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“Romanzo senza umani” di Paolo Di Paolo – Premio Strega 2024

Un articolo di Francesca Manzoni

“La pretesa di sindacare congruenza e oggettività della memoria altrui è di sicuro fastidiosa, se non ridicola. Altrettanto fastidiosa è però la sensazione che gli altri non si limitino a fraintenderci: ci ricordano male. Trattengono dettagli del nostro rapporto con loro che non possiamo controllare, si portano appresso – nel mondo – un’immagine imprecisa, parziale e tendenziosa di noi. Potevamo fare di meglio? lasciare un’impressione diversa, migliore? Può darsi.  E tuttavia, il punto, in molti casi, è sapere quale abbiamo lasciato: essere al corrente della versione dei fatti nostri che viene custodita, propagata, contrabbandata da terzi; e metterci nella condizione di emendarla, di correggerla. Non che io sia stato un buono storico di me stesso.”

Cosa succederebbe se, nel mezzo del cammin di nostra vita, una volta superata l’ingenuità adolescenziale e prese finalmente le misure dell’età adulta, ci chiedessimo: che cosa ricordano gli altri di noi ? Quale traccia abbiamo lasciato nell’esistenza di tutte quelle persone che hanno attraversato la nostra vita ?

Probabilmente arriveremmo a ripercorrere, passo dopo passo, tutta la gamma di ricordi in nostro possesso, enumerando ogni segno indelebile che, nella nostra mente, siamo convinti di aver tracciato nel contatto con l’altro. Così facendo, potremmo trarre le fila di una narrazione che, seppur soggettiva, si sviluppa e si rafforza in noi nell’illusione di oggettività: creiamo, a tutti gli effetti, una favola che ci vede protagonisti assoluti, partendo dal presupposto, talvolta erroneo, di aver lasciato un segno indelebile nelle vite di chi ci sta attorno. 

Ma se, arrivati a questo punto, cercassimo nell’altro un riscontro alla nostra favola, probabilmente la complessità di un reale, fatto di punti di vista differenti, talvolta antitetici, non farebbe altro che disilluderci, infrangendo definitivamente quello specchio capace di rendere un’immagine di noi univoca e insindacabile. È proprio su questo presupposto che Paolo Di Paolo ha deciso di costruire il suo ultimo romanzo, “Romanzo senza umani” (Feltrinelli, 2023), finalista al Premio Strega 2024. 

La “cavia” di questo bizzarro esperimento auto-analitico è Mauro Barbi, storico di professione, che funge da protagonista e voce narrante univoca: dopo aver studiato per anni la portanza storica dei cambiamenti climatici (concentrandosi in particolar modo sulla “piccola glaciazione” che tra cinquecento e seicento attraversò l’Europa) nel pieno di una “crisi di mezz’età”, sia professionale che personale, decide di analizzare i suoi ricordi con il medesimo rigore storico con cui ha gestito la sua vita lavorativa. L’uomo recupera così, nei meandri della sua posta elettronica, vecchie mail di amici e conoscenti, per dare ad esse, dopo moltissimi anni, una risposta: l’obiettivo vorrebbe, ipoteticamente, essere quello di ristabilire un contatto con le persone del suo passato, per ritrovare, nel loro sguardo e nella loro prospettiva, non tanto la sua stessa visione del mondo, quanto un’immagine che si configuri come compatibile con la narrazione che, fino a quel momento, si era creato nei confronti della sua stessa vita. 

La struttura del romanzo: un flusso di ricordi senza principio e senza fine 

Per raccontare il flusso armonico di pensieri che attraversano la “crisi” di Mauro Barbi, Paolo Di Paolo si serve di una molteplicità di espedienti narrativi, capaci di creare nel lettore l’impressione di assistere ad un vero e proprio flusso di ricordi, talvolta collegati e consequenziali, talvolta sconnessi. Lo sguardo del narratore, in questo caso, non solo si sovrappone perfettamente a quello del suo protagonista, creando la parvenza di un monologo interiore senza principio o fine, ma la scrittura sposa anche l’imprevedibilità di una mente alla scoperta di se stessa, che alterna episodi pseudo-autobiografici (disparati nello spazio e nel tempo) e rievocazioni storiche, con particolare attenzione alle vicende di principi e nobili rinascimentali, turbati nella psiche e nel corpo a causa della “piccola glaciazione”. Il romanzo, in questo senso, riesce a muoversi armonicamente attraverso quattro principali assi temporali indipendenti che, pur intervallandosi continuamente, mantengono quella parvenza di continuum narrativo che contraddistingue il romanzo.

