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Perché “Top Gun – Maverick” può essere il miglior film agli Oscar 2023 ?

Un articolo di Chiara Girotto e Nicola Vavassori

Leviamoci il dente e insieme il dolore: no, Top Gun: Maverick non dovrebbe vincere l’Oscar per il “Miglior Film” in questo 2023 pieno di ambiguità cinematografiche. Con ben 6 nomination agli Academy, la pellicola di Joseph Kosinski non tornerà certamente a casa a mani vuote la notte del 12 marzo. Infatti, nonostante competa con un colossale Avatar 2 per i “Migliori effetti visivi” e il “Miglior sonoro”, ha buone possibilità di primeggiare in altre due categorie: “Miglio montaggio”, per la sorprendente coerenza di riprese a velocità supersonica, che rendono fluido e comprensibile anche l’intreccio di acrobazie più caotico; e “Miglior canzone originale”, per la gloriosa “Hold my hand” di Lady Gaga, sulla scia della celebre “Take my breath away” dei Berlin che vinse lo stesso premio nell’86. Più perplessità ci sono invece per la candidatura alla “Miglior sceneggiatura non originale” (la cui enigmatica nomination si spiega a questo link), considerando che la trama è estremamente banale, come spiegato sotto.

Eppure, è soprattutto quella candidatura a “Miglior film” che continua a stonare. È vero, Top Gun: Maverick si colloca al 12° posto tra i maggiori incassi della storia del cinema, con un botteghino da record di quasi un miliardo e mezzo di dollari, ma basta dare uno sguardo alla classifica per notare che il guadagno non è sempre garanzia di qualità: i nomi che lo incorniciano sono infatti Fast and Furious 7 e Frozen 2, non esattamente i primi titoli che vengono in mente quando si pensa al grande cinema.

Il sequel del blockbuster americano più famoso degli anni ‘80 fonda gran parte del suo successo sull’effetto nostalgia. Le prime scene di Maverick sono identiche in tutto e per tutto al Top Gun del 1986, con la stessa musica, le stesse inquadrature e le stesse parole nel titolo e nell’introduzione, con lo stesso font. Il resto non è da meno: Tom Cruise, alias Maverick, sfodera la vecchia moto e i soliti occhiali da sole. Non può mancare un’inquadratura sulle fotografie del compagno Goose, morto nel primo film, e di suo figlio Miles che, ormai cresciuto, gioca un ruolo centrale nella trama, dopo aver suonato al pianoforte la stessa “Great balls of Fire” del padre. Anche le inquadrature sul finale, ovviamente, sono identiche.

Insomma, impossibile non versare una lacrima per tutti i “boomer” che 33 anni fa si erano comprati una giacca di pelle e dei Ray Ban Aviator per somigliare a un pilota della Top Gun. Chissà se tra la platea che ha regalato 5 minuti di standing ovation alla prima di Maverick al festival di Cannes del 2022 c’era anche qualcuna delle matricole che nel 1986 si arruolò nella marina militare firmando direttamente ai botteghini installati all’esterno dei cinema, che in quell’anno registrarono il più alto numero di iscrizioni dopo Pearl Harbor.

Eppure, dietro il velo della nostalgia e le acrobazie registiche, non resta che un involucro vuoto. La trama è estremamente piatta e prevedibile, una sorta di riproposizione in chiave postmoderna del “viaggio dell’eroe”: un protagonista bello e capace – ma stavolta conscio dei propri errori passati – affronta e supera una sfida apparentemente impossibile, il tutto intrecciato con una storia d’amore e un lutto, gli immancabili Eros e Thanatos di ogni narrazione.

In questa cornice, qualsiasi occasione di approfondire dei temi trasversali viene completamente sprecata. Ad esempio, il problema delle AI, le intelligenze artificiali, utilizzate come dispositivi bellici e possibili sostitute dei piloti disobbedienti, viene introdotto e abbandonato a sé stesso. O ancora il nostalgico incontro con un vecchio amico, Iceman, si riduce ad una massima che ha del ridicolo: «You have to let go» consiglia il capitano a Maverick a proposito della scelta di inviare Miles, che, ricordiamolo, è il figlio dell’uomo morto durante un volo in cui era lo stesso Maverick a pilotare, in una missione concepita come suicida. Il suggerimento di «lasciare andare» nella suddetta scena sembra una specie di corrispettivo del «non essere triste» intimato a chi soffre di depressione. Non banale, di più.

Al di là delle varie ed eventuali soluzioni scontate, nel film si percepisce un enorme elefante nella stanza, ovvero il tema della guerra. Non vi è nemmeno una battuta in tutto il film che cerchi di tematizzare il fatto che una squadra di piloti di caccia militari stia facendo di tutto per bombardare una base nemica. Gli ordini non vengono mai messi in discussione, ma accettati passivamente come il dogma attorno al quale ruota tutta la trama. Il nemico ha una base in mezzo alla tundra innevata, ma non ha un volto, né una bandiera, né una lingua straniera, forse per evitare una cattiva pubblicità cinematografica alla Russia – quando a qualsiasi spettatore dei tempi odierni il paragone del nemico senza nome con l’ex URSS sorge più spontaneo di un riflesso pavloviano – o forse per evitare di creare nello spettatore (o nel soldato) qualsiasi tipo di empatia per il nemico, un sentimento inutile che avrebbe rubato minuti preziosi sulla pellicola al posto della partita di rugby dei muscolosi e sudati piloti della Top Gun a torso nudo sulla spiaggia.

