La patetica ambizione di scrivere in “Tanto Poco” di Marco Lodoli
di Nicola Vavassori
Tanto Poco. Nomen Omen. L’ultimo romanzo di Marco Lodoli è un racconto da leggere in un pomeriggio. Richiuso il libro vien da chiedersi: Abbastanza?
Secondo Einaudi, sì. L’opera, pubblicata nel 2024, è in pole position al Premio Viareggio-Répaci, candidata allo Strega da Elena Stancanelli (senza aver raggiunto la dozzina), recensita senza macchia sulla Lettura del «Corriere» e su molte altre testate. Un trattamento obbligato per un autore come Lodoli, che è già alla sua venticinquesima pubblicazione con la grande “E”, tra le quali spiccano le sue “guide vagabonde di Roma”, Isole (Einaudi 2005) e Nuove Isole (Einaudi 2014), accanto molte altre opere di rilievo nella letteratura contemporanea.
Tanto Poco (Einaudi 2024) è ambientato a scuola, come anche il precedente romanzo, Il preside (Einaudi 2020), e molti altri testi che hanno contribuito a inserire il professor Lodoli nel pantheon degli autori che scrivono “ex cathedra” – per citare il collega Starnone. Ma stavolta di scuola non parla. Parla, Lodoli, d’amore. Nemmeno questo è un argomento nuovo nella faretra di uno scrittore così prolifico, ma il tipo di amore raccontato questa volta è inedito.
Amor Cortese
La narratrice è un’innominata bidella che trascorre la vita a coltivare un’ossessione d’amore per il docente di lettere, Matteo Romoli, quasi un alter-ego dell’autore fin dall’assonanza nel nome. Matteo è il prototipo del professorino fresco di laurea che si lancia nell’insegnamento con un entusiasmo fin troppo raro tra le cattedre italiane, assegna tracce dei temi originali e non dà mai un’insufficienza.
Il testo non ha toni ironici, ma è difficile non vedere tra le righe di questa dinamica una parodia della tradizione dell’amor cortese. La bidella si innamora del professor Romoli praticamente a prima vista e da lì ne segue le gesta da lontano, accontentandosi di uno sguardo, di un saluto, di sentirsi chiamare con il nome sbagliato, “Caterina”. A lui non dedica pensieri erotici, ma soltanto candide fantasie coniugali, e se nella vita di Matteo entra un’altra donna a lei non resta che stare ad aspettare inerme la fine naturale della loro relazione.
Questo “amor de lonh” – come lo chiamerebbe Jaufre Rudel – prosegue per un arco di quarant’anni senza mai un contatto, ma raggiunge climax inquietanti, al limite dello stalking. “Caterina”, pur continuando ad essere ignorata e a lasciarsi ignorare dal suo amato, prende un aereo per Parigi per seguire Marco ad una premiazione letteraria, senza conoscere il francese e ovviamente senza informarlo. O ancora, fa ristrutturare la propria casa in modo da ricavarne uno studio dove il professore possa rifugiarsi a scrivere, in un futuro che sa non potersi mai realizzare. Infine, in una parentesi imprevedibilmente fantastica della narrazione, si ritrova a dialogare con la personificazione faustiana della propria ossessione, arrivando a ucciderla e seppellirla nel giardino della scuola.
La dedizione della donna, insomma, è totale, ed è presto evidente che “Caterina” non sia innamorata di Matteo, ma dell’amore che prova per lui. La differenza è sottile, ma per capirla basta pensare agli struggimenti del Dolce Stil Novo o di Petrarca, ai quali spesso la critica ha imputato di inventarsi una donna solo per fare poesia. E così come Orfeo, che per Gesualdo Bufalino si è voltato apposta sulla soglia dell’Inferno, sacrificando deliberatamente Euridice per avere in cambio un amore da cantare, allo stesso modo “Caterina” non desidera nulla più che starsene ferma ad amare da lontano. È il fatto stesso di amare che definisce l’identità della donna, il cui nome infatti esiste soltanto nel momento in cui Matteo, come un dio-bambino che nomina il mondo, gliene attribuisce uno. Ma su questo, torneremo più avanti.
Tanto poco. Abbastanza?
