Rimosso della coscienza e ricerca di salvezza in “Misericordia” di Manuel Omar Triscari
di Angela Anconetani Lioveri
“È impossibile comunicare ad altri quel che proviamo dentro di noi in un momento qualsiasi della nostra vita, ciò che ne costituisce la verità, il significato, la sua sottile e penetrante essenza. Sicché non ci resta che disarticolare realtà e linguaggio e così, scollando parole e cose, scoprire che la verità è solo un mero trucco verbale”: con queste parole Manuel Omar Triscari, il cui ultimo libro è Misericordia (edito da NullaDie, 2024, nella collana Apta mihi), spiega come sia nata l’avvincente storia del suo romanzo, sospesa tra differenti dimensioni spazio-temporali, tra il male oscuro di un protagonista apparentemente senza nome e la sua missione di salvare qualcuno salvando al contempo se stesso. Il lettore viene così trascinato da quello che sembrerebbe in apparenza il nostro mondo verso un’altra realtà spazio-temporale a cui si accede dalla cantina di una casa di riposo, popolata da fantasmi, nani simili a ufficiali nazisti e rimossi psichici del protagonista.
In questa dimensione altra la “misericordia” del titolo viene declinata a più livelli. Diventa progressivamente slancio vitalistico verso una possibile felicità, ma anche ricerca di salvezza fisica: “nell’opera sono in gioco vite umane”, spiega l’autore, “in primis quella del piccolo Mario, orfano nel quale il protagonista specchia la propria esperienza esistenziale, nonché suo bambino interiore”. Il protagonista infatti non ha un nome perché, capiamo nel corso del romanzo, è sempre Mario, il bambino da adulto, o l’adulto che si rivede bambino. Quanto più infatti il narratore si sente irrisolto e dalla personalità frammentata (“Ho il cuore avvolto nel filo spinato e ogni battito è un grido che mi strazia il petto”, si legge nelle prime pagine), tanto più compare nel racconto Mario che, dal basso dei suoi dieci anni, obbliga il protagonista a confrontarsi col suo io scisso e con quella che per lui è stata, nell’infanzia, l’età del ristagno. Se questo costituisce il piano morale del romanzo, esistono poi anche degli ulteriori strati narrativi: quello ontologico, di circostanze e avvenimenti che appartengono a cronotopi diversi (da una parte la casa del protagonista, l’ospedale, la casa di riposo, l’isola in cui le vicende verosimili sono ambientate, dall’altra la cantina tramite la quale si accede a una dimensione fantastica), e quello etico, dove, nel rapporto con gli altri, si configura anche il tema del materno, rappresentato nel romanzo dagli unici personaggi femminili, Caterina (l’infermiera che cura il protagonista accompagnandolo per tutta l’avventura) e il fantasma di Laura Sabba (mamma di Mario).
Lo stile, piano e immediato, mostra continuità con la materia trattata. Seguendo i criteri della retorica classica si può affermare che, con un chiaro intento di leggibilità, il tono si plasma agostinianamente sulla forma dell’ampio pubblico. Ricorrenti, una vera spia linguistica, le similitudini conradiane (Conrad è un dichiarato riferimento nella formazione dell’autore) di tipo connotativo. D’uso meramente retorico ed estetico, procedono per addizione di senso al fine di corroborare il significato già esplicato denotativamente, come nei seguenti casi: “si strinse nelle braccia, come a ripararsi da un brusco calo della temperatura”, “Ci guardavamo negli occhi senza dire nulla, come anime semplici che condividevano un segreto troppo grande”, “La stanchezza mi avvolgeva come un’armatura”, “un sorriso amaro come il caffè che fumava nella tazzina in mezzo a noi”, “come guardare un treno mentre ti arriva addosso” “un insieme disordinato di sillabe come a volte avviene nei sogni”, “in una perfetta situazione di stallo, come un gruppo di bambini che giocano al fazzoletto”.
