Tennessee Williams – Il dramma di in una famiglia instabile: tra sogni, insoddisfazioni e assenze
Tennessee Williams si presenta da solo attraverso le proprie opere, altre parole spese per conoscerlo sarebbero superflue. Lo si può collocare nella drammaturgia dello scorso secolo, ma il significato che suggeriscono gli scritti della sua vita rimane sospeso in una dimensione senza tempo, come la sceneggiatura del suo primo personale capolavoro ‘Lo zoo di vetro’. L’ispirazione autobiografica emerge nel tema della memoria, che ripercorre il passato di una famiglia in cui una madre, Amanda, abbandonata dal marito, cresce due figli da sola, Laura e Tom.
I ricordi sono narrati e filtrati dai sentimenti di Tom, che rispecchia Williams a tal punto che l’autore gli conferisce l’abbreviazione del suo vero nome: Thomas. Anche la figura della figlia Laura, rimasta zoppa da piccola, contiene un riferimento reale alla condizione fragile della sorella dell’autore, sottoposta a una lobotomia. La scenografia del testo, nella sua rappresentazione teatrale, termina con lo spegnimento di una candela, che indica la rimozione della vicenda appena narrata dalla mente di Tom. Questa conclusione buia, dovuta probabilmente anche alla volontà di dimenticare il passato dell’autore stesso, non fa scordare la drammaticità della storia, che si avverte già a inizio trama: se si isolano i personaggi e si interpretano in relazione al contributo che comportano nel nucleo familiare, si possono intravedere somiglianze con differenti e sottili concetti filosofici.
L’unica premessa doverosa prima di addentrarsi nell’analisi che vuole ricomporre questi pezzi di vetro – nient’altro che i pensieri di ogni scrittore – è che le persone non si conoscono individualmente, ma solo in relazione ad altro.
La famiglia come primo luogo di creazione di identità e socialità
Rousseau è un versatile intellettuale del Diciottesimo secolo che stabilisce un nesso indissolubile tra morale e politica: comprendere la natura del singolo individuo implica sempre uno studio della vita associata, poiché l’essere umano definisce la propria identità grazie al riconoscimento altrui. Tale riflessione ha origine in Aristotele, che teorizza l’uomo come animale politico. Il filosofo antico ragiona sulla polis, la Città Stato greca, analizzandone le sue parti costitutive fondamentali: i nuclei familiari. All’interno di essi si realizza una prima forma di coesione sociale, necessaria per crescere dei soggetti capaci di contribuire poi al complesso organismo che è la comunità.
La forma di aggregazione politica permette così ad ognuno di esercitare la virtù morale, realizzando la propria felicità grazie alla società e all’interno di essa. La razionalità dell’analisi Aristotelica dei precari equilibri delle dinamiche sociali mette in evidenza per contrasto la rilevanza di una minima alterazione a creare confusione e anomalie. Basta davvero poco per rendere la convivenza quotidiana un disagio condiviso, poiché ogni parte è necessaria all’armonia del tutto. Irritante è infatti la banalità della causa dei tormenti familiari nell’opera di Tennessee Williams: l’assenza del padre. Unica qualità che caratterizza la figura del padre nella vicenda è questa non-azione, una fuga vile che non concede nemmeno una possibilità di ribellione, abbandonando chi resta in solitudine con il vuoto lasciato.
La monadologia di una famiglia perfetta e l’occasionalismo di una madre apprensiva
Nel dramma l’assenza del marito è motivo della frustrazione di Amanda, madre che deve celare sotto nervosismi isterici il presentimento di aver sprecato la propria bellezza nelle mani di un uomo immeritevole, e all’insegna di una vita insoddisfacente. Così la donna repressa che è in lei sfoga le sue ambizioni sulla prole: desiderare per la figlia una sistemazione borghese nel matrimonio, e un buon lavoro per il figlio, silenziando i loro sogni con il peso dei propri fallimenti, travestiti da utili consigli.
