Teatro alla Scala, 7 dicembre 2022: Boris Godunov è una scelta politica?
7 dicembre 2022, nella Milano del giorno di Sant’Ambrogio la crescente frenesia per l’avvicinarsi del Natale lascia un po’ di respiro all’evento più importante del panorama lirico mondiale: la Prima della Scala. Quest’anno l’opera che inaugura la nuova stagione del teatro meneghino è il Boris Godunov, l’unico soggetto teatrale portato a termine dal compositore russo Modest Musorgskij.
Accolta fin da subito con scarso entusiasmo, a partire dal rifiuto dell’editore di pubblicarla e dei Teatri Imperiali di rappresentarla, il Boris Godunov ha dovuto accettare compromessi non indifferenti per vedere il suo titolo in cartellone. Il rimaneggiamento della partitura compiuto dall’autore stesso ha permesso all’opera di scorgere per la prima volta la luce al Teatro Mariinskij nel 1873, mentre per espatriare al di fuori della madrepatria, il dramma epico ha dovuto avvalersi della spinta di penne compositive forse più avvincenti di quella di Musorgskij.
Il legame tra il Boris Godunov e l’Italia, e in particolar modo con il Teatro alla Scala, passa per le mani di tre grandi direttori d’orchestra. Arturo Toscanini propose l’opera per primo nel 1909, per poi dirigere numerose recite negli anni venti del novecento utilizzando come riferimento la versione dell’opera revisionata e stravolta dal compositore Nikolaij Rimskij Korsakov. Il testimone passa poi a Claudio Abbado, che ha inaugurato la stagione scaligera nel 1979 con questo titolo, ma rappresentando la seconda versione di Musorgskij. Infine è Riccardo Chailly che riporta il Boris sul palcoscenico milanese, con la versione originale della partitura del 1869, in questo 2022 in cui la Russia ha molto fatto parlare di sé.
Il Boris Godunov è un’opera russa
E non solo, il Boris Godunov è un’opera russa che racconta la storia della Russia e per di più cantata in russo. Di fronte al contesto storico attuale, questa non si chiama propaganda? No, нет, e ancora no in tutte le altre lingue del mondo.
Le persone che hanno sprecato il loro fiato per criticare – o addirittura ostacolare – la messa in scena del Boris Godunov a causa delle ipotetiche controversie ideologiche, sono probabilmente le stesse non in grado di convincersi che la cultura del passato e la follia delle scelte politiche di oggi non hanno nulla in comune. Ma a queste persone dubbiose viene in soccorso la logica.
Organizzare la prima della Scala è un’operazione complessa, che richiede ben più di qualche mese. Il teatro è un marchingegno terribilmente delicato, se solo un ingranaggio è fuori dai suoi cardini rischia di collassare su se stesso. Per questo motivo tutto deve essere studiato e organizzato nei minimi dettagli, a partire dalla scelta del titolo, regia e scenografia, l’orchestra e il coro, fino a contattare gli impegnatissimi cantanti: il Boris Godunov è un progetto che da almeno tre anni ricorre nei pensieri del Maestro Riccardo Chailly, direttore artistico, e di Dominique Meyer, sovraintendente del Teatro alla Scala.
Pensare di sostituire l’opera all’ultimo momento è inattuabile, e di conseguenza è chiaro che sospettare che il Boris Godunov sia stato scelto appositamente per dar man forte alle correnti filorusse non ha alcuna corrispondenza verosimile con la realtà.
Di motivi per criticare la rappresentazione scaligera del Boris Godunov ce ne sono parecchi, ma ciascuno di essi prescinde dai pregiudizi politici: l’unica cosa che conta è la resa dello spettacolo del 7 dicembre, che dopo la doverosa premessa è finalmente arrivato il momento di analizzare.