Il risultato fallimentare del suo esperimento, la presa di conoscenza della profonda discrepanza tra i suoi ricordi e quelli di chi gli è stato accanto, diventano il motore di una nuova ricerca, un viaggio solitario presso il lago di Costanza, meta simbolo delle sue ricerche storiche. Muovendosi attraverso lo spazio e il tempo Mauro Barbi cerca così, nei luoghi della memoria, di trovare un senso dietro alle piccole e grandi sconfitte (ma anche vittorie) che hanno contraddistinto la sua vita, col fine di ridefinirsi come essere umano. Con lo sguardo analitico di uno storico, cerca in ciò che lo circonda una conferma tangibile di ciò che è stato in passato, col fine di riuscire, finalmente, a collocarsi in un presente sempre più indecifrabile. 

Il primo asse temporale è senza dubbio quello presente, che corrisponde al viaggio perpetuato dal protagonista in un qui e ora definito: esso, configurandosi come l’unico contatto che il lettore ha con la realtà vera e propria, è caratterizzato da una molteplicità di interferenze, messaggi, telefonate o mail che talvolta bloccano, talvolta sciolgono l’evocazione di altri assi temporali. In secondo luogo, è possibile individuare un passato prossimo, da categorizzare autonomamente proprio perché funzionale a mostrare le piccole e grandi cause che hanno veicolato l’ingresso al presente: in questa seconda categoria si racchiude infatti la narrazione di tutti quei tasselli che hanno veicolato la partenza, dall’atto stesso di rispondere alle vecchie mail, fino ad un piccolo incidente stradale che aveva coinvolto il protagonista qualche mese prima. Il terzo piano temporale è invece quello di un passato remoto, assimilabile alla memoria vera e propria: in esso abitano i ricordi veri e propri, a partire dall’infanzia, passando dall’adolescenza del protagonista, approdando fino alla difficile rievocazione della storia d’amore con Anna, conclusasi con una separazione difficile, dolorosa e mai del tutto superata. Un quarto e ultimo asse risulta essere quello storico, che riporta il narratore, insieme allo spettatore, ai tempi delle precarie condizioni di vita che, nel corso della piccola glaciazione, moltissimi principi, nobili, ma anche persone comuni, hanno dovuto affrontare.

Ogni piano temporale è costantemente messo in comunicazione nel corso del romanzo, attraverso sezioni profondamente legate tra di loro dal punto di vista stilistico: la frase finale di ogni capitolo diventa infatti il titolo del capitolo successivo, regalando al lettore la parvenza di un flusso continuo, che pur muovendosi continuamente su assi differenti, sia dal punto di vista temporale, sia da quello tematico, rimane collegato dalla presenza di un’inscindibile filo comune. Tale connessione tra le parti, non è altro che un reportage accurato di una mente e di un pensiero, quello del nostro protagonista, in continuo divenire, alla ricerca, nei diversi piani, di un indizio, di un appiglio che lo renda rapace di pensarsi all’interno dell’unico piano mai affrontato nel corso del romanzo: quello futuro. 

“È più semplice ridurre la prospettiva, sbrigarsela regestando i giorni buoni per le vendemmie, le date di arrivo sui mercati del primo olio, del primo grano, del primo mais, disegnando rotte migratorie verso zone di steppa rianimate da querce e betulle. 

È più semplice restare umani fra umani, gente come noi che a testa bassa avanza nell’uragano, attonita di fronte alla furia degli elementi. Preferire dettagli e spiegazioni a breve termine, testimonianze sulle piogge, sulle inondazioni, sulle nevi tenaci, offerte da qualcuno che spera che prega che semina l’orzo che ammazza il maiale”

