Ma alla fine, questa “cultura” a cosa serve?
Questo articolo nasce come una sorta di monologo interiore, un tentativo di dare una risposta a una serie di dubbi esistenziali che mi stanno disturbando da qualche tempo. Nella vita, tendenzialmente, mi occupo di cultura e credo che sia quello che voglia fare in futuro: studio filosofia all’università, tengo un piccolo podcast e scrivo pensieri, riflessioni e approfondimenti filosofici assolutamente non richiesti, mentre in privato coltivo l’interesse per il cinema, la letteratura e ambiti affini. In questo insieme di attività in cui si articola la mia vita ho riposto il mio equilibrio e le mie sicurezze, tirando fuori i classici slogan da pseudointellettuale per difendermi dalle critiche sull’utilità del mio agire. Recentemente però, queste sicurezze hanno iniziato a scricchiolare, fin quando pure io mi sono chiesto: “al di là di ogni frase fatta, che senso ha quello che sto facendo?”. Mentre nel mondo incombono realtà spaventose, come l’emergenza climatica, la sovrappopolazione del pianeta, il susseguirsi di varie crisi economiche e sanitarie, a cosa serve stare nella mia cameretta a leggere Foucault, Platone e Murakami? E in generale, alla fine, questa “cultura”, di cui dico con fierezza di occuparmi, a cosa serve nel concreto? Sono domande che ho sempre sentito rivolgermi, ma che forse, prima di ora, non avevo mai preso seriamente, per cui forse è giunto il momento di provare a dare una risposta, anche per fare sonni più tranquilli.
Quale cultura?
Per provare a rispondere a questi dubbi, forse banali, bisogna per prima cosa circoscrivere l’ambito a cui ci si rivolge, ovvero provare a definire che cosa si intende quando si parla di “cultura”. Ciò è tutt’altro che immediato, considerando che questo termine viene usato in generale per comprendere pressoché ogni tipo di sapere. Vengono definiti “di cultura” tanto i letterati, quanto i fisici, quanto gli economisti e i chirurghi, facendo combaciare l’acquisizione di una cultura con qualsiasi risultato ottenuto tramite lo “studio”. Non credo di avere nulla in contrario nei confronti di questo uso ampio del termine, ma credo sia evidente che le domande che animano questa riflessione non siano sensatamente applicabili almeno agli ultimi due esempi citati, poiché chiedere a un aspirante medico, magari con tono incalzante, qual è il senso di ciò che sta studiando risulterebbe quanto meno bizzarro. Con il caso della fisica il discorso si complica leggermente, poiché ci sono ambiti di ricerca specifici della disciplina che potrebbero risultare privi di un’utilità diretta, come ad esempio il campo delle esplorazioni spaziali, che non a caso animano un dibattito piuttosto nutrito sul loro rapporto costi-benefici. Ciò che però è certo è che il target prediletto a cui gli interrogativi posti mirano è rappresentato dall’insieme delle discipline umanistiche, ovvero tradizionalmente la filosofia, la letteratura, la storia, la storia dell’arte, le arti performative e visive e tutte le discipline affini.
STEM vs Humanities
Mentre le cosiddette discipline “STEM”, acronimo di Science, Technology, Engineering and Mathematics, vengono, comprensibilmente, sempre più sostenute e promosse per via della loro capacità di fornire strumenti pratici per la risoluzione dei problemi della contemporaneità e delle possibilità che offrono di rispondere alle richieste del mondo del lavoro, ad animare il banco degli imputati ritroviamo quelle forme di sapere che non vengono rappresentate in quella sigla. Non è difficile capire le motivazioni di tale j’accuse: di fatto le discipline umanistiche, nel mondo anglosassone definite Humanities, non offrono immediata utilità pratica, ma talvolta sembrano rappresentare solo una sorta di fattore “ornamentale” della persona, un insieme di conoscenze accessorie ampiamente relegabili, nella retorica comune, nella sfera degli hobby. Si può vivere benissimo senza conoscere nulla di ciò che ha scritto Locke, così come non pare necessario che ci si adoperi affinché qualcuno nel mondo ne conservi tassativamente un sapere pronto all’uso. È a questo tipo di critica e di accezione che chi di questo tipo di cultura si occupa è chiamato a rispondere; per quanto la mia limitata esperienza mi ha permesso di leggere e osservare, sono due le repliche classiche che a oggi vengono date da chi viene chiamato in causa, due risposte che rappresentano gli slogan di cui parlavo in apertura e di cui anche io mi sono ampiamente servito nel corso del tempo, ma che ora, dopo una riflessione più accorta, reputo quantomeno insoddisfacenti.