Da questo punto di vista, Top Gun: Maverick si presenta come un film atemporale, astorico, che finge di non essere stato girato nel 2023. Essere un film iper-nostalgico e tecnicamente impeccabile non è una scusa per non trasmettere un messaggio, soprattutto in momento storico in cui la guerra è un tema centrale nel dibattito politico. Perfino la Pandora di Avatar 2 è riuscita a veicolare tematiche non scontate sullo sfondo di effetti speciali eccezionali. La sensazione che si prova per Maverick è che abbia evitato di trasmettere un messaggio poiché incapace di farlo senza cadere nel cliché.

Ciò non toglie che la pellicola resti il frutto di un lavoro tecnico eccelso: le riprese aeree, condotte su velivoli veri, regalano momenti di azione pura, che, nella sua semplicità, rilascia una scarica di adrenalina nella spina dorsale dello spettatore. Nonostante alcune imprecisioni di editing rilevate dagli esperti del settore, il remake resta godibile soprattutto per il suo ritmo fluido e frenetico al contempo, che magnetizza il pubblico allo schermo. «I feel the need, the need for speed» recitava il primo film: Kosinski ha fatto propria questa massima, riuscendo a persuadere anche i più scettici detrattori degli action movies a mantenere il fiato sospeso durante le ultime scene.

Il punto sta, forse, nella profonda discrasia tra ciò che il Top Gun: Maverick mostra e ciò che non dice. Non è un caso che l’altra perla di saggezza snocciolata nella pellicola sia il «don’t think, just do» che il protagonista ripete come un mantra all’allievo Miles. Il personaggio interpretato da un Tom Cruise più macho e smagliante che mai pare suggerire agli spettatori di non pensare e di guardare soltanto, insomma, di godersi uno show in perfetto stile hollywoodiano senza alcuna pretesa intellettuale.

Ora, in questo non c’è peccato né fallacia: in quanto prodotto tecnico artistico un film non deve necessariamente incaricarsi di un mandato didascalico o pedagogico. Un blockbuster come Top Gun sta alla larga dalle false promesse e ambisce al puro intrattenimento. Resta, tuttavia, un profondo senso di disagio, vista la temperie storica corrente, nel vedere dispiegate sequenze vagamente trionfalistiche di aerei militari che abbattono come se fossero birilli altri esseri disumanizzati e ridotti a meri props cinematografici. Che Top Gun: Maverick sia la rivincita di un’industria – quella dell’intrattenimento californiano – esausta del suo ruolo di ammaestratrice morale del politically correct?

L’evidente disimpegno del film si presenta come una scelta deliberata, quasi come una liberazione radicale e un po’ infantile dall’etica degli Oscar, totalmente incentrati, di recente, sulla sensibilizzazione del pubblico a tematiche legate alle minoranze, all’ambiente e alla discriminazione in generale. Di fronte a tale scenario monotono e spesso ipocrita, Kosinski e la sua produzione sembrano aver invertito la rotta, proponendo una pellicola profondamente americana nella sua ingenuità ideologica, nell’entusiasmo e nella perizia tecnica. Top Gun: Maverick si riallaccia così alla tradizione di una City of Stars, Los Angeles, che sa e vuole fare spettacolo senza curarsi del resto.

Oltre a ogni supposizione, il turbamento al cospetto del tono scanzonato e avventuroso con cui si racconta la guerra rimane. Lascia un sapore amaro pensare alle cifre degli incassi al botteghino e ai corrispettivi fiumi di spettatori la cui facoltà critica non è stata minimamente stimolata. Il boccone diventa ancora più indigesto se si pensa alla candidatura nella categoria Miglior Film: la commissione del premio più ambito della cinematografia occidentale negli ultimi anni ha lasciato ampio spazio a prodotti eccessivamente buonisti da un lato, e a film concettualmente piatti dall’altra. In questa tendenza si avverte una mancanza di equilibrio, una specie di incapacità nel calibrare il ruolo educativo, presunto o effettivo, che il cinema dovrebbe veicolare.

Top Gun: Maverick permette di trascorrere due ore di euforia visiva; dunque, l’augurio è che venga premiato per l’audacia del lavoro artigianale su cui si regge. L’importante è che ci si fermi lì, riconoscendo parimenti i suoi limiti di spessore, e forse anche la natura di panem et circenses contenuta in quel mantra del «don’t think, just do». Don’t think, just watch.


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Chiara Girotto

Redattrice in Letteratura Reels Manager