“Nova” di Fabio Bacà – Premio Strega e Premio Campiello 2022
Nova (edito da Adelphi nel 2021 e finalista al Premio Strega e al Premio Campiello 2022) è la risposta ad ogni esigenza di un lettore consapevole. All’interno di questo romanzo, che in conformità con il titolo definirei come un “enorme esplosione nucleare”, possiamo trovare tutti gli ingredienti necessari a rendere un libro eccezionale, ma anche qualcosa di più. La penna di Fabio Bacà può creare dipendenza, intrappolandoti all’interno di una storia così surreale e criptica da diventare profondamente verosimile.
La lettura si muove, sostanzialmente, su due piani profondamente intersecati tra di loro: il primo, di stampo narrativo, ha il compito di traccia le linee di un intenso intreccio, il secondo, filosofico-antropologico si innesta prepotentemente sul precedente, aprendo le porte ad un’ermetica riflessione sul binomio uomo-violenza. Il risultato finale è la creazione di un ibrido dalle proporzioni esemplari, in cui entrambi gli aspetti sono perfettamente bilanciati nella creazione di un prodotto che, a mio avviso, è capace di dare al lettore quella rara sensazione di confusione e angoscioso smarrimento, che solo un autore padrone delle sue capacità stilistico-espressive, può realizzare.
Trovare la via o smarrirla per sempre ? La metamorfosi di Davide
La vicenda narrata è costruita attorno al personaggio di Davide, un uomo semplice, comune, dai tratti quotidiani. Professione neurochirurgo, vive a Lucca con la moglie, Barbara, professione logopedista e il figlio Tommaso, adolescente alle prese con gli ordinari drammi del crescere. La fisionomia del protagonista è quella di una persona passiva nei confronti della vita: “geneticamente inabile alla violenza”, è incapace di affrontare il conflitto, e proprio per questo subisce, senza opporre resistenza, i piccoli soprusi quotidiani che, giorno dopo giorno, lo colpiscono. Percorre con cautela la sua esistenza, auto-convincendosi che la totale avversione verso ogni forma di violenza sia la via migliore per vivere.
Per quanto lo riguardava, Davide aveva sempre pensato che l’umanità fosse uguale a se stessa dall’inizio dei tempi: porzioni di crudeltà, eroismo, viltà, idiozia, ignoranza, bontà, empatia, sensibilità e di altre qualità più o meno edificanti erano distribuite in dosi variabili tra gli umani, ma sovrintese da una fondamentale, per quanto accidentata, disposizione al bene.
Fabio Bacà, Nova, Adelphi, 2021 (pag. 64)
Tale equilibrio si configura, nella sua fragilità, come un “castello di sabbia” destinato a dissolversi al cospetto di quell’alta marea che è la realtà di un mondo in cui la violenza è alla base dei rapporti sociali. L’evento epifanico che lo costringe all’autocritica, dando adito alla metamorfosi, è la alla visione della moglie, Barbara, aggressivamente molestata da un uomo all’interno di un ristorante, sotto gli occhi del figlio. Davide vuole reagire, ma non può: la sua psiche lo paralizza rendendolo inerme, spettatore impotente del disagio e della paura che trafigge la donna amata. La reazione che avrebbe voluto (anzi, avrebbe dovuto) avere è esemplificata da un uomo misterioso, che con una disturbante azione di violenza, allontana e minaccia il molestatore, per poi svanire nel nulla.
Il logorante senso di impotenza vissuto dal protagonista risulta essere la chiave di volta del romanzo: da quel momento la narrazione si prolunga in un climax ascendente che veicola la progressiva metamorfosi di Davide. L’uomo misterioso diventa per lui una vera e propria guida spirituale, che, sollevando il velo di Maya, lo orienta verso una vita nuova, libera dalle repressioni degli impulsi e atta a prendere coscienza e controllo del proprio potere, esprimibile in piccole, incisive manifestazioni della propria violenza. Il viaggio di Davide è quello di un uomo che prende possesso della sua parte animale, senza reprimerla ma decidendo di sfruttarla, a suo favore, quasi per potersi sentire burattinaio della sua quotidianità, e non più una semplice marionetta assoggettata al potere altrui.
Sai bene che ho sempre considerato indecente il paragone tra il cervello, l’incantevole strumento che fa di noi quello che siamo, e la sbrigatività volgare della violenza» disse. «Ma ora ho capito che non esiste tempo più sprecato di quello passato a stupirsi dell’aggressività altrui. L’unico modo di inceppare il meccanismo banale e ripetitivo della follia umana è accettare quello che siamo, Barbara. E io avevo semplicemente paura di essere ciò che sono
Fabio Bacà, Nova, Adelphi, 2021 (pag. 206)
Fabio Bacà, nel raccontare questa storia, sovverte drasticamente il topos canonico dell’assoluta “nonviolenza”, portando alla luce una questione filosofico-antropologica a tratti controversa, ma comunque estremamente affascinante: la violenta istintualità, intesa come quell’innato comportamento animale che prescinde dal raziocinio e dalla condizione sociale, è qualcosa che appartiene ad ogni uomo, un potere ambiguo che va dominato, per evitare che esso stesso finisca per dominarti.
