Perché TAR può essere il miglior film agli Oscar 2023 ?
Un articolo di Francesca Manzoni
All’interno della rosa di finalisti che quest’anno si contendono l’ambita statuetta dorata figura Tár: il film, scritto e diretto da Todd Field sancisce il suo ritorno sulle scene, a quindici anni da “Little Children”. Senza ombra di dubbio ci troviamo di fronte ad una pellicola di grandissimo valore, sia dal punto di vista tecnico, sia da quello contenutistico: una minuta analisi attorno alle dinamiche di potere, nel rapporto tra vittima e carnefice, viene costruita perfettamente attorno al personaggio di Lydia Tár, reso iconico dalle magistrali doti attoriali di una Cate Blanchett al limite del sublime.
Il perno attorno a cui si sviluppa la narrazione è senza dubbio una minuta analisi del concetto di potere, visto però in un ottica inedita, capace di veicolare lo sguardo dello spettatore verso un punto di vista astratto dal quotidiano e dai suoi dogmi. Il principale punto di forza risulta essere proprio la sceneggiatura: Todd Field decide saggiamente di non porsi nel ruolo di profeta, non sente la necessità di insegnare qualcosa a chi lo sta ascoltando, ma si limita a narrare un autobiografia fittizia, quella di Lydia Tár, genio della musica e donna di potere, inserendola all’interno delle dinamiche tipiche di un quotidiano reso riconoscibile da elementi come la pandemia e i social network. Attraverso questa radicale imparzialità, viene eliminato l’ingombrante filtro del “politicamente corretto” permettendo allo spettatore di riflettere, senza alcun tipo di condizionamento esterno, sulle sue stesse sensazioni, che riescono finalmente a emanciparsi.
Il lento logorio del genio: l’assuefazione del potere
Lydia Tár incarna, in ogni sua sfaccettatura, la figura di una self-made woman che è riuscita ad emergere ed affermarsi nel mondo della musica non solo grazie allo studio e alla determinazione, ma anche grazie al suo genio, che viene portato sullo schermo in tutta la sua complessità. Attraverso un delicato gioco di carattere acustico, riusciamo a percepire la sua sensibilità uditiva, che le permette di sentire, nella combinazione casuale di suoni che compongono il mondo, tutte quelle partiture che lei, dirigendo un orchestra, rende musica. È proprio questo suo valore a renderla una delle compositrici più affermate del ventunesimo secolo: con la fama e la consacrazione arriva però anche il potere, compagno e antagonista principale del vero e autentico talento.
L’amore per la musica, fotogramma dopo fotogramma, si consuma ed esce di scena, lasciando spazio alla sua predisposizione al dominio e alla prevaricazione. Lydia Tár concepisce se stessa come un deus ex machina, infallibile e inarrivabile: vive la sua vita nella convinzione che il genio sia qualcosa di profondamente definitivo, incrollabile, un “lasciapassare” verso la gloria eterna. Questo sentimento atavico di onnipotenza inizia a vacillare nel momento in cui Krista Taylor, sua ex studentessa, si suicida: il contorno del loro rapporto appare sfumato, confuso, riuscendo ad emergere solo nel subconscio, reso visibile allo spettatore attraverso un sogno che trasfigura il reale in immagini oniriche.
Da una parte emerge dunque l’ossessione dell’allieva, che la perseguita con regali e mail minatorie, dall’altra siamo spinti a chiederci come sia nato questo attaccamento morboso: “Il maestro Tár” (come ama essere chiamata) sembra aver avuto una relazione sessuale con la ragazza e, per motivazioni a noi precluse, a seguito del suo allontanamento le era stata fatta “terra bruciata” attorno. Attraverso la sua sfera di influenza Lydia arriva a precluderle ogni possibilità di lavoro nel campo della musica, esercitando a tutti gli effetti un abuso di potere, senza mostrare, a livello conscio, nessuna remora morale. Con la meticolosità del suo modus operandi, anche dopo la morte di Krista, i suoi impulsi predatori non cessano di esistere: cercherà infatti di replicare il suo schema con Olga Metkina, giovanissima violoncellista russa arrivata da poco all’orchestra filarmonica di Berlino.
Il culmine dell’assuefazione non è altro che l’anticamera della fine: uno spaventoso effetto a cascata porta alla luce tutti gli scheletri nell’armadio. In una società dove essere accusati equivale ad essere colpevoli, Lydia Tar perde il lavoro, la famiglia e la fama, ma soprattutto perde la musica. Il carnefice diventa vittima di una spietata “cancel culture”, contrappasso finale che ci spinge, come spettatori, a fare i conti con noi stessi e con le nostre emozioni: amiamo veramente l’arte, o siamo inconsciamente veicolati dall’identità dell’artista ?
Un faccia a faccia con la “damnatio memoriae”
Il profondo ostracismo a cui viene sottoposta la protagonista, strizza l’occhio (e forse in parte accusa) quella “cultura della cancellazione” nata dal movimento Me Too, che nel 2006 aveva portato alla denuncia di numerose violenze sessuali e molestie sul posto di lavoro.
La riflessione sulla “condanna della memoria” prende piede moto prima della caduta dall’Olimpo, quando nel corso di una masterclass alla Julliard si trova a confronto con uno studente che nega l’opera di Bach a causa del comportamento “moralmente scorretto” del compositore. Lo scontro ideologico intergenerazionale si tramuta velocemente in un intenso monologo di Lydia Tár: chi si pone al servizio dell’arte deve riuscire a sublimare se stesso. Solo astraendosi da qualunque forma di condizionamento esterno, si può spogliare l’arte da ogni costrutto sociali edificato a posteriori, cogliendone l’essenzialità, quell’emozione capace di travalicare tempo, spazio, costume e identità del singolo.
Ridurre l’arte alla condotta morale dell’artista è un operazione che, nella sua ambizione anticonformista, si rivela essere il più comune degli atteggiamenti conformisti. Lydia Tár lo sa bene, e non ha paura di dirlo, anche a costo di essere ridotta, anche lei, ad uno stereotipo: le sue parole, pregne di passione e di amore per la musica, vengono infatti sminuzzate, banalizzate e ridotte ad un piccolo tweet costruito “ad hoc” per distruggere la sua persona e la sua musica.
La pellicola di Todd Field non vuole insegnarci nulla, ma aspira ad un analisi antropologica, senza alcun tipo di preconcetto, di alcuni dei temi più scomodi al centro della nostra società. Questo non vuol dire, in alcun modo, giustificare l’abuso di potere o rendere vittima chi è carnefice, ma rendere l’osservatore spettatore imparziale piuttosto che giudice: la scelta, tanto criticata, di porre al centro dell’analisi una donna omosessuale, piuttosto che un uomo eterosessuale, è funzionale allo scopo.
Lo sguardo su Lydia Tar è volutamente purificato da ogni forma di analisi pregressa: non vi è alcun tipo di valutazione misogina alla base del film, ma un rifiuto del binarismo di genere come sintomatico di uno stimolo o di una tendenza umana (che essa sia positiva o negativa). Proprio per questo motivo l’ultima fatica di Todd Field può essere considerata meritevole di vincere l’Oscar come “miglior film”. Per i temi trattati, e per l’imparzialità con cui si cerca di analizzare un problema astraendolo dal politically correct la pellicola è tanto encomiabile quanto però lontana dalla statuetta dorata. Un opera di questo calibro non è compatibile con il buoncostume hollywoodiano.
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