Musorgskij e il gruppo dei Cinque
Settecento e ottocento musicale russo sono secoli in cui l’opera italiana e successivamente quella francese trovano ampio impiego nei teatri, affiancate inoltre dalle nuove tendenze sinfoniche tedesche. Il Boris Godunov, invece, rappresenta il prodotto più esemplificativo di quel processo che a partire da circa metà ‘800 si pone il fine di rinsanguare la musica colta attraverso l’introduzione di melodie e ritmi del popolo, attingendo dal repertorio dei canti e delle danze tradizionali.
Il ritrovato orgoglio nazionale è per molti paesi il motore che asseconda il boicottaggio della musica internazionale, in favore della ricerca di un sentimento di totale appartenenza e riscoperta delle vicine sonorità locali, radicate profondamente nella cultura folcloristica.
Attorno a questo impulso di ricerca di un rinnovato linguaggio musicale si raggruppano cinque compositori, non professionisti in principio, seguaci di quel nazionalismo impenetrabile che si articola fondamentalmente nella diffidenza verso la dottrina musicale, nel disprezzo verso il concetto romantico dell’arte fine a se stessa, nella repulsione verso l’opera straniera, i grandi cantanti e soprattutto verso i compositori russi che sceglievano di comporre alla maniera occidentale.
I compositori del così detto gruppo dei Cinque – Balakirev, Cezar Cui, Rimskij Korsakov, Borodin e Musorgskij – abbracciano le melodie brevi, ripetute ossessivamente piuttosto che sviluppate, e le armonie di matrice bizantina che la liturgia ortodossa ha conservato intatte, mettendo così in musica una gamma di impressioni che dalle sonorità orientali e fiabesche di Rimskij Korsakov si inoltrano fino al rigido e cocciuto orgoglio nazionale russo di Musorgskij.
Il realismo nazionalistico e tradizionale è infatti il tratto distintivo di quest’ultimo. Seguendo la strada abbozzata da Michail Glinka con l’opera La vita per lo Zar, dalle composizioni di Musorgskij emerge il bisogno disperato di raccontare la verità, spesso cruda, delle storie russe, costruendo le fondamenta del suo linguaggio sullo stile melodico del canto popolare, prediligendo quindi i suggerimenti dell’ispirazione piuttosto che lo sviluppo di temi e idee. La musica si fonde con le caratteristiche del linguaggio umano, dando voce a personaggi come Boris Godunov, che prendono vita da squarci e ritagli che si affacciano sulla realtà.
L’opera: Boris Godunov
In poche parole, il Boris Godunov è la storia di come il rimorso prenda lentamente il posto della sete di potere. Racconta di quel periodo della Russia chiamato dagli storici epoca dei Torbidi, che si conclude con l’incoronazione del boiaro Boris come nuovo zar in seguito all’omicidio da lui compiuto del legittimo erede al trono, lo zarevic Dimitrij, figlio di Ivan il Terribile. Il libretto è dello stesso Musorgskij, basato sul dramma omonimo di Aleksandr Puškin.
L’opera è il miglior prodotto del realismo poetico, incredibile e vertiginoso, che prende le distanze dal melodramma italiano e dal dramma wagneriano. Le armonie e i ritmi sono arditi, e le melodie appena abbozzate, incollate il più fedelmente possibile alla parola e all’espressione (di queste idee sarà continuatore Schönberg con i suoi studi sullo Sprechgesang).
La partitura è ricca di sezioni in scrittura corale, indice del progressivo interessamento al popolo da parte dei compositori. Dietro alle scene è nascosto uno spaccato straziante della Russia contadina, relegata all’ignoranza, superstiziosa e devota a Dio e allo zar. Su questa tela si muovono i rimorsi di Boris, i racconti del monaco Pimen, la vendetta di Grigorij, gli incubi, la follia e la speranza per un futuro sereno.
Il risvolto della medaglia è anche il motivo per cui il genio operistico di Musorgskij non fu da subito ben compreso. L’opera presenta principalmente due problemi: è irrimediabilmente statica dal punto di vista musicale e difficile da decontestualizzare per quanto riguarda la narrazione.
