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Miriam e Carla, fra le altre – Un racconto di Stefano Bartolomeo

Luciano. Gli sembrava che il mare lo chiedesse indietro dalla comunità degli uomini. L’alito plumbeo del cielo insisteva sopra il dorso dei gabbiani che marcavano la costa rasenti la cresta dell’acqua. La luce cangiava il cupo blu dell’orizzonte in un verde- azzurro. Dal porto nascosto grossi bastimenti prendevano il largo per terre lontane e il suo cuore spesso era a bordo. Eppure, ripensava – proprio nel mezzo della tragedia recente di un precipitoso trasferimento ad altro ospedale – le aveva chiesto di rivedersi ad amara esperienza conclusa. Sì. Lo aveva preteso da Marta, dai suoi occhi ancor vivi di una mestizia remota per qualcosa che, andato storto, le smascherava il baratro, sospesa dentro l’abitacolo stretto di un’esistenza allora giudicata senza confini quando, tornata nel suo paesino balneare, era andata tenera sposa all’avvocato G., da tutti invidiato per il delicatissimo fiore che dalle mani di una Tyche distratta era scivolato tra le sue braccia. L’avvocato riteneva di essersi congiunto a una delle Nereidi, tale era la sua bellezza. Le aveva imposto tre figli e lei, docile, aveva donato, nell’evolvere di una favola, il primo, Edoardo, il secondo, Ermanno, e l’ultimo, Ettore, guasto nell’aspetto e nella mente: un sopruso bello e buono, imperdonabile errore. Ammutinata la Legge a suo favore, il marito le aveva portato via Edoardo ed Ermanno sperando che Marta scomparisse insieme al suo Ettore. Così si ritrovava lungo le vie umide di salmastro, a spingere la carrozzella su cui sedeva il più piccolo scomposto e beffato. Sola, col viso contuso da un dolore sordo, aveva vagato spenta. Lei, un tempo faro di quel borgo marino. Un giorno, poi, l’avvocato G. era stato rinvenuto bocconi, a mangiare la terra senza appello. I suoi due angeli avevano fatto ritorno dietro la carrozzella dell’amato Ettore, ma sul volto di Marta resisteva un’espressività minima e monocorde.

«Sono i calcoli alla cistifellea» aveva promulgato il medico ritenendoli, in fondo, responsabili di un ampio malessere. «Vanno asportati!» come a dettare la soluzione. Vi aveva prestato fede sino a varcare la soglia del piccolo parco nosocomiale quasi soffocato dal siliquastro. La chirurgia – altro che risoluzione – aveva dato la stura alle più nefaste conseguenze sino alla corsa inutile al Grande Ospedale nel frastuono ondeggiante della sirena. Marta a conclusione, non aveva potuto rispettare la promessa di ritrovarsi – placato che fosse il dannato turbinio di quei giorni – privando Luciano del sostegno ultimo cui reggersi nell’esile tempo residuo.

Luciano. Si mormorava che avesse sfiorato il terzo matrimonio e che perdurasse in un amore inconfutabile per le donne. Ne aveva intrattenute. Continuava a frequentarne almeno due, come sostenevano i dirimpettai dell’altra ala che sbirciavano di buon grado fra le tende spesse del suo appartamento. Il suo cuore, intrappolato in una secca, resistendo all’invito fatale dell’acqua, correva via dalla spiaggia: fremeva l’urgenza di un appuntamento con Miriam, al calar del sole.