A partire proprio dalla struttura del romanzo, Paolo Di Paolo, sembra voler riflettere sull’utilità di un indagine nei meandri della memoria, tanto privata quanto collettiva, portando alla luce una prima fondamentale riflessione: guardando alla contemporaneità, l’opera strizza l’occhio alle problematiche relative al cambiamento climatico, focalizzandosi in particolar modo su quell’impossibilità di ascoltare che contraddistingue una società incapace di utilizzare la storia (che non è altro che memoria collettiva, dunque oggettiva) come mezzo per costruire, o al limite salvaguardare, il futuro. Quando Mauro Barbi viene invitato in una trasmissione televisiva per parlare di raffreddamento globale e glaciazioni, nel momento esatto in cui sposta il focus del suo discorso sul passato, il suo ragionamento non solo viene interrotto, ma gli viene esplicitamente chiesto di analizzare solo ed esclusivamente il presente. Attraverso quella che potrebbe sembrare una “gag satirica” il lettore è spinto a riflettere sull’importanza di una corretta elaborazione di ogni piano temporale, che si parli di passato, di memoria o di ricordi. Estendendo la riflessione sia ad un piano individuale, sia a quello collettivo, “Romanzo senza umani” pone il lettore di fronte alla constatazione che solo attraverso una minuta analisi del passato è possibile comprendere le ragioni che si celano dietro al presente, e, di conseguenza, è possibile pensare, concretamente ad una risposta valida per il futuro. 

L’uomo come testimone inattendibile della propria vita 

“C’è sempre una sfasatura, un ritardo, un fuso orario differente. Una distrazione, un’impazienza. Un’ansia che porta altrove. Desideri diversi, o diverse unità di misura. 

All’offertorio della celebrazione intempestiva di una storia d’amore, portiamo sempre metà del racconto. L’altra metà non è una ratifica: integra, precisa, più spesso contraddice.”

Romanzo senza umani, tracciando quello che a tutti gli effetti è un viaggio di ri-formazione del protagonista, pone al centro dell’opera una riflessione fondamentale sul modo in cui l’essere umano percepisce se stesso in rapporto con il mondo: l’atto stesso di rievocare ricordi passati corrisponde alla creazione di una narrazione, dove l’Io, protagonista assoluto, è libero di deformare il reale, filtrandolo attraverso il suo sguardo univoco. Ne deriva la creazione di innumerevoli storie che, vivendo nell’illusione di un oggettività assoluta, tracciano le fila e creano i presupposti per la creazione dell’identità. Nel momento esatto in cui l’io si trova però a doversi interfacciare con altri punti di vista, che raccontano la medesima storia attraverso uno sguardo differente, ecco che cadono tutte le certezze: se l’uomo non è altro che un testimone inattendibile della sua stessa vita, se ogni azione che fino a quel momento era stata considerata giusta o errata viene messa in discussione, se crollano le basi su cui si fonda l’identità, cosa resta all’umano ? 

Paolo Di Paolo fonda la genesi del suo romanzo sul tentativo, perpetuato nella finzione narrativa da Mauro Barbi, di rispondere a questa domanda, mettendo in scena una molteplicità di ricordi, di micro narrazioni, che vengono sistematicamente decostruite nel momento esatto in cui entrano in contatto con identità diverse da quelle del protagonista. L’autore, fin dalle prime pagine rende esplicito questo concetto attraverso la vicenda metaforica di un incidente stradale, avvenuto, pochi mesi prima, nel centro di Roma, tra il protagonista e una giovane donna. Entrambi, raccontando a loro modo la vicenda, vivono nella perenne convinzione di aver ragione, demonizzando l’altro per le conseguenze del tamponamento. Entrambi, in quanto testimoni inattendibili della loro stessa vita, non permettono una ricostruzione oggettiva della realtà, perpetuando, senza fine, lo stallo. 

L’urto causato dal tamponamento tra i propri ricordi e lo sguardo altrui provoca, nella vita di Mauro Barbi, numerosi incidenti, che partendo dall’infanzia, ripercorrono l’adolescenza e arrivano fino all’età adulta: emergono così nuove preoccupazioni, destinate a destabilizzare profondamente la psiche e la coscienza del protagonista. Da un lato, vi è infatti la paura di non essere ricordato, di aver dato valore e importanza a ricordi che altre persone hanno rimosso con facilità: in questo senso, la necessità di ristabilire un contatto con le persone del proprio passato, non è altro che un tentativo disperato di porre rimedio alla propria solitudine, di rimarcare e riportare alla memoria dell’altro ricordi sfumati o addirittura rimossi. Dall’altro, fin dalle prime pagine del romanzo, si impone come centrale un urto che, più di ogni altro ricordo, logora il protagonista: quando Mauro Barbi affronta la fine della sua relazione con Anna, una ragazza che per moltissimo tempo ha rincorso, amato ma che ha dovuto lasciar andare, sa che la donna non l’ha dimenticato. Nonostante ciò è costretto a prendere coscienza di quanto la sua visione della storia non corrisponda ad una verità assoluta. 

