”Quel luogo a me proibito” di Elisa Ruotolo: siamo tutti un po’ bonsai.
Certe storie sono troppo difficili da vivere, le puoi solo scrivere.
Elisa Ruotolo, Quel luogo a me proibito, Feltrinelli Editore, 2021.
Questa è la nota in esergo che troviamo all’inizio del nuovo romanzo di Elisa Ruotolo, Quel luogo a me proibito, che, in poco più di centocinquanta pagine, riesce a far provare al lettore tutto e il contrario di tutto, dalla tenerezza malinconica nei confronti della protagonista, un’ “inetta della vita” che si limita ad assistere alla fame e alla gioia di vivere altrui, senza mai farla propria, al divertimento un po’ sadico di vederla innamorarsi per la prima volta a quarantadue anni, quando dall’amore ti aspetti tutto tranne le farfalle nello stomaco, la testa leggera e le prime volte.
E allora immedesimarsi con questa donna ,che nella testa del lettore assume le fattezze di un fantasma, di un simulacro non ben definito, se non nel proprio sentirsi inadeguata, diventa inevitabile, perché inevitabile è scontrarsi con la paura di vivere (o di vivere troppo), con l’ansia di non essere all’altezza e con i limiti che ci autoimponiamo o che ci vengono imposti. In questa storia fatta di traumi, guarigioni e consapevolezze, emerge un’unica grande verità: siamo tutti un po’inetti a vivere.
Famiglia: vergogna della stirpe e invisibilità
Tutto è cominciato prima di me. Vorrei poter vantare un inizio solo mio, invece mi rendo conto che di privato possiedo ben poco.
Elisa Ruotolo, Quel luogo a me proibito, p.1, Feltrinelli Editore, 2021.
Questo è il malinconico incipit del libro e, volendo, la radice prima del mal di vivere della protagonista, nata nel meridione attorno agli anni ’60, dove la famiglia non era solo il nucleo primo attraverso cui ci si interfaccia al mondo e alla socialità, ma era una questione di stirpe, e, in questo caso, di colpe. La protagonista, infatti, sembra pagare fin dall’inizio la colpa di essere venuta al mondo, lei, ultima di tre fratelli, nata da un’avventatezza mal calcolata.
Fin dall’inizio comprendiamo come il motto “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei” si applichi perfettamente alla storia della protagonista: già dai nonni, la sua famiglia è diversa ,sbagliata, un qualcosa di cui ci si deve vergognare, perché troppo distante dalle convenzioni sociali. La nonna materna ha commesso un unico grande errore, quello di sposare un uomo che ,fin dall’inizio, ha a noia i doveri della vita e gli obblighi che la società impone. Crescerà da sola la figlia, facendo in modo che già lei, prima della protagonista, diventi adulta in modo quadrato, incastonandosi perfettamente nella semplice e tranquilla vita di paese e nelle sue convenzioni sociali che vogliono la donna ,madre e moglie, senza quei grilli per la testa che sono concessi solo agli uomini.
Nemmeno la grande opportunità di andare a Roma, a lavorare come sarta per l’atelier delle sorelle Fontana, riuscirà a sradicare la madre da quel meridione arcaico, arretrato e bigotto che tanto stenta ad abbandonare. Ed ecco che allora l’unica possibilità è quella di diventare una copia della propria madre, perché la vita fa troppa paura per riuscire a prenderla a morsi e ritagliarsi il proprio spazio nel mondo: via i sogni, perché possono essere pericolosi, addio alle opportunità, perché qualcosa di oscuro vi si cela dietro. Come ella abbia conosciuto il marito, non è possibile saperlo, perché nessuno dei due ne parla mai, nemmeno ai figli; è probabile, secondo la protagonosita, che il loro legame sia nato solo ed esclusivamente per un motivo: entrambi hanno troppa paura di affrontare la vita in solitudine, troppa paura di non essere all’altezza dei doveri quotidiani, dell’incapacità di provvedere a se stesso lui, dell’impossibilità di mantenersi da sola, lei. Il loro triste matrimonio non è indifferente alla protagonista, che nota la totale mancanza di affetto , di gesti d’amore e di qualsiasi esternazione emotiva da parte di entrambi: il tutto si riduce ad un mero contratto, ad un automatismo che si concretizza della meccanicità dei rapporti sessuali che i due hanno e che la protagonista sente di sfuggita, chiedendosi se davvero l’amore sia solo quello, un breve e quasi impercettibile strofinio sotto le coperte.