Il fatto che pulluli di corali – scrittura monumentale per eccellenza – non è un aiuto all’aspetto dinamico, inoltre le armonie spesso girano attorno, non conducono da nessuna parte, incentivate inoltre dalle melodie che più che temi sono spesso solo frammenti o cellule. Non ci sono arie, ma quasi tutto il materiale musicale scivola in un enorme recitativo che accompagna l’ascoltatore dalla prima all’ultima battuta.
La storia, invece, apre una parentesi sulla Russia a cavallo tra XVI e XVII secolo, fossilizzandosi su un avvenimento storico che in fondo rimane fine a se stesso. La vicenda del rimorso di Boris non riesce del tutto a insinuarsi nelle profondità dell’animo umano e indagare nel cuore dell’ascoltatore, perché all’epoca dei fatti era usanza abbastanza comune mettere fine alle stirpi altrui, altrimenti non si sarebbe parlato di periodo dei Torbidi e Ivan non sarebbe stato il Terribile. L’ascoltatore è poco coinvolto, e nonostante il tentativo di Boris di condividere con il pubblico la sua sfera sentimentale, rimane comunque distante.
Alla direzione e alla regia è affidato l’arduo compito di smuovere le fondamenta del Boris Godunov per mettere in pratica lo spirito compositivo di Musorgskij, che sulla carta funziona alla perfezione, ma in scena è un attimo che l’imponente vicenda dello zar russo si cementifichi sul palcoscenico. Il Maestro Riccardo Chailly e il regista Kasper Holten sono stati all’altezza?
Riccardo Chailly
Tra le nove opere che il Maestro Chailly ha diretto in altrettante inaugurazioni scaligere, il Boris Godunov è forse quella che più si addice alla sua bacchetta. Le sonorità brune, l’atmosfera cupa, la scrittura molto densa della partitura sono elementi che riesce a gestire con grande abilità. Ne risentono invece le poche sfumature delicate dell’opera, totalmente trascurate.
Per questo motivo, tutta la direzione rischia di apparire un po’ pesante. La musica, soprattutto della prima parte del Boris, soffre di momenti in cui quasi fatica a trascinarsi fuori dalla buca, ma comunque Chailly ha dalla sua parte un suono incredibilmente bello dell’orchestra (archi meglio dei fiati), capace di allontanare ogni dubbio quando esplode nei fortissimi infuocati e negli accordi cavernosi che dalle profondità della terra si spingono fino al soffitto del Teatro. Sarebbe stato bello riuscire a rimanere ugualmente impressionati anche per la condizione duale: i pianissimo, quasi inesistenti.
Anche quest’anno la missione di Chailly nel mettere in scena la prima versione assoluta di un’opera prosegue. In passato alcune volte ha funzionato, riscuotendo grande interesse, altre decisamente meno, riportando in scena frammenti che hanno aggiunto poco o nulla alle versioni tradizionalmente rappresentate. È un po’ strano, però, che ogni 7 dicembre un compositore debba essere fatto passare per genio incompreso ed etichettare il primo concepimento di un’opera come se fosse la legge.
Evolversi non è un male, anche se per Boris Godunov, dato che sono molti i compositori che nei secoli ci hanno messo le mani, far rivivere le aspre e convinte sonorità primordiali di Musorgskij è una carta vincente, a discapito però della fluidità dell’opera, elemento introdotto solo a partire dalla seconda revisione del compositore stesso.
Kasper Holten
La regia è affidata al danese Kasper Holten, che deve fare i conti con la sua prima scaligera. Tutto sommato non c’è male, ma anche lui è annichilito dalla tremenda staticità della partitura. In scena tutto funziona perché sostanzialmente non accade nulla.
Holten ha immaginato la vicenda avvolta nelle pagine che raccontano della vicenda stessa, utilizzando cioè il pretesto di una gigantesca pergamena per tenere l’osservatore sempre vigile sugli scritti della cronaca russa narrata dal monaco Pimen, testimone dell’uccisione dello zarevic Dimitrij.
