Qual è il senso di questa nauseante esistenza?
« Tutto scorre in me più o meno svelto, non fisso nulla, lascio correre. La maggior parte del tempo, in mancanza di parole cui attaccarsi, i miei pensieri restano nebulosi. Disegnano forme vaghe e piacevoli, e poi sprofondano, subito li dimentico »
“Questo è il tempo, né più né meno che il tempo, giunge lentamente all’esistenza, si fa attendere, e quando viene si è stomacati perché ci si accorge che era già lì da un pezzo.”
J.P. Sartre, La Nausea, 1931
“La Nausea”, un’opera di Jean-Paul Sartre
“La Nausea” di Jean-Paul Sartre prende forma nel 1931, inizialmente con il titolo “Melancholia”. L’autore osserva la casualità degli eventi umani e l’accidentalità della realtà, nel tentativo di scorgere le sensazioni profondamente recondite che, al contempo, pervadono l’essere umano nella sua totalità.
“La Nausea”, nel suo progetto revisionato e completato, vede la luce nel 1938, divenendo l’espressione contemporanea per eccellenza di una consapevolezza umana dolorosa e inevitabile. Attraverso l’espediente letterario del manoscritto ritrovato dagli editori, Sartre costruisce il diario segreto e tesse il filo della coscienza di Antoine Roquentin: uno scrittore che si trasferisce a Bouville, un paese della Francia, dopo una serie di viaggi e di esperienze, per ripercorrere l’esistenza del marchese di Rollebon e scrivere un libro storico sulla sua vita.
A partire dall’analisi e dal ritrovamento di documenti che tracciano sprazzi della vita del marchese, Antoine prende coscienza di una sensazione che galleggia nel suo animo: viene investito dall’inevitabile frammentarietà dell’esistenza e degli eventi della realtà che sembrano assomigliare a dei pezzi di puzzle sconnessi tra loro senza formare la composizione di un’immagine di insieme e che si perdono, nel corso del tempo. Lo colpisce l’amara consapevolezza, inizialmente poco nitida, dell’insensatezza del passato e degli eventi che percorrono strade contorte, talvolta sbagliate e che appaiono mutevoli, fragili alla resistenza del tempo.
La storia che Antoine sta cercando di costruire non è altro che la percezione delle sue sensazioni soggettive: non sta tracciando ciò che il marchese di Rollebon ha davvero vissuto o sentito. Le due strade prendono direzioni opposte, la continuità degli elementi procede in senso inverso e, man mano, egli si rassegna all’inutilità del suo commento fittizio.
Si espande in Antoine la percezione che il suo passato sia il resoconto di una narrazione: un insieme di parole che gli conferiscono l’illusione di aver partecipato, in qualche modo, al corso della sua esistenza. La vita non è altro che il raggruppamento di racconti, il bisogno di dar voce agli eventi tramite la costruzione di parole, di frasi e discorsi pomposi da trasmettere agli altri, per dimostrar loro qualcosa e per far sì che a lui rimanga qualcosa: sembrerebbe questo, tutto ciò che conta.
Cacciare l’esistenza al di fuori di sé
Antoine viene travolto all’inconsistenza degli elementi della sua vita: i dettagli, passati, presenti e futuri risultano incredibilmente fastidiosi, troppo ingombranti, gonfiati del loro senso becero e fine a se stesso. Attraverso l’osservazione del suo circostante, sviscera dal profondo ogni elemento, e si rende conto del posticcio bisogno che gli uomini hanno di imbottire ogni momento e ogni oggetto con delle etichette: anche questa azione diventa un esorcismo, un tentativo vano di colmare qualcosa che in realtà è vuoto, privo di spessore.
Persino il rimembrare attimi del passato appare qualcosa di infimo perché costituisce, in realtà, un inganno: un altro modo per sfuggire al presente, un altro modo per proiettarsi in una dimensione che non esiste, un’altra illusione che svuota ma che allo stesso tempo si avverte pesante e stomachevole, un onere gravoso sulle spalle: è la Nausea.