Al lavoro
Negli ultimi quindici anni si è parlato spesso di un nuovo tipo di profilo professionale ricercato in contesto aziendale, soprattutto dalle Big-tech internazionali: professionisti di formazione umanistica da affiancare a vario titolo ai processi produttivi e decisionali. Il principio dietro a questa ricerca sarebbe la necessità di avere all’interno dell’azienda persone in grado di pensare in modo creativo e laterale, arrivando a formulare non tanto meccanismi di massimizzazione dei fatturati o di efficientamento della produzione, ma domande stimolanti e mirate per catalizzare le decisioni in direzioni innovative. Sviluppatasi, stranamente, nel mondo anglosassone, tale caccia al filosofo ha attratto da qualche anno anche l’attenzione italiana[1], fornendo grandi speranze a tutti gli studenti che, come il sottoscritto, contano di lavorare dopo la laurea. Se non a questi livelli, professionisti di formazione umanistica vengono spesso assunti all’interno degli uffici di management delle risorse umane, andando ulteriormente ad ampliare la rosa dei lavori mainstream disponibili. Questi due esempi dimostrerebbero che lo stereotipo delle humanities come forme di sapere avulso dal mondo reale e lontano dal mercato del lavoro è semplicemente falso, poiché l’avanzamento tecnologico e lo sviluppo dei contesti aziendali stanno aprendo moltissime porte a chi ha deciso di intraprendere la strada della formazione umanistica. E se ciò non bastasse, ci sono molti altri settori in cui tali figure si inseriscono e si possono inserire, primo tra tutti l’insegnamento, tradizionale grande bacino di offerte per un giovane laureato in lettere, filosofia e storia, per poi passare all’editoria, agli organismi culturali e alla pubblica amministrazione. Tutto ciò è verissimo, ma basta confrontarsi con i dati relativi all’occupazione dei neolaureati forniti dalle università per notare che la situazione non è così rosea. Prendendo ad esempio i report relativi al corso di laurea triennale in Filosofia e a quello magistrale di Scienze Filosofiche dell’Università degli Studi di Milano[2] si può notare come tutti gli indicatori relativi tanto alla facilità con cui si trova lavoro quanto ai salari percepiti una volta che si ottiene un posto sono decisamente sotto la media dell’ateneo[3]; tuttavia il dato più significativo è quello relativo all’utilizzo delle competenze acquisite durante il percorso di studi all’interno della propria occupazione: due laureati in filosofia su tre non utilizzano significativamente ciò che hanno studiato una volta che iniziano a lavorare. Ciò mina gravemente il discorso relativo all’applicabilità delle humanities al contesto lavorativo e rende tutte le retoriche sulle infinite possibilità dei laureati in discipline umanistiche quasi parodistiche.
A niente
In totale antitesi con il discorso appena affrontato si trova forse la risposta più classica sugli interrogativi in questione: le discipline umanistiche non servono a nulla e tentare di trovare loro uno scopo pratico è una forma di violenza. Studiare filosofia, letteratura, storia e beni culturali non deve essere giustificato da discorsi pragmatici e relativi all’applicabilità, poiché si tratta di attività che trovano il loro scopo al loro interno e non all’esterno. Il sapere umanistico non necessita di alcuna giustificazione, poiché la bellezza che contiene basta da sola a rispondere alle domande relative ai suoi perché. Non è difficile capire perché questa risposta è forse la più usata e ricorrente negli ambienti in questione: perché è semplicemente vera e sacrosanta. Cercare di giustificare la filosofia, esempio da me prediletto per pure ragioni biografiche, o la letteratura con gli stessi mezzi con cui lo si fa per le altre discipline non ha alcun senso e rischia di snaturare fortemente le forme di cultura in questione. È proprio nell’inutilità strutturale di queste realtà che risiede il loro valore, la loro bellezza e dignità intrinseca e indipendente da ogni dinamica di profitto e di pragmaticità, fatto non solo da constatare, ma anche da preservare. Mi dichiaro un fiero sostenitore di questa posizione e non ho intenzione di ritrattarla in queste righe, ma recenti riflessioni mi hanno fatto capire che non sempre questa rivendicazione è sufficiente per porre fine alla discussione. Limitandosi a questo livello, la cultura di cui stiamo parlando rischia di essere intesa da buona parte della popolazione non “addetta ai lavori” solo come un orpello, come un ornamento che però passa in secondo piano rispetto a ciò che risulta essere davvero importante, come la medicina, l’economia o l’ingegneria gestionale (qualsiasi cosa essa sia). Inoltre, per le sfide che la contemporaneità ci chiama a fronteggiare, prima tra tutte l’emergenza climatica e ambientale, è ormai chiaro che ognuno debba fare la sua parte in qualche modo, soprattutto in contesto lavorativo, dall’ortolano che deve prediligere merce di stagione e di provenienza locale, all’ingegnere energetico impiegato nell’implementare sistemi di massimizzazione dei rendimenti delle fonti rinnovabili. In questa impellente necessità di azione, non si capisce bene come possano contribuire gli umanisti, se non attraverso azioni perfettamente perseguibili da altre figure, magari più tecniche, come la sensibilizzazione e la divulgazione.
