Ripartire da Whitman?
Articolo di Luca Gritti
Alle radici della poesia moderna
In un bellissimo piccolo saggio di qualche anno fa, intitolato significativamente Poesia come esperienza. Una formazione nei versi1, Filippo La Porta tratteggiava, in tanti brevi ma densissimi medaglioni, i profili di molti dei più grandi poeti della nostra tradizione letteraria, italiana ed europea. Ad una sezione sui poeti italiani- che partiva da Dante- se ne aggiungeva una su quelli stranieri, che invece iniziava con i due ritratti, bellissimi e volutamente contrapposti, di Baudelaire e Walt Whitman. Crediamo che non fosse una scelta casuale. Anche se La Porta non ha la pretesa di formulare una teoria, o di irrigidire la storia della poesia europea in schematismi troppo netti, pare che in questi due poeti egli rintracci i due “tronconi” su cui si è modellata la poesia nei secoli a venire, come se ogni poeta successivo avesse in qualche maniera proseguito su una delle due strade- quella di Baudelaire o quella di Whitman- di volta in volta riconoscendo, dissimulando o enfatizzando il debito nei confronti di uno dei due padri putativi. In effetti, è indubbio che con questi due autori nasca, per certi versi, la poesia moderna, ma è altrettanto vero che non potrebbero esserci due modi più diversi di intendere ed incarnare il complesso rapporto tra poesia e modernità. Da una parte in Baudelaire abbiamo quella del poeta come condizione maledetta, sullo sfondo della grande città moderna che lo sconfessa e lo relega ai margini, alle periferie; dall’altra in Whitman la poesia è invece celebrazione della vita e riconciliazione con la natura, che conserva ancora qualcosa di incontaminato, incorrotto. Da una parte abbiamo la poesia come simbolismo, linguaggio a volte criptico, allusività; dall’altra la poesia si presenta come un linguaggio chiaro, primigenio, originario, che più che per la sua complessità commuove proprio per la sua trasparenza, la sua limpidezza bambina. Da una parte abbiamo uno scontro frontale tra poesia e modernità; dall’altra la pretesa, forse ingenua, di una poesia che possa segnare la strada di una modernità diversa…
Foglie d’erba: un libro monumento
Non si vuole esagerare la lettura di La Porta forzandola in una contrapposizione troppo polarizzata – lo stesso autore per esempio si dice convinto che l’etichetta di simbolista sia stretta per Baudelaire, e che i richiami di questa scuola a lui come padre nobile siano per lo più abusivi-, ma la sua resta una provocazione interessante, specialmente riprendendo in mano una bella edizione, uscita trent’anni fa ma ripubblicata di recente, di Foglie d’erba2, l’opera capitale di Whitman, che il poeta aggiornò incessantemente tutta la vita e che ebbe la sua redazione definitiva solo postuma. Si tratta di un’edizione stringata di un’opera che invece sarebbe monumentale, una raccolta essenziale dei componimenti più belli e fortunati, selezionati e tradotti dal curatore Giuseppe Conte, poeta a sua volta e lettore fraterno e simpatetico di Whitman, ed editata da Mondadori. Se Foglie d’erba è, appunto, un monumento, un’opera-vita, questa edizione stringata ne asporta lo scheletro, la parte essenziale, restituendo un’esperienza di viaggio nel sentire di Whitman accelerata e condensata ma non per questo meno intensa. Il testo è anche impreziosito dai brevi saggi di Harold Bloom e Henry David Thoreau- amico e fratello nello spirito di Whitman, profeta del libertarismo americano e della disobbedienza civile- e dalle poesie in lingua originale a fronte di ogni traduzione.