Non mancano elementi narrativi tratti dalla più classica delle storie horror (il corvo, “una nuvola di nebbia bianca e fredda come la morte”, la cantina misteriosa, il passaggio rapido di un’ombra, le mosche, i sogni come segnali premonitori, la voce di Mimì Mangano, la pioggia nera di morte) e dalla cronaca giornalistica (gli articoli di giornale sull’incidente e sulla vita di Mimì Mangano al capitolo 8). Se i dettagli horror non costituiscono solo un sogno del protagonista ma sue vere e proprie emergenze dell’inconscio ed effetti dell’intersecazione di dimensioni diverse (“un luogo dal quale puoi vedere l’una e l’altra parte”), essi sono inoltre anche segni di un certo relativismo epistemologico. Se ne ottiene pertanto un racconto a tratti anche pluristilistico e multisfaccettato, capace – grazie all’eclettismo e alla versatilità della penna che l’ha generato – di suscitare nel lettore un effetto di spaesamento dato dal continuo salto tra reale e non reale, psicologico e verosimile.
La vicenda, deduciamo da alcuni indizi, è ambientata in un’isola, probabilmente l’Elba: ne sono spia il cognome Sabba della madre di Mario, tipico della località elbana di Rio, e da “Annecy”, nome sia di una città sia di un ex Rappresentante del Popolo e Membro del Consiglio degli Anziani a Parigi appartenente a Les Amis de l’Honneur Français, loggia massonica fondata nella città di Portoferraio nel 1803. Interessanti le notazioni cromatiche. L’uso del colore, capace di creare atmosfere legate allo stato d’animo dei personaggi, vede una forte prevalenza del blu, non a caso colore associato alla notte: “Nel mio sogno la notte è blu”. D’altronde uno dei titoli alternativi a Misericordia, ci dice Triscari, era Una notte (insieme anche a Un bisbigliare sommesso), in riferimento al luogo simbolico del sonno e del libero fluire dell’inconscio (“Perché a volte i sogni sono un ponte tra il nostro mondo e quello dei morti e a percorrerlo si rischia di impazzire”). E sono blu, nel corso del libro, anche l’ombra, la penombra, il cielo, la sera di agosto. L’orizzonte invece viene suggestivamente descritto come una mescola di diverse sfumature: “ormai era diventato una linea arancione stretta tra il blu scuro del cielo e il grigio puntinato di luci della città”, mentre a legare tutti i personaggi c’è una sorta di invisibile filo di “un palloncino rosso che vola via nel cielo scuro”. Sono però le riflessioni sui colori associati ai vissuti del protagonista le più degne di nota, chiave d’accesso per il senso di inconsapevolezza e vacuità che lo avvolge: “l’odio è bollente rosso, l’indifferenza è gelido blu. E io? Qual è il mio colore? La mia temperatura? Sono gelo o calore, calma o tempesta? È l’Odio a comandare? E l’indifferenza ne è sua complice?”, “Caddi dentro il nero assoluto di un sonno senza sogni”, “Poi un intenso lampo di luce giallo sfavillante mi piombò sulla testa e mi accecò. Infine un enorme vuoto nero-viola mi inghiottì e sprofondò”.
Fomite del racconto sono di certo la depressione e l’inguaribile malessere del protagonista che prendono la forma di un costante cupio dissolvi (“volevo solo che qualcuno mi infilasse un ago in vena facendomi chiudere gli occhi una volta per tutte”). Eppure non mancano i momenti di svolta e rinascita (“decidemmo che era tempo di combattere l’orrore”, “per la prima volta in tutta la mia vita avevo un ruolo”, “Era il primitivo e vero risveglio dei sensi e della capacità di percepire ciò che avevo intorno”), sebbene il male sembrerebbe vincere sul bene, l’odio sulla speranza.
Ma qual è, infine, il senso della storia? Le ipotesi non possono esaurire le molteplici letture possibili, ma si può sostenere che nel romanzo il male sembra prevalere come un ineluttabile morbo. Proprio quando il protagonista infatti è riuscito a capire come mettere apposto i pezzi della propria vita (o quantomeno ha individuato quelli giusti), in quel momento interviene sulla scena Mimì Mangano, il cattivo, facendo inevitabilmente precipitare i fatti in un baratro senza ritorno. Tutto di nuovo vacilla e sfugge al controllo. C’erano state tuttavia, per il lettore attento, delle anticipazioni di quest’esito che in apparenza stupisce per la sua crudezza: solo a pagina 20 il protagonista cita giorno del suo funerale, poi Mario – vedendogli in viso una cattiva cera – allude ironico a un ipotetico tir che lo ha investito, l’Odio parla di “dare l’anima” e la prova che sta per fronteggiare viene definita, in una climax, “l’ultima, la totale, la definitiva”.