Prima bisogna chiedersi: perché si rimane insoddisfatti richiudendo il libro? Perché quell’“abbastanza”? In primis per la brevità della narrazione, che chiude le porte a qualsiasi intreccio della trama e approfondimento dei personaggi. Solo la coppia di protagonisti sopravvive alla memoria una volta terminata la lettura e, dei due, Caterina è statica e immutabile per esigenze di trama, mentre Matteo attraversa la parabola, del tutto prevedibile, del professore aspirante scrittore “che prometteva bene e poi si è smarrito”.
Certo, come insegnavano i neòteroi e gli alessandrini, la brevitas regala molto spazio per limare lo stile. E infatti la prosa di Lodoli è pulita e impeccabile, un esempio da manuale di una scrittura “in levare”, come quella di cui parlava Calvino nelle Lezioni Americane. Ma a differenza di Calvino, Lodoli non riesce ad essere incisivo e memorabile. La sua scrittura scorre via sì leggera, ma non soltanto in senso positivo.
Un’interpretazione nascosta
Pur non spiccando per trama e personaggi, però, Tanto poco nasconde un autentico gioiello e questo si scopre ponendosi una domanda che dalla critica è stata liquidata troppo in fretta: perché Caterina si innamora di Matteo? Le prime avvisaglie di risposta nel testo sembrano scontate e stucchevoli: la donna avverte un vuoto incolmabile dentro di sé e decide di riempirlo abnegandosi alla causa di amare Matteo, persona ben più valida di lei. Meno in superficie: Matteo, scrittore intraprendente e pieno di ambizione, suscita ammirazione nella bidella che si sente ignorante e, con l’amore, vorrebbe dare prestigio alla propria classe, nobilitando se stessa.
Ma la verità è quasi opposta, e traspare di riga in riga negli sguardi che Caterina rivolge a Matteo. “Diceva solo bugie agli altri e a se stesso. Matteo era un debole, tutto qui, e anche per questo lo amavo”, pensa Caterina quando il professore, nel suo discorso di compleanno, afferma di amare più la scuola che i suoi romanzi. O ancora: “Io l’ho subito amato perché ho capito che senza di me non poteva farcela, e io senza di lui non ero niente”. E ancora: “Lui è un uomo così debole e stupido, non ce la può fare senza di me.” E infine:
“Glielo insegnano fin da piccoli, in certi ambienti sociali: fai quelli che devi fare e cerca di essere il migliore. Noi del popolo siamo educati alla rassegnazione o alla rabbia, loro alla superiorità, anche se è bene nasconderla dietro una finta modestia.”
La verità – il “gioiello” in Tanto poco – è che l’amore di Caterina nasce dalla compassione. E ad essere compatita è prima di tutto l’ambizione di Matteo a diventare scrittore. Caterina, dal basso della sua consapevole ignoranza, considera la letteratura come il tenero capriccio di un privilegiato sognatore. Compra i suoi libri per sostenerlo, ma non li legge mai. Commisera la carriera volubile a cui Matteo si condanna con i propri sogni. Commisera la vanità e la falsa modestia sempre in conflitto nel suo animo.
Infondo lo trova patetico, debole, stupido, incapace alla vita. E scopre se stessa saggia in questi pensieri. Ecco perché non vuole raggiungere Matteo, ecco perché non vuole salvarlo o migliorarlo, pur disponendo ogni cosa per farlo, nel concreto. Perché ha bisogno del fallimento di Matteo. Perché continuando ad osservare da lontano un professore laureato che si distrugge la vita inseguendo la chimera di un successo letterario, Caterina giustifica e dà valore alla propria serena inerzia.
Ecco il “segreto” di Tanto poco. L’ultimo romanzo di un autore estremamente prolifico come Marco Lodoli, che ha attraversato quasi mezzo secolo di letteratura italiana esordendo già nel 1978, è in realtà un lungo compianto all’alter-ego di se stesso e al mestiere di scrivere.
Ma certo non bisogna confondere la verità di un libro con la verità del suo autore. Quanto c’è davvero di Marco Lodoli in Matteo Romoli? Quanto un autore può tradursi in un suo personaggio? Quanto Lodoli considera patetica l’ambizione della scrittura che lo ha guidato per tutta una vita? Difficile a dirsi e non c’è urgenza di rispondere. Sarà più prudente fermarsi prima, anche noi, in levare.