La funzione di un genitore ideale è diversa da quella difettosa di Amanda (anche se realistica e diffusa), ed è rappresentata nella sua perfezione nella monadologia di Leibniz. Il filosofo matematico del 1700 elabora una concezione della realtà molto arguta e che non ha nulla a che fare con la composizione della famiglia, ma contiene due fondamenta per un sano amore: relazione e autonomia. Si tratta non a caso delle stesse istanze che guidano la storia greca delle poleis, ovvero un’autonomia politica che implica profonda diversità e contemporaneamente un sentimento radicato di unità culturale, estendendo la dinamica della famiglia, indispensabile per la cooperazione dell’intera città.
Leibniz ipotizza delle ‘monadi’, cioè sostanze individuali prive di estensione, punti metafisici tutti diversi tra loro e incomunicabili, la cui aggregazione forma la materia. Questo concetto a fondamento della realtà serve per conciliare la nozione di necessità del mondo, ovvero il meccanismo di forze che regolano i fenomeni naturali in modo che tutto funzioni regolarmente, e la libertà di azione e decisione umana. Così come dovrebbero essere i due estremi di una convivenza amorevole e fruttuosa: vivere insieme mantenendo i propri spazi, coltivare la condivisione senza ricadere in una forma di dipendenza o isolamento. Per avere una condizione di sistema così perfetto da mantenere il mondo esistente e in funzione, è necessario secondo il pensatore l’intervento di Dio, che garantisce un’armonia prestabilita. Ogni monade avrebbe infatti già all’origine tutte le informazioni necessarie al suo interno, così da risultare causalmente autonoma, ovvero capace di agire senza bisogno di influenze esterne, e allo stesso tempo indispensabile per l’universo. Come se sette miliardi di persone si muovessero per le strade e le città, continuando la vita di tutti i giorni armoniosamente, ma cieche e mute, senza comunicare. Così le entità pensate da Leibniz si relazionano tra loro perfettamente ma senza interazione, perché Dio gli ha conferito tutto il necessario per organizzarsi insieme.
L’armonia prestabilita rappresenta quella che dovrebbe essere l’educazione: genitori che tramandano i loro insegnamenti per educare figli pronti ad affrontare il mondo con la propria forza e libertà, senza il continuo intervento di chi gli ha dato la vita. La madre Amanda invece nell’opera di Williams rappresenta maggiormente la figura di un Dio creatore che non contribuisce a realizzare l’indipendenza e autosufficienza delle sue creature, ma una forma di dipendenza malsana. Tale concezione di creatore si richiama alla dottrina dell’occasionalismo, secondo cui ogni modificazione della materia è un’occasione per Dio di modificare il pensiero della mente che corrisponde a quel cambiamento. Questo concetto serve per risolvere la frattura tra realtà e intelletto, dualismo iniziato da Cartesio che separa la res cogitans dalla res extensa. Un occasionalismo che si riscontra in una madre che interviene nel corso naturale della crescita, prendendo i desideri e le fragilità degli adolescenti come occasioni per sentirsi utile, degradando il percorso libero di sviluppo adolescenziale. Così Amanda si relaziona ai suoi figli togliendo spazio alla loro autonomia, determinando i caratteri dei personaggi che si delineano nella storia.
L’introspezione di Laura e il consiglio di Hume
Il fratello di Laura, Tom, è un giovane promettente e affamato di sogni, lavora ma sa che il suo futuro si trova altrove, nella poesia. Mentre attende la realizzazione delle sue fantasie passa le notti al cinematografo per assaggiare un po’ di illusioni dal grande schermo, scatenando in Amanda la paura che suo figlio diventi un alcolizzato come il padre. Il suo amico Jim condivide con Tom l’appetito per l’arte. Prima di partire con all’inseguimento di aspirazioni impossibili, i due cenano a casa della famiglia. In tale contesto Jim incontra Laura e non si limita nel darle attenzioni, nonostante sia già impegnato nel fidanzamento con un’altra ragazza, alimentanto il debole cotta che lei nutre da tempo per lui.