Miriam. Raccontava di averla scoperta una domenica di Pasqua, anni addietro, destato dal ricadere carezzevole dei fianchi lungo la scalinata del Grand Hotel a picco sul lago. La ricordava andare incontro a quell’omino energico e maturo nel suo intero beige che, per lei, trepidava nei pressi della decappottabile rossa. Rifulgeva d’oro una coda pettinata a treccia, a spartire nel mezzo la grazia delle spalle, alte sulla leggiadria del bacino d’Afrodite che catturava chiunque in un lirismo gioioso di amante e di madre. Sorrideva all’omino che, spalancata la portiera, ne indirizzava l’incedere dritto all’interno della sportiva. Sarebbe stata quella l’omega della sua libertà. Se lo era ripromesso Luciano, nel canto fascinatore delle gambe flesse, intente ad accomodarsi in vettura: Miriam confiscata al mondo. «Ti amo!» gli aveva dichiarato ben presto al riparo di una spalliera di bossi lacustri e altrettanto lui aveva supposto corrisponderle ordendo un piano di fuga che ponesse fine a menzogne e sotterfugi. Intenzionato a rubarla a chi l’avrebbe sposata di lì a poco, aveva poi bruciato in fretta, in una vampata fatiscente, quella frenesia e le loro strade avevano mantenuto direzioni differenti configurando una relazione di stabile saltuarietà. Considerava ora come fosse riuscito a schivare il peggio con Miriam, a differenza di quanto era avvenuto, in parte, tra lui e Carla da quel loro primo incontro nell’estate dell’ottantadue quando lei l’aveva sconvolto nell’aula magna della facoltà in un tailleur blu da brava matricola.

Carla. Conservava ancora quell’ovale che, in virtù del lieve strabismo, le consentiva di sfuggire a una totale trasposizione ultramondana e accondiscendere a umane attenzioni. Era grato di quel tempo in cui l’obiettivo della Reflex lo aveva autorizzato a struggersi sul suo ritratto, soffermandosi nella serie infinita di scatti che narravano di una smania senza limiti repressa in un album fittissimo di primi piani. L’avrebbe convocata la sera stessa a casa sua, Miriam presente.

Tanto progettava imboccando quel corso che, nello spegnersi della luce del giorno, accendeva la propria: coppie di amanti sull’equilibrio di un sorriso, sulla precarietà di un irreprimibile balzo d’insofferenza reciproco, si muovevano nell’armonica incastellatura di quella strada, scena perpetua della vita esteriore, teatro di bianche donzelle che salgono lievi a fianco di padri e discendono, grossolane e brusche, a carico di un uomo qualsiasi, le scale di Nostra Signora dell’Amore. Quella strada, palco di grandi successi elettorali sanciti dagli strumenti a fiato e di personali disfatte dal fiato a volte violentemente stroncato sul selciato. Coppie. Non ne capiva il senso, lui che di donne ne «maneggiava», si diceva; lui che tra poco avrebbe avuto Miriam e Carla insieme, nel suo covo, al tramonto.

Danzava alto sul caseggiato il cielo notturno di marzo a nereggiare sulla corte interna dove il maestrale planava per rialzarsi sui tetti. Sballottato, su quel piazzale, come da un ipotetico giocatore all’altro, un piccolo barattolo di latta, in un’acustica cadenzata da indurre alcuni dei condomini a cercare giù qualche monello che si attardasse. Fra i curiosi, puntuale Mariano, il dirimpettaio, che affacciandosi veniva distratto da presenze femminili nell’appartamento di Luciano, attraverso le tende orizzontali parzialmente sollevate. Si mostravano, sino alle ginocchia, quattro gambe senza veli, al di sotto di un vecchio treppiedi in mogano: gambe di donna. Una statica allarmante come appartenessero a delle bambole, in forte contrasto con l’insistente girarvi in cerchio di due omologhi segmenti maschili: Luciano, in rotazione intorno ai suoi due astri. Dalla prospettiva discosta e più bassa Mariano non poteva agguantare altro e, dopo qualche minuto di pruriginosa attenzione, impotente, mollava la garitta abbrancando avido guizzi sparsi d’autoerotismo in un cortometraggio pruriginoso.

Luciano si rivolgeva alle sue due muse in un’astrazione progressiva, rievocando di Carmen, dei suoi venti anni; di Carol, amarognolo miele e primizia adulterina; di Florinda, su cui era scivolato incauto in un veleno reciproco. In quel deserto angoscioso un’oasi, Miriam e Carla. Non avevano preteso da chi nulla poteva concedere. Lo avevano sedato fra le braccia inerti cui lui si affidava invocando conforto nel folle volgere di un amplesso che generasse rinnovata quiete: la soluzione sperata. Erano già tanti anni d’indisturbati monologhi. Non poteva non esser loro riconoscente eppure:

