Il razzismo oggi: una questione di privilegio?
25 maggio 2020: il mondo viene scosso dalla morte di George Floyd.
L’episodio si colloca all’interno di una dimensione di continue violenze perpetrate dalle forze dell’ordine americane al danno di cittadini afroamericani, e ha permesso (tanto in Europa quanto in America) di riaccendere il dibattito all’interno dell’opinione pubblica sull’attuale tema del razzismo.
È stato necessario? Sì, come ogni volta in cui si prende coscienza di un problema reale, in Italia come in America.
È stato sufficiente? No, scendere in piazza è sempre un primo passo, ma l’azione non può essere fine a se stessa.
La mera protesta a nulla serve se in concomitanza non si cerca quotidianamente di cambiare la realtà.
L’Italia, un paese razzista?
Il razzismo è un fenomeno esistente tanto in America quanto in Italia: negare la sua diffusione è moralmente sbagliato.
Non è logicamente accettabile negare l’esistenza del razzismo in Italia, dove tre episodi di violenza su quattro hanno matrice razziale. Non ha senso negarla quando nella quotidianità i giornali si affrettano a specificare la nazionalità del criminale in questione, se questo non ha origini italiane. E infine non ha senso negare il razzismo, se ad oggi in Italia gli individui che sono migrati dal loro paese hanno difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro come professionisti qualificati (quali spesso sono). Solo il 7% di loro infatti ricopre il ruolo per cui si è formato, mentre molti altri sono spesso costretti a lavori svolti in condizioni di sfruttamento e assenza di dignità del lavoratore.
Si potrebbe asserire quindi che ancora viviamo in una società razzista; e se non si è in grado di accorgersi di tali evidenze il motivo si definisce nell’impossibilità di essere toccati da un certo tipo di discriminazione, e dunque nell’avere un privilegio.
Di cosa parliamo se parliamo di privilegio?
Il concetto di privilegio non è facile da comprendere. Quando si fa notare ad una persona che questa è da considerarsi in una posizione agevolata, la reazione è spesso una: dimostrare l’insensatezza della tesi esposta mostrando le proprie disgrazie. Ma non è questa la prospettiva che si deve assumere per diramare la questione.
Quando si sta asserendo al fatto che un individuo gode di una specifica tutela non si stanno negando i suoi problemi personali. Ognuno di noi ne ha, ed ognuno di noi ha il triste diritto d’essere infelice. In questa società però vi è chi possiede (molto spesso inconsciamente) maggiori diritti: individui che non subiranno mai determinate e particolari discriminazioni, poiché le caratteristiche con cui sono nati sono considerate più adeguate.
Per questo potremo allora dire che essere bianchi significa essere privilegiati. Nessuna persona bianca subirà violenze per il proprio colore della pelle. Mai verrà messo in dubbio il fatto che sia italiano. Sono tutti casi dettati dal “privilegio bianco”, il quale però non è legato semplicemente alla realtà quotidiana. Nella nostra società, spesso, il privilegio è addirittura istituzionalizzato.
La polizia non fermerà mai un bianco solo perché bianco, mentre per fermare uno straniero spesso è sufficiente il colore della sua pelle. Parliamo, nello specifico, di “Racial profiling” un fermo basato solo sulle caratteristiche esterne delle persone, compresa la pelle.
L’associazione Antigone ha dichiarato che avviene con regolarità anche in Italia.
La responsabilità d’avere un privilegio
Avere un privilegio non è una colpa. Nessuno sceglie di nascere con determinate caratteristiche.
A chi gode di un determinato privilegio dunque non è chiesto di provare pentimento o senso di vergogna per ciò che lui è.
È chiesto piuttosto di prendere coscienza della realtà.
Se in questa società non vivi una discriminazione, e dunque di fatto godi di un privilegio, non significa che questa discriminazione non esista, e affermare il contrario può essere deleterio.
Quando una persona bianca nega il problema del razzismo in Italia, non fa altro che nascondere ulteriormente coloro la cui esistenza è quotidianamente oscurata da esso.
