Rombo di Esther Kinsky – Premio Europeo 2023
Rombo è il titolo in lingua originale dell’ultimo romanzo della scrittrice e poetessa tedesca Esther Kinsky. Mettendosi nei panni di un lettore madrelingua questa parola così onomatopeica e lapidaria sembra quasi un punto fermo che inchioda la frase e manda a capo il paragrafo, per ricominciare da zero.
In seguito, tutti parleranno del rumore. Del rombo. Con cui è iniziato. Con cui tutto è cambiato, come dicono, in un colpo solo, anche se forse era piuttosto una spinta, come la conclusione sorda e smorzata di un movimento cominciato molto lontano. Quel rumore si è inscritto nella memoria di ciascuno, sotto nomi diversi. Sibilo, ronzio, brontolio, sussurro, tuono, strepito, fruscio, stridore, borbottio, fischio, rimbombo, boato.
Esther Kinsky, Rombo
Attraverso la memoria di sette ipotetici abitanti dell’estremo nord-est del Friuli, il romanzo ricostruisce i fatti e l’immaginario attorno al terremoto che il 6 maggio 1976 colpì la regione, provocando più di mille morti: le fotografie dei giornali mostrano città solcate da macerie, accartocciate come modellini. Ciascuno di loro racconta con un filtro soggettivo gli avvenimenti che hanno preceduto e seguito il tragico evento. In questo modo si crea un mosaico di tasselli giustapposti, che rivela quanto l’identità di un essere umano si possa definire attraverso un luogo e i suoi sconvolgimenti. Costruirsi un Io, o addirittura un Noi, in un luogo così impervio è una missione che si scontra con la fisicità della materia.
(Imparavano) a nominare un Noi in un paesaggio che non era bendisposto verso nessuno e si comportava secondo leggi che nessuno sarebbe mai stato in grado di capire. Slavine, colate di fango, frane, ogni singola frattura e smottamento accompagnato da un profondo sospiro tremante. Il sospiro della materia, senza malinconia.
Esther Kinsky, Rombo
La Kinsky conosce in prima persona i luoghi che racconta. Ha vissuto in alcune zone isolate dell’Italia e dell’Ungheria e sa che cosa significa far parte di una comunità rurale, con radici ben piantate in un mondo arcaico, con le sue tradizioni, le sue credenze, le sue leggende. E può parlarne con lo sguardo antropologico di una scrittrice, lo stesso che il geografo sino-americano Yi-Fu Tuan applica allo studio del luogo nella sua opera Topophilia: a study of Envitonmental Perception, Attitudes and Values. Qui Tuan spiega che ogni comunità promuove una visione del mondo simbolica, associando animali, colori, sostanze, punti cardinali secondo modalità che variano da cultura a cultura: ad esempio il drago azzurro in Cina rappresenta l’est e la stagione primaverile. Combinazioni queste che per uno straniero sono privi di significato, ma per il nativo sono tutt’altro che arbitrarie.
Così la gente delle zone colpite dal terremoto inizia a parlare dell’Orcolat, un mostro spaventoso che vive sotto il monte San Simeone, personificazione del terremoto stesso; o della Riba Faraonika, una donna-pesce che, disturbata da un granello di sabbia all’inizio dei tempi, divise la Pangea nei continenti, percuotendola con la sua coda “leggiadra e violenta in egual misura”. E ancora, ricordando i giorni precedenti al sisma, gli abitanti rivelano segni premonitori, dalla sparizione dei rondoni al guaito dei cani, fino al ricorrente avvistamento del serpente Carbone, un ambiguo messaggero dai colori neri.
Ma ogni tentativo di dare un senso logico e narrativo alla disgrazia è vano. La natura è più grande dell’uomo, che non la può controllare né attraverso il mito, né con le conoscenze fisiche e geografiche di cui tanto avidamente si appropria. In un altro contesto, Anna Maria Ortese offre parole di ghiaccio a cui possiamo attingere:
A mio modo di giudicare, quanti vanno cercando, in fortune e sfortune del pianeta e della vita che si svolge solo apparentemente regolare su questo, cause meccaniche, ragioni sistemate in un quadro, per così dire “tecnico”, errano di molto, e vi è, nelle loro teorie, non so quale difetto ottico. […] Per l’Universo, l’uomo, e la terra, non esistono neppure. Davanti all’Ultimo Confine, noi – viventi – non ci siamo.
Anna Maria Ortese, “Io credo in questo” in Le piccole persone
Anche gli animali – tanto cari alla Ortese – sono sconvolti dal rombo di quei giorni. Tra una testimonianza e l’altra si alternano le descrizioni di creature del luogo, a metà tra lo scientifico e il lirico. La vipera, il cuculo, il succiacapre, sono tutti muti osservatori dello stravolgimento della natura. Sono descrizioni queste che si collocano fuori dal tempo, spesso senza alcuna relazione con gli eventi del terremoto. Il che ricorda quella mucca che all’inizio di Storia di Tonle di Mario Rigoni Stern rivolge il suo sguardo animale tra le montagne violate non da un sisma, ma dalla Guerra Mondiale, e rimane ad osservarle al chiaro di luna come a voler ricordare un passato mitico che precede il mutamento.
Così zoologia, antropologia, storia, geografia e ricordo si fondono alla lirica nei quadri tracciati dalla Kinsky a rappresentare un luogo lontano nel suo inesorabile mutamento, ma anche nella sua ricostruzione, che avviene in due modi. Il primo è dato dalla forza volontà degli abitanti, che ricostruiscono le proprie vite insieme ai propri spazi: anche il duomo di Verzone torna al suo bianco equilibrio originale, ma conservando sulle pareti delle crepe come monito. Il secondo modo, invece, è proprio il ricordo, la memoria, il racconto, il “mito” – nel senso etimologico di parola pronunciata e tramandata – che si riverbera di persona in persona, divenendo infine inchiostro nel romanzo di Esther Kinsky.