L’onere di un iniziatore
Whitman possiede certamente dei riferimenti, che affondano fino alla Grecia antica, ma la sua poesia segna comunque una discontinuità netta con tutta l’immediata tradizione che l’ha preceduto, specialmente quella europea. In questo senso, si trova in una posizione privilegiata. È un giornalista, in fondo un parvenu degli ambienti culturali, quindi abbastanza colto da conoscere la classicità ma abbastanza lontano dall’accademia da potersene appropriare in modo personalissimo, senza curarsi di sembrare ridicolo o ingenuo. È americano, quindi vicino ad una terra che, in quel momento storico, sentiva di avere un legame stretto con qualcosa di profondo, ancestrale, mitico, naturale, qualcosa che avrebbe potuto riportare l’uomo a vivere ed amare in modo più spontaneo e libero, e ad affrancarsi finalmente dalla rigidità e la pesantezza della cultura europea, piena di fariseismi ed inibizioni. Lui stesso sembra consapevole del suo ruolo di un padre nobile di una tradizione nascente, di iniziatore. In molti hanno voluto vedere in questa consapevolezza una forma di presunzione, ma vista da un’altra prospettiva essa pare piuttosto una candida umiltà. È come se Whitman dicesse: io sto iniziando, ma chi verrà dopo di me vivrà in un’epoca in cui questo sentire che io intravedo sarà più maturo, più compiuto. Così schermisce le sue poesie, che sarebbero solo i primi timidi vagiti di qualcosa che ancora non si può vivere nella sua pienezza. Ogni poesia di Whitman in questo senso è carica di una grandissima speranza nel futuro, nelle nuove generazioni, ed è pervasa da un senso di responsabilità nei loro confronti. È come se fosse una poesia che consegna un testimone, che lancia un appello.
Poeti futuri! Oratori, cantori, musicisti a venire!
L’oggi non può giustificarmi e chiarire cosa sono,
ma voi, una nuova nidiata, nativa, atletica, continentale,
più grande di quelle conosciute prima,
sorgete! Poiché voi dovete giustificarmi
Per me io non scrivo che una o due parole indicative per il futuro,
non faccio che avanzare per un momento soltanto per girarmi
e affrettarmi nell’oscurità.
Sono un uomo che vagabonda senza mai davvero
fermarsi, getta uno sguardo casuale su di voi e poi
distoglie il suo volto,
lasciando a voi di provarlo, di definirlo, attendendosi le cose più importanti da voi.
Una poesia verso la vita
Ma che cos’è questa scoperta, questa nuova cultura, che deve nascere dalla nuova poesia tenuta a battesimo da Whitman? Si tratta di una poesia che sia una lingua che permette di indagare il viaggio verso il centro di se stessi, che permette di dire ciò che resta quando tutto ciò che oscura la verità dentro di noi- paure, inibizioni, nevrosi, scelte abitudinarie, sublimazioni- è stato levato. Che cosa resta, tolto il senso di aspettativa degli altri, tolto il senso di colpa, tolta l’ansia sociale? Niente fuorché la pura, semplice, maestosa meraviglia di esserci, di essere una cosa che esiste tra le cose del mondo. La parola allora si scosta di dosso la polvere ed è soltanto una celebrazione della vita, è breve, densa ed elastica come lo è solo quella delle poesie, dei versi liberi. Molta della cultura europea coeva è qualcosa da cui Whitman si vuole emancipare, perché si è distaccata da questo senso di meraviglia per le cose, ed anzi spesso è sorta come una fuga da tutto ciò che di semplice, profondo ed intimo c’è nella vita- la natura, la spontaneità, la sessualità. È troppo celebrale, allontana l’uomo dal suo centro. La poesia di Whitman non ha la pesantezza del romanzo, ma la levità di ciò che sta in mezzo alla vita, che non si contrappone ad essa.
Io celebro me stesso, e canto me stesso,
e ciò che io presumo, tu lo presumerai,
perché ogni atomo che mi appartiene, appartiene anche a te. (…).
Credi e scuole lasciati in sospeso,
mi ritiro, ne ho abbastanza di quello che sono, ma non li dimentico,
e accolgo il bene e il male, lascio che parli seguendo il caso,
la natura senza impedimenti con originaria energia.