Diverse sono le domande che restano in sospeso, gli anelli che nella trama non tengono: chi sono i protagonisti dell’ultimo capitolo? Perché il protagonista muore? Forse proprio per svolgere il suo compito voluto dal destino: una possibile lettura ci direbbe che è nella morte che trova la vera ragione alla sua infima esistenza. È un predestinato, e la sua depressione non è stata che un pretesto, un McGuffin che l’ha spinto a ferirsi, andare in ospedale, incontrare Caterina (ultima speranza di mettere in salvo il bambino), elevarsi a una condizione ulteriore post mortem (la sezione centrale del libro non è che un mondo di mezzo tra vita e morte), per poter poi, da ultimo, entrare nel mondo di Mangano (da vivo non avrebbe potuto) e lottare al pari del Male. In fondo ogni storia necessita di un modo per finire, vaga alla ricerca di una conclusione, anche quando il protagonista – come in tal caso – la completa morendo. È proprio nel funerale finale, così estraniante ma anche fatale, che tutto trova il suo proprio posto. Forse non importa se sia morto il protagonista o suo padre, o se ne siano andati entrambi. Si potrebbe intendere come una cerimonia collettiva di tutti i personaggi, nonché un congedo dalla vicenda. Un rito di conclusione della vita così come la scena finale conclude l’opera.
Se dunque il narratore muore, come può dire “mi si accappona ancora adesso la pelle a pensarci”? (p. 102). Tale riferimento metatestuale ci permette di riflettere sul narratore del romanzo, che non coincide con l’autore, ma – verrebbe da pensare durante la lettura – nemmeno con il protagonista. Al narratore sono infatti attribuiti anche interventi metacomunicativi di commento alla diegesi stessa che lo rendono un mediatore tra il mondo della finzione e il destinatario: la personalizzazione del narratore (in narratologia “non rappresentato”) si realizza tra le due opposte polarità rappresentate dall’insistenza sul Tu mediante allocuzioni al destinatario, o sull’Io, ovvero all’individualità dell’autore che s’impone come giudice o interprete di fatti e comportamenti. D’altro canto il narratore di Misericordias’identifica con il protagonista della vicenda dalla quale può solo avere quel tanto di distacco che è permesso dalla distanza temporale tra i fatti (narratore rappresentato e io-protagonista). Notiamo anche come in alcuni passi esponga eventi che gli sono estranei o si sono svolti in precedenza: in questi casi più che esprimere sé stesso in rapporto con un’azione, rammemora e deposita i ricordi, svolgendo una funzione diegetica, non mimetica. In altre occorrenze non si rivolge a un interlocutore, anche silente, posto sullo stesso piano della finzione, ma direttamente al lettore destinatario dell’opera: si parla in questo caso di io-testimone. Possiamo dunque concludere che si possono identificare due diversi narratori: il primo si pone nei confronti delle circostanze come io-testimone e appare solo nel decimo e ultimo capitolo, inserendo all’interno della propria diegesi il racconto affidato a un secondo narratore non rappresentato, l’io protagonista presente per la maggior parte dei fatti, dal primo al nono capitolo.
Potremmo quasi dire che la morte di quello che ormai sappiamo essere il Mario adulto sia una morte titanica: all’interno di una visione prospettica e unitaria della vita e dell’umanità come tutt’uno, prende gradualmente spazio nell’opera una prospettiva di salvezza concepibile solo in chiave sociale. Si celebra così nel finale l’insegnamento più autentico del libro, una morale di riscatto collettivo dei “dimenticati” e delle nostre parti rimosse, “Avrei dunque cercato di salvare Mario e Mario avrebbe salvato me, perché è così che l’umanità può sopravvivere a sé stessa: salvandosi reciprocamente”.
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