Il fatto stesso che la realtà sia composta da punti di vista differenti, discordanti e spesso antitetici porta non solo ad una rivalutazione del tempo passato, ma anche ad una messa in discussione continua del proprio comportamento, una ricontestualizzazione di azioni fino a quel momento considerate giuste e coerenti. Ecco che, quando crollano le basi su cui è stata costruita una favola a malinconico fine, all’umano resta il rimpianto per tutto ciò che il suo sguardo non ha visto: dietro alla presa di coscienza della propria inattendibilità si cela un profondo senso di colpa, capace di emergere solo quando l’Io inizia a scrutarsi con occhi diversi dai suoi.  

Vivere nel presente: superare il peso dei ricordi, tra memoria e rimpianto 

L’esperimento auto-analitico perpetuato da Mauro Barbi ha però un’importante controindicazione: l’atto stesso di immergersi, in profondità, all’interno di quel mare ghiacciato che sono i ricordi, porta con se il rischio di rimanere intrappolati in essi, senza riuscire a riemergere. Il viaggio introspettivo del protagonista è, a tutti gli effetti, una piccola glaciazione, un tentativo di fermare il presente per ritornare sul proprio passato, col fine di analizzarlo analiticamente, proprio come farebbe uno storico. Nel fare ciò l’umano si trova, inevitabilmente a ridefinire se stesso, trovandosi al cospetto non solo della sua inattendibilità, ma anche della sua imperfezione, che, nel corso della sua vita l’ha portato ad essere non solo vittima, ma anche carnefice del dolore altrui. Il rimpianto, in questo senso, può diventare il corrispettivo metereologico del ghiaccio, che fossilizza l’Io nel suo passato senza permettergli di riemergere con le risposte trovate fino a quel momento. 

“Non volevo scoraggiarti, è che mi metto nei tuoi panni: piombi lì, nello stile di chi risponde alle email con quindici anni di ritardo…”

“È passato molto meno tempo.”

“Non ha importanza quanto, ma ciò che ha cambiato. Ti vedo che piombi lì… E poi? Ciao Anna, sono venuto a scusarmi per il fallimento della nostra vita potenziale.”

“Sono venuto qui per sapere come stai. Non basta?”

“È una domanda che si può fare al telefono. E invece sai perché per te è così importante, questo sopralluogo?”

“Sentiamo.”

“Perché è come dare un’occhiata alla tua vita da fuori ma senza di te. Nel giardinetto condominiale su cui ti affaccerai da comparsa, avresti potuto essere il protagonista.”

Arrivato al termine del suo viaggio, reale e metaforico, vediamo Barbi dirigersi verso la casa di Anna, in un ultimo capitolo, nominato non a caso “il segno del disgelo / lungo Casinostrasse”: qui, a differenza di ciò che ci si aspetta, l’uomo non incontra la donna amata, ma sua figlia Sofia, che il protagonista ha cresciuto per molti anni. Il romanzo si chiude con un dialogo tra i due, un ultimo confronto tra i reciprochi ricordi, la ricerca di assonanze e dissonanze e la presa di coscienza di momenti felici che, con sorpresa, nessuno dei due ha dimenticato. Per quanto sarebbe bello pensare ad una macchina del tempo in grado di far rivivere momenti felici irrimediabilmente passati, nella realtà bisogna imparare, dopo aver interiorizzato punti di vista differenti, non solo a cristallizzare i ricordi felici, ma anche a perdonarsi per tutte le volte in cui si è stati carnefici dell’infelicità altrui. Il segno del disgelo avviene dunque quando si abbandona rimpianto per tutto ciò che si sarebbe voluti essere ma non si è stati, e si torna a vivere nel presente. 


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Francesca Manzoni

Redattrice di Cinema e Letteratura