La poesia come conversione
La rovina dell’uomo, ciò che non lo fa godere dello spettacolo del mondo, è la sua pretesa di governare la vita, le cose, le persone- di volerle possedere e controllare. In definitiva, la sua pretesa di sostituirsi a Dio. Ma quando l’uomo accetta di ridimensionarsi, quando accetta di mettersi sullo stesso piano di un suo fratello, di un albero o di una foglia, ecco che scatta un meccanismo di redenzione, potremmo dire quasi di conversione, nel semplice senso etimologico di cambiare prospettiva sulle cose. Se l’uomo pretende di possedere il mondo, la sua vita sarà segnata da ansia e frustrazione: tutto ciò che avrà non sarà mai abbastanza, e vivrà sospeso tra titanismo e vittimismo. Ma se accetta di essere una cosa tra le cose del mondo, se accetterà di abbassarsi a livello di un filo d’erba, potrà scoprire che tutto l’universo in fondo esiste per quel filo d’erba, e quindi anche per lui; che dentro le cose minuscole sta una grandezza cosmica, regale. Arrivato a quel punto, sembra chiaro che non c’è bisogno di conquistare il mondo, perché ogni cosa del mondo è sua già da sempre, dal momento in cui è nato. Tutto è dono per lui e la gratitudine diventa la sua postura esistenziale. La poesia, per Whitman, è usare la parola in modo delicato, lieve- un modo per contemplare le cose, ringraziare per loro, senza pretendere di prevaricarle o possederle. Un modo per raggiungere, attraverso il sentire, questo particolare stato di consapevolezza, in cui ogni cosa è con noi e per noi e noi siamo in ogni cosa. In cui siamo ad un solo passo da Dio, perché abbiamo saputo riconoscere Dio in un granello di polvere.
Credo che una foglia d’erba non sia meno di un giorno di lavoro delle stelle,
e ugualmente è perfetta la formica, e un grano di sabbia,
e l’uovo dello scricciolo,
e una raganella è un capolavoro dei più alti,
e il rovo rampicante potrebbe adornare i salotti del cielo,
e la più stretta linea della mia mano se la può ridere di ogni meccanismo,
e la vacca che rumina a testa bassa supera ogni statua,
e un topo è un miracolo sufficiente a far vacillare miriadi di miscredenti.
Una poesia che riconcilia con il proprio corpo
Convertirsi, cambiare prospettiva sulle cose, per Whitman significa anche fare pace con il nostro corpo, che segna la nostra finitudine, la nostra dimensione creaturale. In fondo, pensarci come pure intelligenze astratte, come anime disincarnate, è una forma di presunzione, un modo per vagheggiare l’amore fuggendo l’unico luogo in cui questo diventa possibile, cioè, appunto, il nostro corpo. Whitman con la sua poesia punta a rimuovere dall’uomo ogni complesso relativo al proprio corpo- ogni senso di colpa, ogni senso di inadeguatezza, ogni rifiuto di guardarsi. Se l’anima esiste, il corpo è il solo luogo in cui l’anima può accadere. Per vivere, siamo chiamati ad incarnarci.
Canto il corpo elettrico,
le schiere di quelli che amo e mi abbracciano e io li abbraccio,
non mi lasceranno sinché non andrò con loro, non risponderò loro,
e li purificherò, li caricherò in pieno con il carico dell’anima.
È mai stato chiesto se quelli che corrompono i loro corpi nascondono se stessi?
E se quanti contaminano i viventi sono malvagi come quelli che contaminano i morti?
E se il corpo non agisce pienamente come fa l’anima?
E se il corpo non fosse l’anima, l’anima cosa sarebbe?
La poesia come ritorno all’essenzialità, all’innocenza
Tutto in Whitman aspira a questo stato di riconciliazione, di perdono di se stessi, di ritrovata grazia, di innocenza preadamitica. È come se per lui l’unica cosa che impedisce al mondo di essere ancora un giardino dell’Eden sia dentro il cuore dell’uomo, nella sua paura, che lo fa guardare in modo viziato alle cose e ai rapporti, e quindi nel suo modo di vivere. È come se dicesse: il paradiso sarebbe alla portata, non è mai stato perduto, se soltanto l’uomo se ne rendesse conto, se soltanto smettesse di averne paura.
Come Adamo presto al mattino,
che cammina uscito dalla capanna di fronde rinfrancato dal sonno,
guardami mentre passo, odi la mia voce, avvicinami,
toccami, accosta la palma della tua mano al mio corpo mentre passo,
non avere paura del mio corpo.