“È la nausea. La nausea non è in me: io la sento laggiù sul muro, sulle bretelle, dappertutto attorno a me. Fa tutt’uno col caffè, son io che sono in essa”. È una dimensione metafisica pervasiva, un atteggiamento psicologico diffuso, un riflesso incondizionato che si attacca sulla pelle, agli organi, dappertutto.
È la sensazione dell’inferno quotidiano: il circostante è zeppo di cose che hanno il sapore della vanità evanescente, il troppo comporta dei vuoti incolmabili che causano senso di estraniamento, di alienazione e di terribile confusione. L’assurdità del quotidiano, il paradosso risiede nell’estrema gratuità di tutto ciò che esiste e nell’urgenza di mostrare il suo essere in tutte le forme.
Il continuo sperimentare comporta la presa di coscienza di un orrore diffuso, dell’inautenticità del mondo circostante e il brivido derivante dall’assurdo. Tutto intorno gira velocemente, eppure non si può fare a meno di notare le difformità degli ingranaggi, le brutture e le storture di questo moto incessante e portatore di sofferenza.
La nausea ai giorni nostri
La sensazione nauseante che ha cercato di descrivere e di delineare Sartre nella sua opera potrebbe definirsi tutt’oggi la condanna dell’epoca moderna. Si avverte come fosse una patina persistente, questo senso di finzione che aderisce su ogni cosa: il bisogno di scrivere la propria parte, di impararla a memoria e recitarla alla perfezione ogni giorno, in loop, senza mai commettere un fallo, perché questo potrebbe risultare fatale: ci si troverebbe nel bel mezzo di un uragano potentissimo e inarrestabile, capace di spazzarci via.
In una realtà costruita parzialmente sulla necessità di lasciar trasparire una determinata immagine e apparenza di sé, è sempre più difficile e paradossale mantenere l’equilibrio dei diversi elementi che ci compongono. Si vive, spesso, una sorta di dissidio tra ciò che si è e ciò che si deve provare esternamente di essere; si cerca disperatamente di sanare questo conflitto gettandosi nella confusione, diventando parte del ritmo quotidiano e immergendosi nell’inferno nauseante.
L’ordinario, per quanto illusorio, ci avviluppa di convinzioni che affollano la mente: senza la loro presenza (o vacuità) la sostanza che ci determina è effimera, una foglia che vola con un soffio di vento. Confrontandoci con la nostra attualità, possiamo affermare con forza che ne abbiamo avuto prova durante il periodo di lockdown forzato che ci ha costretti a segregarci tra quattro mura per un tempo che è sembrato eterno, relegati a fermare il tempo e la scansione dei nostri attimi a delle azioni ripetute e sempre uguali.
La necessità incombente di bloccare ogni attività normale che impegnava le giornate ha aperto spifferi di cosciente impotenza che ci ha resi sterili. Ognuno sentiva impellentemente di dover mantenere il controllo delle proprie azioni, di riempire le giornate con una serie di atti che potessero dare la minima parvenza di produttività e di creatività.
Ad un certo punto, è sopravvenuta la noia. Eccola qui, la Nausea della nostra società: l’affannata ricerca, il nulla causato dagli eventi di cui ci troviamo a far parte, per forza di cose. La quarantena ci ha condotti necessariamente a fare i conti con qualcosa che prima di allora tenevamo ben nascosto, segregato sotto l’ammasso di impegni più importanti a cui pensare e che, nel nulla, si sono dissolti e hanno preso le sembianze di qualcosa di nebuloso, rarefatto e intangibile.
L’alienazione dall’inferno quotidiano, nonostante possa sembrare stancante e deludente, si è rivelata a tratti fatale perché ha scavato all’interno dei meccanismi più oscuri della nostra società, spogliandola di ogni travestimento o maschera, rivelandola nella sua nuda crudità lacunosa e, appunto, nauseante.