Alt: Check point
Prima di andare avanti credo sia necessario fare una precisazione: sono abbastanza sicuro che l’ultima critica avanzata possa suonare pleonastica a una consistente fetta dei miei innumerevoli e appassionati lettori. Ribadendo quanto detto poche righe sopra, la cultura umanistica non deve avere giustificazioni e non si capisce perché proprio i filosofi e i letterati debbano sacrificare la loro passione davanti alle richieste della contemporaneità. Il punto che voglio raggiungere, tuttavia, è sgombrare il campo da qualsiasi possibilità di obiezione e mettere al sicuro il sapere umanistico dalle posizioni che tendono a relegarlo ad un possibile hobby tra i tanti, facendone perdere ampiamente il valore. Perché si parla spesso dell’importanza di diffondere la cultura, se alla fine, entrando meglio nel merito della questione, questa è solo come un bel vaso di fiori su una scrivania piena di documenti importanti. Perché non ha ragione lo studente medio di quarta superiore che, sbuffando e alzando gli occhi al cielo, questiona sull’utilità dello studiare l’”Orlando Furioso”?
Per sentirsi stupidi
Una risposta a cui recentemente sono giunto e che trovo, se non soddisfacente, almeno stimolante è che l’enorme e salvifica utilità intrinseca a tutto ciò che racchiudiamo nell’espressione “discipline umanistiche” risiede nella sua capacità di farci sentire stupidi, piccoli e ignoranti. E ciò non è dovuto a qualche potere distorsivo, come con quegli specchi che si ritrovano nei parchi a tema, ma da un potere rivelatorio: davanti a buona parte dei problemi che siamo chiamati a fronteggiare, siamo sostanzialmente e inevitabilmente impreparati e ignoranti. È qui che interviene la filosofia, la letteratura, la storia e l’arte, non nel fornirci le risposte che cerchiamo, ma a mostrarci che è normale e inevitabile che sia così. Se le discipline STEM ci permettono di arrivare a risultati tangibili e si pongono domande per cercare risposte, per le quali possiamo oggi prendere un aereo, curare malattie letali, costruire ponti e sparare sonde nello spazio, davanti alle domande relative all’essere umano e al suo posto nel mondo non possono che fermarsi. Questo non significa che sia sbagliato o inutile porsi tali interrogativi, anche perché, se pure lo fosse, è inevitabile che prima o poi emergano, ma che serve un’altra forma di indagine, pronta a non dare risposte, se non inevitabilmente provvisorie e molteplici. È qui che risiede il potenziale delle humanities, nel non darci punti fermi su cui costruire certezze, ma orizzonti di possibilità alternativi, in cui sta al singolo orientarsi seguendo quel profondo sentimento di stupidità e stordimento che, lungi dall’essere paralizzante, permette di continuare a interrogarsi e a ricercare. È questo il senso profondo di quella formula ricorrente negli obiettivi posti dai corsi universitari quale “sviluppo del senso critico”, cioè il perseguimento del disorientamento causato dal confronto con posizioni contrastanti e alternative, oppure con realtà di difficile comprensione, come può essere ad esempio l’arte contemporanea. Le discipline umanistiche ci sanno offrire universi in collisione e contrasto tra loro, in cui sta al singolo decidere che strada seguire. E questa capacità di orientamento, a mio parere, vale di più di qualsiasi altra possibile giustificazione di tipo eminentemente utilitaristico.
Per vivere
Lo sviluppo del senso critico di cui si è parlato ora è a oggi una facoltà necessaria per vivere nella realtà interconnessa e iperattiva che ci circonda. Mentre siamo bombardati da qualsiasi tipo di informazione e notizia, di opinione e interpretazione sulla realtà da parte di personalità di rilievo dalle dubbie competenze, senza una solida capacità di discernimento e di critica si corre un rischio enorme che si articola in due direzioni: da una parte si è esposti alle opinioni che hanno l’unico merito di essere più frequenti o pubblicizzate, dall’altra si rischia la resa incondizionata davanti al bombardamento mediatico con un rifiuto categorico di prendere posizione. Le discipline umanistiche trovano in questo un’utilità quasi miracolosa, fornendo gli strumenti per decostruire il flusso delle informazioni e rapportarlo alle nostre categorie di pensiero. Detto in italiano, studiare letteratura, filosofia, storia, permette di confrontarsi con posizioni passate e consolidate che permettono di capire cosa sta o non sta succedendo intorno a noi, così da poter anche scegliere da che parte stare e formulare una posizione coerente. Per cui se è vero che si può sopravvivere benissimo senza nessuna nozione di storia, per esempio, per vivere con coscienza nel mondo in continuo e velocissimo mutamento in cui siamo, senza essere sepolti dal corso degli eventi, è fondamentale confrontarsi anche con quel tipo di sapere non STEM.