«Non vi sembra di avermi adescato in lusinghe miserevoli?» erompeva, tormentato per l’inganno.
«Vi siete divertite alle mie spalle» ancora in un risentimento pericoloso.
«Avreste dovuto capire che non potevo andare avanti… Impadronirvi della mia vita…» e piangeva, riandando indietro a quell’ideale di pace che avrebbe voluto perenne proprio grazie al donarsi incondizionato alla sua parola, alla sua fisicità, al suo delirio di appagamento. In un deflagrare d’odio: «Puttane! Mi avete rovinato…» scrutandole esausto nell’immobilità dei loro occhi. Era stata la presuntuosa speranza di esser lui, questa volta, a condurre quel primordiale gioco d’azzardo con l’altro sesso.

Miriam e Carla. Sì, due manichini pieni d’aria, niente altro. Apparivano tali soltanto ora e arrossiva del tradimento subìto, dell’aspettativa delusa. Accanto a Miriam, nel tenderle una mano sulla dorata testolina, si accorgeva di vacillare. Avrebbe ricambiato la sua tenerezza? Miriam e Carla: scelte perché fossero duratura bonaccia che lo consegnasse clemente alla morte. E allora questo mendicare ancora una carezza? A tanto era valso il suo universo gonfiabile? Tornava forse a preferire quelle ore di sinistra uggia che insieme a Carmen, Carol, Florinda e altre aveva inscenato? A scuoterlo come una libecciata era una melanconia improvvisa per donne che non accettassero i suoi monologhi, la vanità delle sue lacrime, la sua sessualità stanca e a questo si aggiungeva il rancore verso Miriam e Carla, eterne nelle loro ciglia fittizie e inamovibili.

Bussava la mezzanotte e Mariano si riportava sul balcone per rilassarsi al fuoco dell’ultima sigaretta. Aspirava profondo e flemmatico fra refoli che contribuivano alla combustione del tabacco quando la luce accesa, su da Luciano, tornava a rapirlo: ancora le quattro gambe di donna al tavolo e l’uomo, lassù, che si bloccava. Fissava quello schermo nel buio quando forse un urlo, proprio da quella casa. Un altro. Le gambe delle due donne sembravano afflosciarsi. Scivolava giù in cortile il mozzicone del ficcanaso insieme a un grosso coltello lassù sul pavimento illuminato, poi l’oscurità. Non un’esitazione. Mariano si avventava sul telefono e denunziava con affanno il crimine alla Forza Pubblica che, pronta, sopraggiungeva.

Guidata dal condomino, l’Autorità, dall’alveo della notte, squillava al campanello di Luciano.
«Chi è?» domandò sereno, ancora in cravatta.
«Polizia», intimavano da fuori.
“Femminea vendetta!” pensò nel farli accomodare. Neppure le doverose presentazioni. Solo un sorriso mordace e accorato a indicare loro di proseguire avanti e, spavaldi, assicurato uno a guardia dell’ospite, giungevano sul luogo incriminato. Giacevano riverse Miriam e Carla, flosce, esangui, regalando un ghigno, indissolubile e giulivo, di sfida aggiudicata, secondo un’esperienza antica. Accanto a loro uno spropositato coltello: l’arma indiscutibile.

Tornando indietro uno dei signori, turbato: «Mi spiace ma due parole dobbiamo pur averle. In Questura».
«Certo!» replicò impassibile. «Concedetemi un momento. Stavo andando in bagno».
«Prego…» conciliò l’uomo che aveva parlato.
Ora piangeva dinanzi al grande specchio.
«In Questura? A discutere cosa? A verbalizzare?»
Bene! Che si parlasse allora di lui sino in fondo.
«Come volevi che andasse», questionava tra sé aprendo uno sportello per estrarre qualcosa da una scatolina.
«E poi, a ben vedere, sei un assassino», vagliava oltre, in un sorriso irregolare, trangugiando una pastiglia benedetta.

Qualche giorno più tardi, all’Istituto di Medicina Legale, avrebbero aggiunto che l’infelice, cadendo, nell’urto contro la vasca, si era anche demolito la milza.


L’autore:

Stefano Bartolomeo 
(Chirurgo generale con) una forte passione per la scrittura teatrale. 

https://www.arateacultura.com

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