Due poesie sul suicidio: Sereni e Giudici
di Marco Cresti
In questo testo ci proponiamo di studiare il tema del suicidio in due autori vicini ma appartenenti a generazioni poetiche differenti: Vittorio Sereni e Giovanni Giudici – che esordisce nel 1965, con La vita in versi, proprio grazie a Sereni, che allora vestiva l’incarico di direttore editoriale di Mondadori. Nello stesso anno esce, sempre per la collana de “Lo specchio”, Gli strumenti umani, opera che sarà un riferimento continuo per Giudici. In particolare, si potrebbe cogliere l’influenza tra i due nel rendere centrale la dimensione dei morti. Vedremo quindi come i due autori si approcciano a questo tema.
In Giovanni Giudici il confronto con la dimensione dei morti assume anche i toni di un confronto generazionale, ad esempio con la figura della madre, che muore quando il poeta è ancora bambino, ma rappresenta anche un collegamento tra la dimensione del presente e quella del passato che si vuole celebrare e che ritorna, anche cristianamente, attraverso le parole e le figure dei morti.
La dimensione dei morti è elemento ricorrente in buona parte della produzione di Giudici, e ha il suo picco nella raccolta intitolata Il ristorante dei morti (1981) dove si spazia temporalmente dall’infanzia al presente dell’io e del poeta, passando per la figura del padre morto, la cui assenza assume un’importanza rilevante nei testi.
La poesia che si riporta, Il meglio, contiene un ulteriore elemento, che è quello della morte per suicidio, elemento coraggioso da trattare per un poeta dichiaratamente cattolico (ma di fede politica socialista) data l’avversione dichiarata dalla chiesa a chi si trovava nelle condizioni di compiere un gesto tale.
In questo testo emerge una concezione religiosa della morte, come si vede dal primo verso in cui le cause del suicidio si dice siano conoscibili solo da «Dio». Tutto il componimento segue l’andatura di un sermone in cui un professionista della morte o, meglio, del suicidio, come si evince dai versi «Io per ragioni del mio lavoro suicidi / ne ho visti», fa delle osservazioni su come ammazzarsi in maniera da scioccare meno chi, come lui, deve avere a che fare con i cadaveri in seguito.
Quanto al suicida – Dio sa per quale motivo.
Ma appendersi così
no – soggiunse – mi creda.
Io per ragioni del mio lavoro suicidi
ne ho visti – e se
devo dare un consiglio:
mai impiccarsi – direi – non l’ha mai vista
la faccia di quelli che s’impiccano lei.
E spararsi bisogna
sapere – perché quelli che si sparano in bocca
o alla tempia all’orecchio non immagina
come restano
con che occhi.
Il meglio per restare naturale come si è
è un colpo al cuore.
da G. Giudici, I versi della vita, Mondadori, 2000.
L’andatura a sermone implica un io che pontifica sull’argomento morte e suicidio e un tu – a cui ci si rivolge con il lei – a cui si spiega come sia meglio ammazzarsi. Per questo, venendo al titolo del componimento, il «Meglio» sarebbe quindi il metodo, a sua detta, il modo migliore per uccidersi, cioè spararsi un colpo al cuore.
C’è un punto del testo in cui addirittura l’io ammonisce che «spararsi bisogna / sapere». Questa figura incarna una visione moralistica del suicidio, inserisce il gesto del suicida nella dimensione dello scandalo, e i suoi consigli sono volti a diminuire l’oscenità del gesto di suicidarsi. Questa concezione si inserisce in una più ampia visione religiosa della morte, e in particolare del suicidio, in cui si ha una certa repulsione della vittima e del suo gesto.
Il testo che si riporta di Vittorio Sereni, Intervista a un suicida, si approccia al tema della morte per suicidio con una postura decisamente più filosofico-letteraria che religiosa. Centrali in questo testo sono i concetti di eterno e di anima. Questi sono però costantemente ironizzati, come si può leggere nei primi versi quando si parla dell’anima: «L’anima, quello che diciamo l’anima e non è / che una fitta di rimorso». L’io si impegna, di fronte alla tragedia della perdita di un amico o di un conoscente avvenuta per suicidio, a non mitizzare questi concetti di anima e di eterno.
L’anima, quello che diciamo l’anima e non è
che una fitta di rimorso,
lenta deplorazione sull’ombra dell’addio
mi rimbrottò dall’argine.
Ero, come sempre, in ritardo
e il funerale a mezza strada, la sua furia
nera ben dentro il cuore del paese.
Il posto: quello, non cambiato – con memoria
di grilli e rane, di acquitrino e selva
di campane sfatte –
ora in polvere, in secco fango, ricettacolo
di spettri di treni in manovra
il pubblico macello discosto dal paese
di quel tanto…
In che rapporto con l’eterno?
Mi volsi per chiederlo alla detta anima, cosiddetta.
Immobile, uniforme
rispose per lei (per me) una siepe di fuoco
crepitante lieve, come di vetro liquido
indolore con dolore.
Gettai nel riverbero il mio perché l’hai fatto?
Ma non svettarono voci lingueggianti in fiamma,
non la storia di un uomo:
simulacri,
e nemmeno, figure della vita.