Per cambiare le cose
Questa capacità, sviluppabile tramite le humanities, sta alla base anche del potenziale che queste hanno di cambiare il corso degli eventi. Davanti alle emergenze del mondo contemporaneo, come la già citata crisi climatica, il senso critico, l’allenamento al confronto e all’approfondimento di tesi e argomentazioni distinte giocano un ruolo di primaria importanza nell’indirizzare il nostro agire. Tramite lo studio e l’incontro con narrazioni particolari è possibile decidere a chi prestare ascolto quando si parla di problemi precisi e particolari che necessitano una qualche forma di azione. Capire perché alcune posizioni distorte che negano il surriscaldamento globale, nutrite di dati scientifici mal interpretati o isolati, sono logicamente fallaci, prima di avere a che fare con il sapere scientifico, sempre sia lodato, chiama in causa il senso critico, la capacità di comprensione linguistica e l’elasticità mentale per poter negare e confutare una posizione precisa. All’atto pratico questo insieme di passaggi può permettere, ad esempio, di scegliere con cognizione di causa a chi rivolgere il nostro voto politico, senza cadere nelle trappole vischiose di personalità incompetenti, ma carismatiche e manipolatrici. L’esempio climatico, che ho citato più volte in questo sproloquio, è solo uno dei molti possibili, quali le politiche relative alle comunità LGBTQ+, l’aborto, l’eutanasia, le discriminazioni raziali e di genere, e tutti quegli argomenti che tendono a polarizzare l’opinione pubblica. Studiare l’origine storica e filosofica di questi tipi di dibattito può fornire una chiave di lettura decisiva per distinguere una decisione politica sensata da una che di senso non ne ha, in modo tale da poter pensare a un futuro in cui i problemi che oggi sembrano paralizzanti siano solo un lontano ricordo.
Conclusioni
Alla fine di questo lungo, e forse superfluo, percorso, credo che l’obiettivo posto all’inizio sia stato raggiunto. A prescindere da ciò che la retorica efficentista propina, impiegare il proprio tempo, in proporzione variabile da persona a persona, per dedicarsi a forme di sapere non immediatamente spendibili non solo ha una sua bellezza intrinseca, ma ha anche un’effettiva utilità che non snatura la realtà profonda delle discipline in questione. In chiusura, tuttavia, mi preme sottolineare un ultimo aspetto: per quanto scritto fin qui, una conseguenza che si può dedurre è che l’uso più improprio che si possa fare della “cultura” è quello di bacino di risposte preconfezionate. Non è infrequente incontrare studiosi e studenti che cercano nelle discipline in questione punti saldi e perentori, rifiutando quel salvifico “sentirsi stupidi” di cui ho parlato in precedenza. Trovo in questo atteggiamento una profonda arroganza di fondo, un forte senso di elitarismo che sottintende la volontà di tracciare una riga tra colti e incolti, tra sapienti e ignoranti. Avere una cultura, qualsiasi cosa ciò significhi, non rende automaticamente persone migliori o di maggiore dignità, soprattutto se questa è usata come difesa dal mondo esterno e per fuggire dal confronto. Il sapere umanistico è una bussola di pregevolissima fattura da usare per orientarsi nel mondo che ci circonda, ma se ci si rifiuta di uscire di casa e di perdersi lungo il percorso non ha senso tenerla in mano.
Sitografia
I filosofi in azienda fanno decollare il profitto – la Repubblica
Requisiti di trasparenza (fonte AlmaLaurea) (filosofia)
Requisiti di trasparenza (fonte AlmaLaurea) (scienze filosofiche)
Assurdità della vita: tra l’inquietudine di Pessoa e la rivolta di Camus – Aratea Cultura
[1] Un esempio di articolo a riguardo si può ritrovare in I filosofi in azienda fanno decollare il profitto – la Repubblica
[2] Consultabili ai link Requisiti di trasparenza (fonte AlmaLaurea) per la Laurea Triennale in Filosofia e Requisiti di trasparenza (fonte AlmaLaurea) per la Laurea Magistrale in Filosofia.
[3] Si è presa come esempio l’Università degli studi di Milano per la sua enorme offerta di corsi di laurea triennali e magistrali e per il suo ingente bacino di utenti, permettendo in tal modo una visione di insieme che tenga conto di molti percorsi di formazione.