Ci sono dei momenti luminosi nella vita di tutti, che la poesia di Whitman spesso riesce a suscitare, in cui sembra chiaro che perfino la morte è ingombrante e potente solo per la paura che ci suscita, solo per il modo in cui la sua ombra invadente riesce ad inquinare la nostra vita, a limitarla. Tolta questa paura, la vita si ossigena, ci inebria, e della morte resta solo il fatto puro e semplice del morire, di cui, in fondo, non sappiamo nulla. Ma una poesia che sa restituire lo stupore bambino verso le cose è anche una poesia che su questa meraviglia sa fondare la sua speranza, sa trovare una ragione per fidarsi robusta, consistente, adulta. Concreta come le foglie d’erba.
Un bambino disse Che cos’è l’erba? portandomene a piene mani;
come potevo rispondere al bambino? Io non so che cosa sia più di quanto lo sappia lui.
Congetturo che potrebbe essere la bandiera delle mie inclinazioni, tessuta di lana verde-speranza.
O congetturo che sia il fazzoletto del Signore,
un dono profumato e un souvenir lasciato appositamente cadere,
che porta il nome del proprietario forse in qualche angolo,
che poi possiamo vedere e notare, e dire Di chi sarà?
O congetturo che l’erba sia essa stessa un bambino, un neonato del mondo vegetale.
O congetturo che sia un uniforme geroglifico,
che significa, spuntando eguale nelle terre aperte e in quelle chiuse,
crescendo tra i popoli neri e quelli bianchi,
Canachi, Tuckahoe, uomini del Congresso e Neri, do a tutti loro lo stesso, accolgo tutti loro lo stesso.
E ora mi sembra la bella chioma mai tagliata delle sepolture.
Teneramente ti tratterò, erba tutta riccioli,
può darsi che tu traspiri dai petti dei giovani,
può darsi che se li avessi conosciuti li avrei amati,
può darsi che tu venga dai vecchi, o dai piccoli anzitempo,
sottratti al grembo della madre,
e ora eccoti, tu sei un grembo materno.
Questa erba è molto scura per venire dai capi canuti delle antiche madri,
più scura delle erbe incolori dei vecchi,
scura per venire dai palati di un rosa debole.
O mi accorgo alla fine di così tante lingue che mormorano,
e mi accorgo che non vengono dai palati per niente.
Potessi tradurre i loro cenni sui giovani morti, sulle giovani morte,
e i loro cenni sui vecchi e sulle madri, e sui piccoli sottratti anzitempo al loro grembo.
Che cosa pensate che siano divenuti i giovani e i vecchi?
E che cosa pensate che siano divenuti le donne e i piccoli?
Sono vivi e stanno bene, chissà dove,
il più minuto germoglio dimostra che davvero non c’è nessuna morte,
e che se anche ci fosse porterebbe dritta alla vita, e non l’aspetta alla fine per arrestarla,
ed è cessata il momento che la vita è apparsa.
Tutto continua e si estende, niente si annulla,
e morire è qualcosa di diverso da quello che si suppone,
qualcosa di più fortunato.
Forse vale la pena rileggere Whitman. Non tanto per provare a scrivere come lui, quanto piuttosto per provare a vivere come lui.
- Filippo La Porta, Poesia come esperienza. Una formazione nei versi, Fazi Editore, 2013 https://www.ibs.it/poesia-come-esperienza-formazione-nei-libro-filippo-la-porta/e/9788864112671 ↩︎
- Walt Whitman, Foglie d’erba, Mondadori, 2016 https://www.ibs.it/foglie-d-erba-testo-inglese-libro-walt-whitman/e/9788804671411?lgw_code=1122-B9788804671411&gad_source=1&gclid=Cj0KCQjw1aOpBhCOARIsACXYv-e0wu_zI1upei1_t3UCsTHpKmRG_KC1JTbjk0PPnc_LiPT9lkmzzv8aAtDhEALw_wcB ↩︎
Luca Gritti
Laureato in filosofia, appassionato di letteratura, in cerca di classici contemporanei. Vivo e lavoro a Bergamo.