La porta
carraia, e là di colpo nasce la cosa atroce,
la carretta degli arsi da lanciafiamme…
rinvenni, pare, anni dopo nel grigiore di qui
tra cassette di gerani, polvere o fango
dove tutto sbiadiva, anche
– potrei giurarlo, sorrideva nel fuoco –
anche… e parlando ornato:
«mia donna venne a me di Val di Pado»
sicché (non quaglia con me – ripetendomi –
non quagliano acque lacustri e commoventi pioppi
non papaveri e fiori di brughiera)
ebbi un cane, anche troppo mi ci ero affezionato,
tanto da distinguere tra i colpi del qui vicino mattatoio
il colpo che me lo aveva finito.
In quanto all’ammanco di cui facevano discorsi
sul sasso o altrove puoi scriverlo, come vuoi:
NON NELLE CASSE DEL COMUNE
L’AMMANCO
ERA NEL SUO CUORE
Decresceva alla vista, spariva per l’eterno.
Era l’eterno stesso
puerile, dei terrori
rosso su rosso, famelico sbadiglio
della noia
col suono della pioggia sui sagrati…
Ma venti trent’anni
fa lo stesso, il tempo di turbarsi
tornare in pace gli steli
se corre un motore la campagna,
si passano la voce dell’evento
ma non se ne curano, la sanno lunga
le acque falsamente ora limpide tra questi
oggi diritti regolari argini,
lo spazio
si copre di case popolari, di un altro
segregato squallore dentro le forme del vuoto.
… Pensare
cosa può essere – voi che fate
lamenti dal cuore delle città
sulle città senza cuore –
cosa può essere un uomo in un paese,
sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante
e dopo
dentro una polvere di archivi
nulla nessuno in nessun luogo mai.
da V. Sereni, Poesie e prose, Mondadori, 2020.
Nel ripercorrere le fasi della vita del suicida, sottolineate dai versi in corsivo nel componimento, si rende evidente il riferimento alle storie che danno forma a Spoon river di Masters. Tra gli elementi biografici del suicida si scorgono una possibile immagine di guerra (il carretto degli arsi da lanciafiamme), gli affetti (il cane) e le occupazioni quotidiane, fino alla dichiarazione della causa (o di una delle cause) del suicidio, che può essere la terzina in cui si parla di un’accusa di ammanco ricevuta: «NON NELLE CASSE DEL COMUNE / L’AMMANCO / ERA NEL SUO CUORE».
Esiste uno scontro tra la dimensione della città e quella del paese, in questo testo. Infatti, se si considera lo spunto in stile Masters, la dimensione a cui ci si riferisce è quella del paese, come si evince dai versi: «cosa può essere un uomo in un paese […]», preceduto dalla dimensione della città; «cosa /può essere – voi che fate /lamenti dal cuore delle città /sulle città senza cuore – », che connotano negativamente la dimensione della città, descritta nella sua alienazione e nei suoi cambiamenti urbanistici (come si può notare in alcuni passaggi che descrivono la costruzione di nuove aree, delle case popolari, con probabile riferimento a Milano).
Un elemento ricorrente nella poesia è quello dell’acqua, legata alla morte. Lo si può vedere all’inizio del componimento, prima della descrizione del luogo del funerale: «lenta deplorazione sull’ombra dell’addio /mi rimbrottò dall’argine»; e in seguito verso il finale del testo: «la sanno lunga / le acque falsamente ora limpide tra questi /oggi diritti regolari argini» in cui all’acqua si attribuisce un carico di conoscenza che invece sfugge all’io in questa particolare circostanza di morte.
Buona parte dell’intervista al suicida (il quale “compare” all’intero di una fiamma come in una visione) è riconducibile a riferimenti danteschi, con allusioni che arrivano alla citazione esplicita. Come ad esempio quando al suicida, mentre parla dei propri affetti, viene fatto pronunciare un endecasillabo dantesco con il verso «mia donna venne a me di Val di Pado».
Soffermiamoci ora su alcuni versi topici del componimento che vanno a comporre il finale del testo. Questi concorrono a creare una posizione lirica assoluta e affermativa, anche se in negativo. Si veda in particolare il già citato («sulle città senza cuore») in cui si descrive, da poeta cittadino quale era Sereni, la progressiva alienazione anche dei sentimenti nel contesto delle città del boom economico.
Si veda poi il finale della poesia, in cui lo stile di Spoon river (si veda il riferimento allo scriba) si lega a una massima di carattere lirico che costituisce una negazione assoluta. Vediamo l’intero frammento: «cosa può essere un uomo in un paese, /sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante /e dopo /dentro una polvere di archivi /nulla nessuno in nessun luogo mai».
L’elemento dello scriba che riporta la vicenda umana è utile a mostrare l’insignificanza di una vita umana, soprattutto una persa per suicidio, che non ha possibilità di rimanere nella memoria di nessuno, se non nella misura di una pratica burocratica, un foglio che rimane in un archivio. Questo emerge dall’ultimo verso, composto unicamente di negazioni che danno vita a un endecasillabo memorabile.
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