“Niente di vero” di Veronica Raimo – Premio Strega 2022
“Possono toglierci tutto tranne i ricordi, si dice. Ma chi mai sarebbe interessato a questa espropriazione? La maggior parte dei ricordi ci abbandona senza che nemmeno ce ne accorgiamo; per quanto riguarda i restanti, siamo noi a rifilarli di nascosto, a spacciarli in giro, a promuoverli con zelo, venditori porta a porta, imbonitori, in cerca di qualcuno da abbindolare che si abboni alla nostra storia. Scontata, a metà prezzo. La memoria per me è come il gioco dei dadi che facevo da piccola, si tratta solo di decidere se sia inutile o truccato.”
Per avvicinarsi a Niente di Vero di Veronica Raimo, scrittrice, traduttrice e sceneggiatrice, bisogna partire dal titolo. Beffardo e apparentemente infantile visto il gioco di parole, suggerisce con disinvoltura la chiave ermeneutica di un romanzo imperniato sulla menzogna. Al suo interno non c’è lo scavo psicologico che il lettore sia aspetta da un’autobiografia o da un memoir familiare, ma la costruzione di un mondo parallelo e parassita, che attinge dalla realtà per poi risputarla fuori tra le pagine, irrimediabilmente alterata.
La menzogna e il riso come sortilegio
Come spesso accade nella nostra letteratura in tempi recenti, la famiglia occupa un ruolo cardine all’interno della narrazione: è nel suo abbraccio soffocante che la protagonista impara precocemente l’arte del produrre finzioni. Ogni suo membro, infatti, si dedica a una personalissima pratica di distorsione degli eventi; tra una madre asservita all’ansia come unica divinità e un padre germofobico e complottista, nonché preventivamente privo di qualsiasi entusiasmo per la vita, Veronica recepisce presto l’imperativo implicito della contraffazione.
Mentire è per lei una risorsa, un modo per appropriarsi della libertà che le viene tolta nelle mille sfumature – neanche troppo subdole – della privazione, come il divieto di praticare sport all’aperto o di ingerire prodotti alimentari confezionati dopo il disastro di Chernobyl. Inventare una propria versione dei fatti diventa dunque un metodo di sopravvivenza in un’enclave familiare che già ne produce molte, una più opprimente dell’altra: alla protagonista resta da capire come fare a imporre la propria.
In un celebre saggio del 19831, lo psicoterapeuta James Hillman sostiene che le storie sono il principale strumento con cui gli esseri umani elaborano i traumi. Rielaborare con il racconto, scrive, è un’azione curativa che cauterizza, permettendo la guarigione dell’anima. Niente di vero non smentisce la teoria hillmaniana, ma la ribalta: più che superarlo, la storia schernisce il trauma tramite un’ironia acuta e dissacrante, esorcizzandolo.
Al di là delle evidenti difficoltà del clima familiare, l’opera è costellata di tematiche dal potenziale fortemente drammatico come l’insonnia cronica, la fine di una relazione o l’aborto, ma nessuna di queste viene affrontata con un approccio autocommiserativo o tragico. Verika o Oca – così viene ribattezzata dai parenti, come se anche il nome proprio dovesse essere in qualche modo storpiato, distorto – è implacabile nel descrivere le esperienze rivestendole di satira, un’arma che rende il paradosso del quotidiano digeribile.
“Facciamo che sono io”
La tattica della narratrice omodiegetica si delinea così come un costante schivare la realtà per poi affrontarla, di striscio, solo dopo averla filtrata, riletta in chiave comico-assurda. Ne consegue un atteggiamento ambivalente, in parte incredulo di fronte al fatto concreto: Veronica è talmente abituata a confezionare una propria versione che pare spesso straniata di fronte alle constatazioni meramente pratiche del prossimo. Il meccanismo si fa evidente nella scena esilarante in cui il suo ex fidanzato la convince di non essere vergine, mentre lei credeva il contrario. Per utilizzare un’espressione tipica del padre della protagonista, “siamo al paradosso”: l’artificio ben congegnato della menzogna si contrappone a uno sguardo spiazzato, che non riconosce nemmeno sé stesso.
“Facciamo che sono io” si legge per l’appunto in un passo cruciale del romanzo. Ogni giorno Veronica accetta passivamente un’identità verso cui si dimostra scettica: è, per citare l’autrice, un personaggio sottodeterminato, la cui agency si dimostra unicamente nell’utilizzo dell’ironia, che è un pretesto per annientare la verità, per sabotarla come invece le è impossibile fare al di fuori del campo semantico verbale. Sotto questo aspetto, la voce femminile di Niente di vero si discosta radicalmente dalle figure femminili che l’industria culturale ha presentato al pubblico negli ultimi anni. Basti pensare a Mrs Maisel, stand-up comedian della serie omonima, donna che, come Veronica, sfrutta la comicità per fare presa sul reale. Nonostante questa somiglianza di base, Midge Maisel si discosta dalla nostra per il carattere forte e il piglio deciso di fronte a situazioni critiche come un divorzio o la mancanza di mezzi.
