Perché Elvis può essere il miglior film agli Oscar 2023?
Un articolo di Lorenzo Santini e Niccolò Gualandris
Elvis è l’ultimo film di Baz Luhrmann, pirotecnico regista australiano autore di Romeo + Juliet, Moulin Rouge e Il Grande Gatsby.
La pellicola si inserisce di punta nella nuova ondata di “biopic” musicali che negli ultimi anni sta rimpolpando il botteghino dell’industria hollywoodiana (Bohemian Rhapsody, Rocket Man, Respect, The United States Vs. Billie Holiday, per citare giusto qualche titolo recente).
Un film che sicuramente non poteva passare inosservato e dal grande successo internazionale, ha suscitato pareri contrastanti tanto nel pubblico quanto nella critica, qui presentati da due punti di vista alternativi, per capire se effettivamente possa meritare la tanto ambita statuetta.
Perché non può esserlo (di Niccolò Gualandris)
Il film di Luhrmann dialoga con la vita già divinizzato Elvis Presley con l’obbiettivo chiaro di far letteralmente rivivere alle nuove generazioni l’impatto che le movenze, il canto, la musica del Re del Rock ebbero sul pubblico (bianco e puritano) degli stati uniti a fine anni ’50. Per fare ciò, oltre a tracciare il classico ritratto di ascesa e caduta della star di Memphis, il regista fa ricorso all’ armamentario tecnico sovrabbondante e circense che è il suo marchio di fabbrica e all’altrettanto rodato uso di musiche anacronistiche che possano “avvicinarsi” ai gusti del presunto giovane pubblico (l’electro-swing del Grande Gatsby è rimpiazzato da improbabili cover trap e Doja Cat).
Ciò che svetta, nel caleidoscopio di colori ed effetti visivi – veramente sovrabbondanti – di Elvis, è la performance di Austin Butler che si è quasi letteralmente voluto reincarnare in Presley, mutuandone timbro vocale, movimenti e look, persino portando tutto ciò fuori dal palco, in una metamorfosi da method acting “gone wrong” che invoca disperatamente l’Oscar.
Si sorvola sul trattamento riservato ai lati in ombra della vita di Elvis, sui quali chiunque può documentarsi e che vengono nel film colpevolmente spazzati sotto il tappeto. C’entrerà qualcosa il coinvolgimento diretto della famiglia Presley, alla quale sicuramente fa piacere perpetuare l’immagine santificata del pioniere del Rock che unisce nel culto l’America e il mondo, nel frattempo presentando questo brand anche alla generazione Z.
È già quasi un luogo comune prendersela con le biopic che punterebbero tutto sull’Oscar come migliore attore protagonista per il fortunato o sciagurato che si ritrova a dover trasformarsi nell’icona di turno. In questo caso la seppur degna di lode interpretazione di Butler, specie nei segmenti musicali, non basta a sorreggere un film che fa acqua da tutte le parti: dal comparto narrativo, tipizzato al massimo, alla performance poco credibile del comprimario Tom Hanks non al massimo delle sue capacità, fino all’aspetto propriamente tecnico, alla fotografia e il montaggio ubriacante, Elvis non arriva neanche vicino alle eccellenti biopic musicali di Walk the line (su Johnny Cash) o Love & Mercy (su Brian Wilson, mente dei Beach Boys), annegando nell’oceano di mediocrità cui sono destinati tanti altri esperimenti simili; non riusciti.
Perché può esserlo (di Lorenzo Santini)
Quando si parla di Elvis è sbagliato pensare di avere a che fare con un classico biopic, a maggior ragione con un classico biopic su una star della musica internazionale come quelli che negli ultimi anni hanno riempito le sale; pertanto sarebbe fuorviante richiedergli le caratteristiche classiche di quel genere di film. Elvis infatti, più che un racconto della vita del “re del rock”, è un tributo esplosivo e quasi religioso a una delle figure che più ha influenzato la cultura americana e non della metà del secolo scorso, rivoluzionando il mondo della musica con la sua chitarra, le sue movenze e la sua immagine inconfondibile.
