Critica di Poesia,  Letteratura

Spazio, materia e parola. Una lettura di “Uscire di città” di Mario Santagostini

un articolo di Christian Negri

Santagostini, uscire di città
Uscire di città (Stampa 2009, 2012), Mario Santagostini

Nella prefazione alla riedizione del 2012, Maurizio Cucchi rileva che Uscire di città, libro d’esordio di Mario Santagostini, più che una silloge di componimenti appare come un poemetto nel segno dell’elegia urbana. E come dargli torto? Sin dalla seconda poesia «si cammina con poco da raccontare come una favola»: la voce poetica si regge su due gambe solide, grazie alle quali macina chilometri nel centro e nella estrema periferia milanese. Passeggiando l’io registra una serie sterminata di dati materiali, che nella maggior parte dei casi hanno ben poco a spartire con il vocabolario tradizionale della poesia: rotaie, pozzanghere, impalcature, perforatrici, cartacce, sirene, tram… Davanti agli occhi del lettore prende forma al confine di Milano una città aliena, costituita da spazi progressivamente riempiti e svuotati, le cui strade recano anche nella notte le ferite del traffico. I luoghi spesso appaiono svuotati dalla stessa umanità – si dice che «nessuno o pochi passano la strada», si parla di «girare solo sotto le ampiezze dei portici», si rammenta che «ti si lisano i pantaloni se cammini nei rioni vuoti» – oppure vengono affogati in uno sguardo retrospettivo sotto una luce asfittica e atemporale: sono «le nostre giornate scritte in passato remoto/ le domeniche calate sui sagrati» o, ancora, i «Muri cotti dall’afa e dal caldo./ Sassi accesi di calore ancora a venire». In questa congerie fanno capolino a tratti luoghi riconoscibili, ad esempio il Duomo o la Stazione Centrale, oppure ancora anonimi ma investiti di una certa autorevolezza, come la Falck, la Marelli o persino «la torre dell’acquedotto». Ci si potrebbe aspettare che il poeta li assuma come punti di riferimento, che sintetizzi nella loro esemplarità il senso del vagabondare o che ne instauri un paragone con lo squallore della periferia, ma nulla di tutto ciò accade; anzi, sembrerebbe quasi che maggiore la caratura del luogo citato e minore il peso che esso prende nel componimento. In Una giornata si incontrano in sequenza: la Loggia dei Mercanti, Piazza Fontana, il Duomo, la Stazione Centrale, come se i versi effettuassero una scarrellata attraverso la città. Questi luoghi nulla hanno della ferma monumentalità della già citata Falck, ad esempio, eppure concorrono a svolgere la stessa funzione: nella loro riconoscibilità hanno valore testimoniale, avvalorano l’operazione compiuta dal poeta incastrandola nella griglia di una topografia individuabile. Nei bar più che salutarsi si annaspa, i muri sono cotti dall’afa e dal caldo. Perché Santagostini, passeggiando, non si accontenta di registrare il dato materiale con sguardo catalogico. Passeggiando, egli mette in moto l’intelletto, scorge relazioni, tracce, differenze e attraverso il potere del raziocinio ridona vitalità a spazi ottusi, svuotati di senso in una prospettiva piuttosto ontologica.

Ma c’è di più. Il poeta durante le sue marce non può evitare che il passato faccia capolino nella forma del ricordo. Egli ne intravede il pericolo, la vacuità garantita dall’assenza di ripercussioni immediate e concrete, riconosce come possa fungere da balsamo malinconico. Analogamente, fine a sé stessa pare essere l’ossessione per il tempo futuro che l’io legge negli altri, in quei cittadini che prima di essere uomini sono lavoratori, quando «Nei tonfi sordi delle azioni/ l’attività e il lavoro si condensano/ e, come un invasato, il quartiere rincorre la caligine». Emerge sottotraccia la paura che da un lato il ricordo decada in nostalgia e da lì in una beata inazione, e che dall’altro il domani si traduca in illimitata brama di produzione, in un fare sempre di più, e che pertanto ci si impantani nella costante insoddisfazione delle voglie proiettate in un tempo a venire. Perciò vedere le cose, sentire il calore della periferia, venirne assordati e leggerne l’ottusità, nobilitare in maniera paradossale una spazialità vile, funge da àncora per il poeta, in grado di cogliere la pienezza del reale nel suo hic et nunc. Appena sotto la superficie del foglio, negli spazi bianchi e tra le righe, si legge questo: Santagostini entra progressivamente a far parte dello stesso mondo alieno che esperisce, quasi mimetizzandosi; anzi, più che imitare il bordo estremo di Milano vi si inserisce come un corpo estraneo, diventa egli stesso fenomeno. L’incedere sobrio dei versi è testimone di una miracolosa consapevolezza di sé che consente all’io di non smarrirsi nell’ambiente a cui s’è fuso, rovesciando l’aforisma nietzschiano secondo il quale «[…] se tu scruterai a lungo dentro un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te». L’io trae poesie dal portato pragmatico in quanto, materiche, tornano alla materia riplasmandola.