D’altronde, una certa inettitudine alla vita è propria anche della stirpe paterna: il nonno, un ometto becero, per il quale vivere significa avere ogni cosa sotto controllo, si risposa con una donna senza personalità, che si fa comandare a bacchetta e che vive in una dimensione altra rispetto a quella del resto dei famigliari. Nessuno la chiama “nonna”, nessuno la chiama per nome, nessuno sa nemmeno bene come passi le sue giornate, e sono queste le caratteristiche che la protagonista prende a modello: essere invisibili, fare in modo che nessuno abbia da parlare o sparlare di ciò che fai, diventano l’obiettivo, perché non esistere ha in sé qualcosa di estremamente consolatorio, di dolce e caldo, perché protegge dai pericoli della vita.
L’odi et amo del diverso: Imma e Nicla
La protagonista, in questo senso, ama il suo non-vivere, ma non riesce a fare a meno di essere attratta da chi, invece, vive: desidera, strepita, vorrebbe disperatamente assaggiare anche solo un piccolo pezzettino di vita, perché, dai, alla fine non può farle così male. Il problema è che sotto i suoi occhi si presentano palesi le conseguenze di chi, invece , ha vissuto troppo.
È il caso di Imma, la prostituta del paesello, con un dente solo e una sola colpa, quella di aver vissuto in modo eccessivo. La protagonista le vede, la osserva e la studia ogni volta che le capita di imbattersi nella sua sedia e nel suo scialle malridotti, vicino alla fermata dell’autobus: le forcine, il modo in cui si piega e saluta i mocciosi già fin troppo eccitati per la loro giovane età e che già si sentono in diritto di essere cattivi, chiamandola “Imma-cazzimma”, tutto le ricorda la madre, o meglio, quello che la madre avrebbe rischiato di diventare se solo si fosse azzardata a uscire dai binari per lei costruiti da chi già sapeva i rischi a cui sarebbe andata incontro, se non avesse avuto una guida.
Il rischio è la prima caratteristica che nota anche in Nicla, la compagna di scuola sboccata e volgare che è sempre in compagnia di un ragazzo più grande che la aspetta fuori da scuola. Nicla non ha paura di niente e di nessuno, salta spesso la scuola per andare a Napoli a farsi gli affari suoi, perché per lei la vita è altro, è qualcosa che non si può apprendere dietro ai banchi. Ed è così che, quando la madre di quella ragazzina già donna va dalla protagonista a chiederle se per caso sapesse che giri frequentasse quella disgraziata di una figlia, la protagonista si vendica dicendo tutto, di Napoli, del ragazzo più grande, delle costanti assenze di Nicla, la cui unica colpa è quella di avere troppa voglia di vivere e di fregarsene delle conseguenze.
Ancora una volta, infatti, la vita presenta il proprio conto da pagare, perché i seni di Nicla iniziano a crescere in modo anomalo e il ventre a gonfiarsi sempre di più, senza che i vestiti sempre più larghi riescano a nascondere la vergogna di essere rimasta incinta a tredici anni. La differenza sta proprio in questo: Imma e Nicla hanno pagato lo scotto per un desiderio eccessivo di vita, di esperienza, e il loro corpo martoriato dagli uomini non riesce a non renderlo evidente; la protagonista, invece, cerca continuamente di nascondere la vergogna di essere donna, vestendo in modo sciatto, con abiti informi che diventano lentamente la sua armatura contro gli sguardi ambigui degli uomini. Una sola cosa non ha previsto: Andrea.
Andrea : quando la vera condanna è non vivere
Andrea è l’inizio e la fine di tutto, è l’incontro inaspettato che ti stravolge la vita e mette in dubbio tutte le certezze che almeno una volta nella vita tutti abbiamo avuto. Ma cosa accade quando ad averlo è una donna di quarantadue anni che non ha mai vissuto? Si torna bambini. Ed ecco che la protagonista, sfinge del deserto che non baratterebbe il proprio stato di quiete per nulla al mondo, inizia a sentirsi viva, a desiderare come mai aveva fatto prima, ad avere una fame che mai aveva provato.
Andrea, però, è diverso da lei, anzi, è il suo opposto, e gli opposti non sempre si attraggono: privo di legami, di una dimora fissa, di un lavoro fisso e di ideali precisi, prende per mano la protagonista e la accompagna in un tango fatto di carezze, di gite in auto, di “ ti aspetto” e “ti desidero”. Il problema è che, si sa , tango vuol dire passione, e lei la passione non ce l’ha. Allora la relazione diventa l’ennesimo motivo per cui sentirsi frustrata, non all’altezza, perché come lo spieghi che a quell’età non riesci ancora a sentire un corpo nudo legato al tuo, a fare in modo che il tuo respiro diventi il suo, e il suo il tuo? Non riesci.
