“Su tutti i vivi e i morti: Joyce a Roma”- PREMIO VIAREGGIO 2022.
Sono passati 140 anni dalla nascita di James Joyce, e 100 anni dalla pubblicazione di “Ulisse“, l’opera che gli ha regalato un posto tra i grandi della letteratura. Del grande scrittore irlandese si è scritto e detto molto, dalle semplici biografie alle critiche più efferate (Virginia Woolf stessa, in uno scritto del 1923, si lamentava di quanto l’autore di The Dubliners e Finnegans Wake fosse già ai suoi tempi “…troppo sopravvalutato”), eppure ci sembra di non saperne ancora abbastanza, di non conoscerlo a 360 gradi, tanto che Richard Ellmann, uno dei più importanti biografi di Joyce, ci ricorda che bisogna ancora imparare a divire contemporanei dello scrittore dublinese. Enrico Terrinori, autore di “Su tutti i vivi e i morti: Joyce a Roma” è ben consapevole dell’esistenza di questi “gap” che riguardano la vita dell’autore, e proprio in occasione del 140esimo anno dalla sua morte scrive un labirintico saggio in cui indaga, scandaglia e analizza uno dei periodi per noi più problematici della vita dell’autore, quello che per pochi mesi, tra il 1906 e il 1907, lo vede vivere a Roma.
Vita e scrittura: una Roma che spaventa
I mesi in cui Joyce vive a Roma sono mesi travagliati, in cui l’autore, come Terrinori illustra perfettamente, lavora tantissimo: lavora in banca, fa lezioni private di inglese, lavora in una scuola di lingue, il tutto dedicando pochissimo tempo alla scrittura, fatta eccezione per la grande quantità di lettere che invia al fratello Stanislaus, rimasto a Trieste. È proprio partendo da queste lettere che l’autore di “Su tutti i vivi e i morti” cerca di restituire un’immagine quanto più completa possibile dello scrittore irlandese, uomo poliedrico e a tratti difficile da capire, proprio come la sua scrittura
“È giunto il momento, credo, nell’affrontare la vita di Joyce quale estensione della sua scrittura, di tornare a un terrore misto a meraviglia di fronte alla ricomposizione el sè, anzi, dei “se”, ovvero le possibilità che sempre ci plasmano, le occasioni mancate o abbracciate che finiscono per forgiare […] sia l’identà che l’arte”
Enrico Terrinori, “Su tutti i vivi e i morti: Joyce a Roma”, Feltrinelli Editore, 2022, p.11.
Terrinori, insomma, non si limita a scrivere una semplice biografia, a fornirci dati puntuali relativi alla vita di Joyce a Roma (per quanto, in realtà, il saggio ne sia davvero pieno), fa molto di più: scava nelle parole, nei gesti e nella mente dello scrittore irlandese, che matura l’amore per l’Italia già negli anni dell’adolescenza, per poi conservarlo e svilupparlo negli anni dell’università, quando si avvicina a scrittori come Dante, Giordano Bruno e Gioacchino Fiore. La vita romana di Joyce, così come ci viene restituita da Terrinori, può essere perfettamente descritta con il termine greco “thauma“, paura e meraviglia, incubo e sogno allo stesso tempo, parte della medesima dimensione onirica che l’autore irlandese scandaglierà in alcune delle sue opere più importanti, Finnegans e Ulisse, e che Terrinori ci restituisce come una breve ma importante sezione di quel filo nascosto che sembra legare sogno, vita e scrittura di uno dei più importanti scrittori del ‘900.