In conclusione, il poeta gode della complessità ontologica che percepisce, si sente parte di un tutto aggredito dalla modernità, ingrigito e ferito, ma ancora pulsante sotto la scorza del calcestruzzo. E per quanto egli appaia sempre solo nel suo vagare, il recupero della socialità è possibile, anzi desiderato. Ma con cautela: in questo senso il ricordo, il pericoloso emblema di un passato astenico, serve ad anestetizzarne la carica tossica. In questa Milano relazionarsi con l’altro equivale ad aggrapparsi al prossimo, tanto che «annaspano di saluti i caffè»; un “ciao” passa a significare una richiesta di aiuto, la vicinanza diventa un modo per estorcere vitalità, quell’esserci concretamente in un dato cronotopo. Una volta colta l’impostazione errata, vampiresca, delle relazioni interpersonali, occorre operare un tentativo di risanamento, a partire dalla stabilità del soggetto: nella periferia estrema, nel continuo uscire e rientrare dalla città, l’io trova uno spazio in cui esercitare la sua indipendenza, una vera e propria autàrkeia. Dal momento che la città appare privata di ogni ordine, bisogna che risuoni in sé stessi il kòsmos sotteso, stabilire una connessione coi luoghi e di qui irraggiarlo nel prossimo.

***

DOPO LA PIOGGIA, LE COMPARSE

Si sgranchisce l’erba al fianco delle pozze di nafta
gli archi dei portici costruiscono mucchi di persone.
Li ricordi come le ultime pagine di questo libro
questi giorni sottilmente passati, marciti
al vento secco di marzo che rafforza il presente
rifanga i capelli, ripete in lontananza
la stanchezza bagnata dei luoghi.
Scoppia di pioggia la torre dell’acquedotto
un addio folto, quasi inciso nelle pianure
sale verso la città.

*

II

Ancora nell’ordine:
le strade vuote scaricano foglie
si costeggiano i parchi cercando il crepuscolo.
Ti si lisano i pantaloni se cammini nei rioni vuoti.
Rimagra su se stessa la brughiera.
Inutilmente tenti,
con dolcezza e muoversi infinito,
di riportare un poco di colore.
I mattini dell’annata migliore,
le compagnie ormai chiuse in
conventi bianchi di marmo,
azzannano come cani confusi
le ali di questa sera spicciola.
I ricordi soltanto, impavidi,
compiono looping stantii.

*

UNA GIORNATA

Sparendo sbatte lo spazio contro la finestra,
qualcosa devasta l’aria
e la Loggia dei Mercanti cade alla mattina
come cade l’Epoca.
E poi ancora
cingoli che spianano i campi
giornate grigie controvento
caffè dipinti a piazza Fontana
camicie appese nomi di plastica
ferro acqua negli stagni d’un autunno malato.
Ritorni con un libro di vecchie storie in tasca
e scompari nell’orbita
magari nei treni che frenano alla Centrale
o vai camminando di profilo al Duomo.
Ancora te le rivedo le fermate al capolinea.
I balconi aperti alla luna
c’è una foresta di nomi
e capire è difficile.
Nafta odore forte vicino alla Marelli
abbiamo aspettato l’autobus
per contare meglio i minuti e aspettare l’ora
di arrivare qui a dettare le parole
qui, in queste camere,
dove si vedono, di lontano,
i camions spaccare la mattina all’alba.

*

PAESAGGIO I

Odora di futuro la periferia.
Muri cotti dall’afa e dal caldo.
Sassi accesi di calore ancora a venire.
Sui terrazzini delle case popolari,
bottiglie appese al vuoto dei cortili.
Tubi e riflessi, grate sui marciapiedi.
Androni appena chiarificati.
In alto, ancora e sempre questo cielo
docilmente rappreso lungo nella monotonia
di nuvole e cose sparse.
Passeggi randagi.
Il sipario, stasera, si fa largo nel tempo
e si riempie di una calma secca, inutilmente spaziosa
modulata in lontananza dall’uscire degli autocarri.
Troppe cose per comporre un panorama
qui, quando si ferma il quadrato della noia
neppure il lavoro urla di male
è sempre un cercare demente.

*

Le nostre giornate scritte in passato remoto,
le domeniche calate sui sagrati,
l’ombra dei camions appoggiati ai muriccioli
intorno alla Comasina e i ritorni degli altri
li ho visti passare in una parola
un pomeriggio miracoloso nelle tinte
mentre osservavo l’aria oscillare
tra i fili di luce, all’aperto.
C’è solo un modo per fissare la parola
il ricordo della pronunzia che si
rompe in gola appena levi la testa verso l’alto:
urlare e scrivere
– Eraclito – o – amore –.

***

Classe 2002, Christian Negri studia lettere antiche presso l’Università degli Studi di Milano. Sue poesie e contributi critici sono presenti on-line (MediumPoesia, Inverso – Giornale di poesia, PoetiOggi, Atelier).

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