La ragazza è probabilmente il personaggio più enigmatico e affascinante della vicenda. Rimasta zoppa da piccola, la timida Laura non riesce a integrarsi coi compagni, si sente diversa, lascia quindi la scuola e si dedica a coltivare le sue statuine di vetro che danno titolo all’opera: tanto fragili quanto trasparenti e pure, ma essenziali alla storia. Questi oggetti delicati rappresentano l’interiorità della ragazza, in cui si rifugia per via della propria insicurezza, che le impedisce di dichiararsi a chi desidera e di instaurare relazioni che sfondino quel confine di solitudine.
Tale divisione tra mondo interno e mondo esterno riflette una nota riflessione di Hume nella “Ricerca sull’intelletto umano” del 1758:
Sii filosofo, ma in mezzo a tutta la filosofia resta un uomo”
Egli intende allarmare i pensatori che si immergono nella riflessione con il solo ausilio della ragione, perché rischiano di intrappolarsi in uno scetticismo radicale che paralizza l’azione, non trovando alcuna certezza in base a cui decidere. Il suo consiglio è dunque quello di non dimenticarsi di seguire anche le sensazioni date dalla natura, che fungono da guida nella quotidianità, fornendo stimoli che il solo ragionamento non riesce a stabilire.
La filosofia qui intesa assomiglia allo zoo di vetro curato da Laura, dove è allettante il riparo da un mondo che, quando tocca la fragilità, finisce per romperla, come farà Jim. Hume spiega che è bene coltivare una sana solitudine in cui si pensa, si riflette e si curano le proprie insicurezze, ma dall’altro lato non si deve abbandonare la realtà, anche se spesso causa ferite e dolore. Perché la vita è fuori dai pensieri, è fatta di emozioni travolgenti e oscure, per niente cristalline come il vetro; una vita che Laura vede attraverso l’insoddisfazione di sua madre, che quindi non funge da esempio appropriato.
La famiglia non è razionale come la filosofia
Il dramma della memoria di Tennessee Williams non mira ad attribuire colpe per i problemi della vicenda raccontata, ma dipinge i disagi dei personaggi e la sensibilità che richiede la coltivazione dello zoo di vetro e dei ricordi che l’autore stesso conserva. Si possono tentare analisi e confronti razionali, come quelli qui descritti, di un sistema così poco schematico come quello della famiglia, poiché la filosofia è abituata a incastrare frammenti disordinati in sistemi artificiali. Bisogna però concludere che ogni famiglia ha una filosofia tutta sua e, a dispetto di ogni analisi, come in quella dello “Zoo di vetro“, i membri possono essere tenuti insieme solo dal tempo dalla memoria, e dall’amore.
abstract:
‘Lo zoo di vetro’ è il titolo di una breve e semplice opera teatrale di Tennessee Williams, ma talmente ricca e profonda da dare spunto a varie riflessioni. La trama è statica, infatti il tema verte principalmente sull’interiorità, di cui il vetro ne rappresenta la fragilità, e la dinamica di relazioni che sussistono all’interno della famiglia protagonista. Leggere il copione come se fosse un libro permette di rappresentare la scenografia sul palco della propria immaginazione, provare empatia per le vicenda raccontata, e inevitabilmente immedesimarsi in almeno uno dei cinque caratteri: il sognatore, l’assente, l’insoddisfatta, l’egoista, e l’introversa. Passando da una visione letteraria a una filosofica, è divertente (e faticoso) vedere la famiglia descritta come un nucleo armonico, in cui ogni singolo apporta uno specifico peso che può rompere o sostenere tale equilibrio di connessioni emotive. A questo gioco di forze che si serve dei sentimenti umani, si possono affiancare diverse interpretazioni di Dio e di mondo. Quella di Leibniz fornisce un esempio di Dio che sostiene un mondo perfetto, dove ogni componente è autosufficiente e completa da sola. Per contrasto, appaiono ancora più complesse le relazioni umane. Ma anche più vere, suggerendo forse che il dramma descrive meglio una realtà che la ragione vuole ordinare.
G. Leibniz, Monadologia, 1720
W. Tennessee, Lo zoo di vetro, 1945
D. Hume, Ricerca sull’intelletto umano, Londra, 1748