Chiudere gli occhi davanti ad una discriminazione, rifiutarsi di vederla, significa escludere la possibilità di affrontarla e significa usare il proprio privilegio per cancellare la realtà di altri.
In definitiva negare un problema significa diventare parte del problema stesso.
Riconoscerlo e allora l’inizio del cambiamento, ma non è sufficiente.
Denunciare non sostituirsi
Ad una presa di coscienza, infatti, mai può seguire il silenzio e l’accettazione. Riconoscere l’esistenza del razzismo non basta. Bisogna trovare la forza per combatterlo quotidianamente, e non solo quando farlo pubblicamente può portare maggiori apprezzamenti sulle piattaforme online. Combattere significa denunciare. E se si gode di un privilegio, farlo è essenziale; dal momento che chi è al riparo dalla discriminazione razziale è sicuramente dotato di una voce più “forte” perché tenuto in maggiore considerazione.
Dare la propria voce ad un problema è allora importante, ma affinché ciò possa avvenire è prima di tutto necessario ascoltare chi il razzismo lo sperimenta in prima persona.
La trattazione di un problema non può prescindere dal punto di vista di chi lo vive. Chi infatti ha il privilegio di non essere toccato da un problema, potrà riconoscerne l’esistenza ma difficilmente potrà realmente capire cosa significhi viverlo quotidianamente.
Non può essere quindi un bianco a indicare se un episodio possa o meno essere definito razzista, o a ad esprimersi secondo i proprio parametri di giudizio su un gruppo che verte in una condizione diversa dalla propria, se prima con loro non si è confrontato.
Il rischio è infatti di proporre una narrazione non reale, che distorce il problema e non ne fornisce una soluzione. Questo avviene così spesso che è stato necessario trovare un nome specifico, allargando il campo semantico dell’espressione: “White Savior”.
I White Savior
Il termine “White Savior” inizialmente nasce in relazione alla realtà del volontariato nei paesi in via di sviluppo, in particolare in Africa. Qui ogni anno giungono i “buon samaritani” pronti ad aiutare la “povera” Africa senza realmente essere a conoscenza della realtà sociale-politica di questi paesi – o senza davvero volerla conoscere -.
Ogni paese, ogni società è difatti un fragile e complesso microcosmo le cui peculiarità non possono essere ignorate se davvero si vuole portare il proprio aiuto. Ma la realtà è che sono ben altre le motivazione che spingono i “White Savior” a partire. Spesso infatti a muoverli è la necessità di ottenere un’esposizione che altrimenti non potrebbero ottenere. Giocano a fare gli eroi, ma lo fanno sulla pelle degli altri; e questo è esattamente ciò che fa chi non subisce il razzismo e decide di parlarne senza prima aver ascoltato chi ne è toccato.
Quando parliamo di “White Savior” infondo non parliamo d’altro che dei fratelli di quello stesso colonialismo che ha profondamente impoverito l’Africa. Entrambi figli di quell’atteggiamento etnocentrico che rende incapaci di ascoltare, perché assordati dal rumore sordo della propria convinzione di saper già a priori (in quanto occidentali) come approcciarsi ad una realtà che neppure si conosce. Un atteggiamento che mai a nulla di buono ha portato.
La realtà potrà cambiare solo se impareremo a fare spazio agli altri e diventare non la voce ma il megafono di chi una voce non l’ha avuta per troppo tempo.
Credits:
Chiara Militello
per l’opera Sovrastrutture
Nasciamo indifesi, bisognosi di cure e di affetto da chi ci circonda. Siamo puri e senza giudizio, distinguiamo a malapena i colori ed ogni cosa è volta ad arricchire la nostra conoscenza, il nostro divenire individui nel mondo. Se mantenessimo la stessa curiosità di attingere dall’altro per imparare le basi del vivere, non vedremmo il diverso ma solo ricchezza.
Chiara Militello, in arte Milc, è una studentessa di psicologia clinica e di arteterapia. Scopre il collage per caso e nel tempo questa tecnica diventa la sua seconda lingua, quella più sensibile e profonda, un modo per conoscersi e raccontarsi.
Instagram: @milc.ollage
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