La storia si pone, a mio parere, in sostanziale continuità con il tradizionale tema letterario della metamorfosi, manifestando però dei tratti volutamente ambigui. Il mutamento di Davide (sia fisico, ottenuto attraverso sessioni massicce di sport, sia morale e psicologico, tradottosi in una nuova concezione del sé in rapporto al mondo), non può essere assoggettato ne alla categoria di “cambiamento in positivo” né a quella di “cambiamento in negativo”.
L’autore si limita a descrivere questo processo, senza forzare alcun tipo di giudizio: questo arduo compito è lasciato ad un lettore destinato a chiedersi, senza ottenere mai una risposta, se la storia del protagonista sia quella di una più profonda padronanza delle oscure pulsioni della psiche, o se si tratti di un pericoloso percorso di disumanizzante regressione (e quindi di una svalutazione sostanziale) della figura umana.
Tale dilemma è capace di innestarsi, preponderante, all’interno della trama, lasciando, al termine della lettura, un profondo senso di vuoto e di angoscia nello spettatore stesso. Fabio Bacà si dimostra in questo non solo un astuto paroliere ma anche un abile pensatore, capace di proporre un enigma privo di alcuna soluzione razionale.
La violenza era ripugnante.
Eppure era inevitabile.
Era inconcepibile.
Ma era produttiva.
Era vile.
Ma ti faceva sentire vivo.
Era disumana.
Eppure profondamente, indissolubilmente umana.
Come avrebbe risolto questo gigantesco koan?
Fabio Bacà, Nova, Adelphi, 2021 (pag. 228)
L’istintuale violenza: ritratto di un equilibrio precario
La società moderna reprime gli istinti che non comprende o che non le fanno comodo. Inibisce l’aggressività individuale perché ritiene che confligga con l’idea di civiltà. Gesù è vissuto duemila anni fa: la sua morte violenta ha redento i nostri peccati. Abbiamo decantato la parabola del martirio di tutti i suoi contenuti edificanti, dimenticando che è stata la cruda violenza a restituirci il significato di quel sacrificio.
«Dio ha creato il mondo con la violenza
L’universo si è espanso nel nulla in virtù della pura violenza.
Le nostre anime sono state salvate da un atto di violenza»
Fabio Bacà, Nova, Adelphi, 2021 (pag. 135)
Il macrotema attorno a cui si sviluppa il nucleo più profondo della narrazione è il rapporto vigente tra l’istintuale attrazione dell’io verso la violenza, e la società moderna, in cui l’uomo è inserito e vive. La tesi esposta da Diego, guida spirituale del protagonista, vuole mettere in crisi (e forse, in parte, ci riesce) l’idea moderna di una società in cui la tendenza alla violenza è vista come un istinto da reprimere a fronte del bene comune. Sebbene i presupposti siano sostanzialmente legittimi, tale visione si scontra con quella realtà antropologica che identifica l’aggressività come una caratteristica umana che affonda le radici nelle origini della nostra specie.
In quest’ottica l’aggressività connaturata all’uomo non va repressa ma sfogata, diluendola però attraverso piccole “manifestazioni del proprio potere sugli altri”. Davide, nella seconda sezione del romanzo, abbraccia questa nuova filosofia, aprendosi ad una percezione del mondo atta a sovvertire la sua sostanziale passività nei confronti della vita: riesce finalmente a reagire a tutti quei soprusi, esemplificati dal minaccioso atteggiamento del vicino di casa, che fino a quel momento lo avevano logorato dall’interno.
Ma la violenza è un potere ambiguo, che ha bisogno di essere controllato: se non lo domini, dominerà te. E non puoi controllare qualcosa che neghi a priori. Non puoi gestire una parte di te che rifiuti persino di concepire. Per convivere con il Potere devi nutrirlo e addomesticarlo. Decine di secoli di culto della pace, del perdono e dell’amore si sono raggomitolate nella più stucchevole delle utopie: guarda a che punto è il mondo dopo duemilacinquecento anni di buddhismo, danze sufi e yoga Vipassana. È inutile tentare di comprimere la tua indole fino a ridurla a un innocuo accessorio della way of life occidentale. Altrimenti la violenza riemergerà, e nel momento peggiore. Mentre discuti con un fratello o un cognato. Mentre litighi con un socio. Mentre tua moglie alza la voce e su quel tagliere c’è un coltello a lama lunga.
Fabio Bacà, Nova, Adelphi, 2021 (pag. 136)
A questa teoria si contrappone però un aspetto che solo in un primo momento passa in “sordina”, affermandosi poi come la metafora più potente e incisiva dell’intera narrazione: l’immagine del boomerang. Ogni azione feroce, ogni singola manifestazione del nostro potere, deve considerare una variabile di estrema importanza, ossia l’esistenza del principio di causa ed effetto: l’istintualià alla violenza e il rifiuto di reprimerla va applicata ad ogni essere umano e non solo al singolo individuo. Dunque va tenuta in considerazione la possibilità che ogni atto di dominazione possa scatenare una pericolosa reazione a catena, destinata a rendere “vittima” a sua volta l’identità che in principio si era imposta come “carnefice”.
È proprio su questa spiazzante constatazione che il romanzo si chiude, con un finale aperto a molteplici linee interpretative. Al lettore, terminata la fruizione, Bacà decide di non voler insegnare sostanzialmente nulla: le morali convenzionali e consolatorie le lascia ad altri autori e forse, anche, ad un altro pubblico.