E allora ad ogni tentativo fallito, il timore di non essere in grado di farcela cresce, così come cresce l’impazienza di Andrea, che cerca di far sbloccare quel corpo tenuto per troppo chiuso, nascosto, ma non riesce. “Fatto 30, facciamo 31”: e Andrea il suo 31 lo trova nella pratica dello shibari, arte sessuale giapponese, che prevede che la donna venga legata con corte e nodi, mentre il partner testa fino a dove l’amore di lei è disposto a scendere a compromessi col dolore. Alla protagonista l’idea non piace, ma forse , pensa, sarà proprio affrontare il dolore, superare i propri limiti che le permetterà di lasciarsi andare e finalmente raggiungere quel luogo a lei proibito, che è la libertà di essere se stessi, di desiderare, di spingersi oltre i limiti imposti dalla società e da una famiglia opprimente.
Ma se mente e corpo non vanno di pari passo, qualsiasi tentativo è destinato al disastro. Ed è così che nemmeno la sensazione dei nodi che stringono e delle mani di Andrea che scivolano sicure lungo il corpo riescono a farle raggiungere quella libertà tanto anelata. Andrea, il suo Andrea, non riesce d’altro canto a scendere a compromessi con una persona tanto diversa da sé, tanto schiacciata dal peso di una vita che sembra vita altrui e di un corpo che sembra non appartenerle: se ne va, lasciandola sola con le conseguenze di aver vissuto troppo, anche se per poco tempo, di aver pensato, per un attimo solo, che valesse la pena rischiare di vivere. Ed ecco che ogni giorno diventa un’agonia: di nuovo sola, la protagonista non riesce a mettere a tacere quella voglia di vivere , quella fame d’amore che ormai non riesce più a calmare, se non facendo scendere le mani dove prima mai avrebbe pensato sarebbero scese, o cercando Andrea in qualsiasi altro uomo le permetta sì di denudarsi, ma non l’anima.
La mia carne si porta dentro il danno di chi ha deragliato, riconoscendosi solo nel ferro rovente di chi la marchia […] Ora so di non poter recuperare la comune misura del tempo, dopo ever sperimentato la vertigine dell’eternità: il tormento di un amore senza fine.
Elisa Ruotolo, Quel luogo a me proibito, Feltrinelli Editore, p.152, 2021.
Siamo tutti un po’ bonsai
Arrivare alla fine di Que luogo a me proibito è stata un’esperienza particolare. Dopo aver letto per centcinquanta pagine i rimpianti, i dolori e le nausee della protagonista, inevitabilmente il lettore tende ad aspettarsi una nota positiva, perchè, dai, non può finire così male. Ma la nota positiva, di fatto, non c’è, anzi, assistiamo all’ennesima doccia fredda per la protagonista, spunto per l’ennesima dolorosa presa di coscienza, fornitale da Nicla, tornata fra i banchi di scuola ad un corso serale
E così mi hai lasciato sola. Come probabilmente hai fatto con Andrea. Farai lo stesso con chiunque cerchi di entrare nel tuo mondo che deve restare uguale. Ti sei mai chiesta perchè soffri come un cane? Te lo dico io. Perchè sai che non è stato lui ad abbandonarti: sei stata tu la prima. Lo hai fatto con le tue indecisioni. Non hai voluto scegliere, rischiare, sporcarti. Ma l’amore non può essere igienico […] Ti spingerei verso la vita, lo capisci o no che devi vivere?
Elisa Ruotolo, Quel luogo a me proibito, p.148, Feltrinelli Editore, 2021.
Sintetizzate nelle parole di Nicla, troviamo una delle verità più profonde, taglienti e difficili da accettare: la causa della nostra infelicità, siamo noi stessi. Quante volte, per difenderci, per tutelare quella parte di noi che sentiamo come più fragile, pronta a rompersi, perdiamo intere parti della nostra vita? Rileggendo le parole dell’inizio del libro, quasi ci vergognamo di aver empatizzato con la protagonista. Tutto è iniziato prima di me. Vorremmo urlarle che no, tutto è iniziato dopo di lei e per colpa di lei, che la vita è una e ne siamo noi i padroni, i attori e i colpevoli. Ma peccheremmo di superbia, perchè noi lettori abbiamo la sua stessa identica colpa, quella di essere, come lei, dei bonsai:
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