafora fondativa all’interno del romanzo, un’immagine tanto semplice e quotidiana, quanto incisiva nella sua simbologia: esse rappresentano la necessità non solo della donna, ma dell’umanità intera, di reinventarsi, imparando a gestire diversamente la quotidianità, sulla base di nuove necessità, un tempo inconcepibili.
Le tre ciotole di Michela Murgia sono dunque un invito a prendere coscienza del tempo che abbiamo a disposizione in quanto uomini e, sulla base di ciò, imparare a scandirlo secondo un ordine non per forza stabilito dalla norma sociale, quanto piuttosto dall’intima esigenza del singolo. Un’ultima, preziosa, lezione regalataci da una donna che è stata capace di portare avanti, fino alla fine, il suo impegno e la sua attività riflessiva e divulgativa.