L’apertura del sipario svela il popolo russo, impersonato dal Coro scaligero sapientemente preparato dal Maestro Alberto Malazzi, e il clima sembra vagamente confusionario, non è ben chiaro dove i personaggi vogliano andare. Sembrano muoversi liberamente nello spazio fino alla scena successiva, dove una porta dorata introduce il corteo dell’incoronazione di Boris, dai tratti vagamente ricordanti l’Aida zeffirelliana.
La prima vera pecca di Holten è la quasi completa noncuranza nei confronti dei dettagli, come ad esempio lo studio sui piccoli movimenti, che in fondo sono il sale e il pepe del teatro. Infatti la rappresentazione rimane un po’ sciapa, con nessuna intuizione particolare degna di nota.
Il secondo problema è che Holten ha messo in scena un Boris Godunov estremamente concettuale. Un chiaro esempio è il fantasma dello zarevic Dimitrij, che compare in scena avvolto tra le pagine insanguinate della storia russa. Riprendendo quanto detto in precedenza, Musorgskij è tutt’altro che concettuale, bensì è descrittivo e seriamente impegnato a narrare il crudo realismo. La discrepanza si avverte chiaramente, e tra l’altro l’utilizzo dei fantasmi sfugge un po’ dalle mani di Holten nella seconda parte dell’opera: probabilmente voleva essere provocatorio, ma ciò che ottiene è un parodia di un film splatter.
Ildar Abdrazakov e gli altri cantanti
L’incredibile risonanza della voce vigorosa del basso russo è capace di riempire completamente il Teatro.
Boris Godunov è il ruolo per cui Abdrazakov, protagonista assoluto non solo dell’opera ma dell’intera serata, verrà ricordato per il resto della sua vita. Come lui in un’intervista parlava con gli occhi lucidi del nostro basso russo, Fëdor Šaljapin, che fu il primo Boris in Italia, ci sarà un ragazzino che parlerà di lui ricordando il 7 dicembre 2022.
Abdrazakov è riuscito a creare un legame estremamente saldo con la sua parte, mostrando con fierezza all’ascoltatore che meglio di lui nessuno avrebbe potuto interpretare Boris Godunov. I dettagli di caratterizzazione del personaggio, che mancano sulla scena, sono invece presenti e chiaramente distinguibili nelle molteplici sfumature della voce del basso, che talvolta dimostra di avere idee musicali perfino migliori delle indicazioni della bacchetta di Chailly.
Boris Godunov è una prova che nasconde molte insidie, prima di tutto perché è una partitura sprovvista di arie, e quindi la bravura del cantante deve emergere da altri elementi, come ad esempio la capacità di catturare l’ascoltatore nei lunghi monologhi in recitativo. Abdrazakov in questo è un maestro, sia dal punto di vista vocale che interpretativo.
Con in palcoscenico un basso dotato di infinite potenzialità, è giustificata anche la scelta di Chailly di rappresentare la prima versione di Boris Godunov, la quale si concentra maggiormente sul personaggio del protagonista, sostenuto dalle sonorità gravi che si fondono con la sua voce.
Buona prova per tutto il cast dei cantanti, Pimen – interpretato da Ain Anger – in alcuni punti un po’ sottotono, ma per il resto è evidente il grande e preciso lavoro svolto per rendere al meglio un’opera che manca dalle scene italiane da più di quaranta anni.
Il 7 dicembre 2022: Boris Godunov
Come ogni Sant’Ambrogio al seguito della musica una ventata di polemiche mondane si diffonde per la piazza, ma fortunatamente non riesce a violare le porte del Teatro. Il Boris Godunov è una scelta politica? No, è una scelta curiosa e di ambigua comprensione, ma anche se lascia molti punti irrisolti, è capace di incidere la traccia del suo passaggio sul palcoscenico scaligero, consacrando il successo della serata.
https://www.teatroallascala.org/it/index.html
https://www.arateacultura.com/category/musica-e-teatro/alla-scala/