Questa premessa è tanto fondamentale, quanto chiara e declamata dalla prima scena del film, anzi dai titoli di testa che mostrano subito il marchio di fabbrica del regista australiano Baz Luhrmann, che si muove da sempre in un’estetica ai limiti del kitsch, con giochi di colore, movimenti di camera e scelte scenografiche assolutamente senza compromessi. Non è possibile chiedere a questo tipo di cinema la fedeltà del docufilm e la coerenza assoluta alla figura storica di Presley, poiché lo obiettivo qui è un altro, mostrando la genesi e l’imporsi non di un cantante, non di un ragazzo geniale e provocatorio, ma di un fenomeno culturale e sociale che ha cambiato il modo di guardare la musica e lo show buisness.
In questo senso Elvis centra assolutamente nel segno e restituisce il ritratto della rockstar per antonomasia in modo unico e dirompente. Il racconto della vita viene fatto dal punto di vista dello storico e controverso manager di Elvis, il “colonnello” Tom Parker, figura posta a vero villain del film e responsabile tanto dell’ascesa, quanto, secondo una teoria sposata dal regista, del declino e dei fantasmi di Elvis. Questa scelta drammaturgica permette di entrare ulteriormente in connessione con il vero protagonista della storia, mostrando la lotta del suo genio artistico con le richieste del mercato, che il Colonnello insegue ossessivamente.
Impossibile non elogiare la performance di Austin Butler nel ruolo di Elvis: l’attore trentunenne non si limita a vestire i panni del cantante, ma ne sposa le posture, ne assume il timbro vocale e ne fa proprie le movenze, diventando in prima persona quel giovane di Memphis destinato a diventare un’icona. Guardando il film si ha l’impressione di star guardando il vero Elvis, non tanto per una qualche somiglianza somatica, ma per l’energia e la sincerità che la performance di Butler porta con sé.
Una nota di merito va fatta anche a Tom Hanks nei panni del Colonnello: per quanto il suo personaggio sia volutamente stereotipico e poco sfumato, Hanks si rivela sempre una certezza, un professionista polivalente e in grado di adattarsi ad ogni contesto. Qui l’attore riesce a portare perfettamente a termine l’obiettivo di rendere un personaggio controverso, misterioso, assetato di potere e manipolatore, ma anche fautore dell’impero monetario e mediatico che ruotava attorno alla figura di Elvis, senza scadere nel caricaturale.
Per quanto riguarda lato tecnico e musicale, la volontà del regista premessa in precedenza emerge palesemente: Luhrmann anche qui non scende a patti con il suo stile e tira fuori l’artiglieria pesante, giocando con colori accesissimi e saturi, l’uso molto carico del trucco e della prostetica, ed valorizzando elementi scenografici al limite dell’eccessivo. Se in precedenza questa peculiarità del regista non mi aveva mai conquistato, in Elvis il lavoro sulla componente visiva permette di evocare il carattere tributario dell’opera, ambientando la vicenda quasi in un mondo altro fatto di flash e di tonalità ubriacanti. Tutto questo mentre in sottofondo, oltre alle storiche canzoni del cantante, risuonano reinterpretazioni inaspettate e contemporanee di brani del passato, grazie alla presenza nella colonna sonora di Doja Cat, dei Maneskin, di Eminem e Dr. Dre, solo per fare alcuni nomi. Un esperimento rischioso, ma ben riuscito, che permette di giocare sul rapporto tra il tempo in cui si sono svolti i fatti narrati e il presente, unendo le sonorità inconfondibili del “re del rock” ai bassi dell’hip hop contemporaneo.
In generale Elvis si rivela un film tanto indulgente, dichiaratamente, con l’icona di cui parla, quanto audace nei modi e nella tecnica di produzione. Se possa effettivamente arrivare a vincere l’Oscar al miglior film non lo so, ma quello che è certo è che si è davanti ad un’opera variegata e raggiante, in grado di illuminare dall’interno il forse più grande fenomeno musicale del secolo scorso.
Perché “Triangle of sadness” può essere il Miglior Film degli Oscar 2023? – Aratea Cultura