Tra la folta schiera di madri, mogli e compagne che finalmente si svincolano dal ruolo di subalterne imposto dal patriarcato, Raimo inserisce un personaggio talmente schiacciato dalla sua stessa psiche da non saper più discernere il vero dal falso. Numerosi sono i punti del romanzo dove, con un escamotage metaletterario, si discute del labile confine tra vita e menzogna, e di come spesso finiscano per coincidere. Contrariamente a quello che si dice di solito il diavolo, afferma la protagonista, fa sia le pentole che i coperchi per chi è in grado di inventare. Ecco che, per mitigare i propri disagi, come per esempio la stitichezza cronica che si presenta puntualmente prima di ogni evento pubblico, Veronica intesse le giustificazioni più assurde:
“La scusa mi venne naturale, ero afflitta da una forma di narcolessia invalidante. -Si è manifestata cinque anni fa. Capita così, mi addormento colpo. Bum. Crollo. Apprensione e sbigottimento tra gli astanti. Non è mai importante la credibilità ma l’autosuggestione. Finisco per convincermi che non sto mentendo, esiste una versione della mia vita in cui soffro davvero di narcolessia invalidante. Mi prometto di fare ricerche sull’argomento appena possibile”.
Scrivere: deformazione e creazione
Uno dei presupposti di base di questa macchina dell’invenzione, letteraria quanto esistenziale, è il rifiuto di accettare il mondo così com’è. Raccontare è in primis fuggire per creare distanza, giudicare con la spietatezza un po’ ipocrita di chi osserva senza mai prendere parte davvero, nemmeno al proprio quotidiano. Veronica si impegna per non appartenere a nessuno e a nessun luogo: vive ospite in case altrui, tronca amicizie senza sapere bene perché. Come Nina, la protagonista de La vita adulta di Andrea Inglese – un altro romanzo di recente pubblicazione, finalista al Premio Bergamo 2022 -, anche il personaggio della Raimo fa del proprio smarrimento un metodo.
È un habitus il suo, sostanzialmente nichilista, causato non dalle caparbie velleità anticonformiste di Nina, ma dalla perplessità nei confronti di qualsiasi valore. Per Veronica il bicchiere non è né mezzo vuoto né mezzo pieno, semplicemente non esiste. Tanto vale crearlo da zero, come se gli accidenti fossero un parto bislacco della mente, costringendo il lettore a chiedersi se effettivamente ci sia qualcosa di autentico nella storia narrata. Leggendo il romanzo infatti si ha l’impressione di perdersi tra le pieghe delle omissioni, dei rimossi e delle iperbole, come se si fosse vittime di un depistaggio. A peggiorare la situazione contribuisce l’omonimia tra la protagonista e l’autrice: il gioco identificatorio, per quanto semplicistico e riduttivo, affiora inevitabilmente in superficie.
Forse domandarsi quanto la vita dell’autrice sia stata riversata nel romanzo ha poco senso, anche perché Veronica Raimo si dimostra un falsario degno di Tom Keating. Potrebbe risultare più produttivo riflettere sul potere vivificatore della scrittura, un’arte in grado di mostrare l’ambiguità del reale e la sua polivalenza realizzandone una copia altrettanto proteiforme e inattendibile. Niente di vero cristallizza il dubbio intrinseco che Veronica – non è chiaro se il personaggio o la scrittrice, chissà – prova al cospetto della vita, e lo rende palpabile. Con l’efficacia di una prosa scaltra, cinica e soprattutto satirica, l’opera candidata al Premio Strega 2022 getta un’ombra di diffidenza sulle cose troppo serie (per citare Eco) e invita a smettere di compiangersi: qualsiasi lutto si può re-inventare, così come ogni criterio maieutico. Con il giusto acume è consentito ridere persino delle proprie bugie.
Riecheggiano tra le pagine le parole di Charles Kinbote, cervellotico protagonista di Fuoco Pallido di Nabokov, quando sentenzia: “(…) non preoccuparti per delle inezie. Una volta che le avrai trasformate in poesia, le cose saranno vere, e le persone avranno una vita”.2
Note:
1James Hillman, Le storie che curano. Freud, Jung, Adler, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2021
Vladimir Nabokov, Fuoco Pallido, Milano, Adelphi, 2002, pp, 210-211
Bibliografia:
James Hillman, Le storie che curano. Freud, Jung, Adler, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2021
Vladimir Nabokov, Fuoco Pallido, Milano, Adelphi, 2002
Veronica Raimo, Niente di vero, Torino, Einaudi, 2022 (ed. digitale)
Sitografia: