“Mi limitavo ad amare te” di Rosella Postorino – Premio Strega 2023
Un articolo di Francesca Manzoni
Reduce da una vittoria, nel 2018, al Premio Campiello con “Le Assaggiatrici”, Rosella Postorino torna, dopo cinque anni, a concorrere in occasione della LXXVII edizione del Premio Strega con “Mi limitavo ad amare te”, edito nel 2023 da Feltrinelli. Quella che ci viene raccontata è la storia di Omar, Nada e Danilo, tre bambini costretti dalla guerra a scappare da Sarajevo verso l’Italia, lasciando in patria tutto ciò che apparteneva a delle vite che ormai non esistono più, tra cui figurano, drammaticamente, le loro madri.
Anche in questo caso l’autrice decide di avvalorare la narrazione ispirandosi a fatti reali, inserendo una cornice storica, tangibile e realistica. Se nel primo caso seguiamo infatti la vita di Rosa Sauer, una delle assaggiatrici di Hitler, che si muove sullo sfondo di una Polonia al termine della seconda guerra mondiale, nel suo ultimo romanzo le vicende a cui attinge riguardano prevalentemente le conseguenze socio-culturali del conflitto consumatosi in Bosnia ed Erzegovina tra il 1992 e il 1995. L’io autoriale appare ancora una volta silente, quasi chinasse umilmente il capo, lasciando spazio alle parole e ai pensieri di chi realmente l’ha guidata nel concepimento della storia.
Con “Le assaggiatrici” il lettore è accompagnato nel corso del viaggio da una prima persona, quella della protagonista stessa, che non solo racconta la sua vita, ma torna continuamente sui suoi passi, mettendosi in discussione e dubitando di tutto ciò che la circonda. Con Rosa Sauer (personaggio ispirato alla vita di Margot Wölk) entriamo nella psiche di una donna che mette a nudo le sue fragilità, quasi fossero un segreto detto a noi lettori, per permetterci, una volta terminata la lettura, di custodirlo. Lo sguardo univoco utilizzato nel 2018 si frammenta con “Mi limitavo ad amare te”, trasformandosi in una polifonia di voci che si intervallano, capitolo dopo capitolo, portando tre vite a separarsi e ricongiungersi continuamente. Nonostante venga utilizzata una terza persona onnisciente, la sensazione è quella di sentire le voci narranti dei protagonisti: riusciamo a percepire, con straordinaria chiarezza, ogni singola sfumatura del loro dolore, quasi si tratti una confessione in presa diretta.
Per le ragioni sopracitate, terminati i romanzi, quando si pensa a Omar, Nadia, Danilo, e Rosa Sauer si fatica a vederli come “personaggi fittizi” e non come “persone in carne ed ossa”. Un tratto caratterizzante dello stile di Rosella Postorino riguarda come, senza ombra di dubbio, riesce a liberarsi da quei i due estremi che caratterizzano la maggior parte della narrativa odierna: la sua scrittura evita sia l’uso di un personale sguardo sulla realtà, sia la totale e imparziale obiettività di giudizio. Ne risulta, con “Mi limitavo ad amare te”, un romanzo polifonico, che interiorizza il punto di vista di terzi, consentendogli di essere sfacciatamente contraddittori e antieroici, al punto tale da permetterci di comprendere a pieno non solo i loro tratti caratteristici ma anche la loro visione e la loro personale denuncia nei confronti della vita e del mondo.
Una letteratura che si apre alla storia dell’oggi: le conseguenze della guerra in Bosnia ed Erzegovina
Non è la prima volta che nel panorama della letteratura italiana si sente parlare di Bosnia ed Erzegovina: nel 2008 era stata Magaret Mazzantini con “Venuto al Mondo” (romanzo vincitore del premio Campiello nel 2009) a raccontarci il viaggio di Gemma e di suo figlio Pietro a Sarejevo, mentre nel 2021 Alessandra Carati aveva utilizzato questo conflitto come espediente per raccontare la sofferenza di chi fugge nel suo romanzo d’esordio “E poi saremo salvi” (classificandosi terza alla LXXVI edizione del Premio Strega). Nel 2023, Rosella Postorino propone “Mi limitavo ad Amare te”, affidando la narrazione alla voce di tre orfani, profughi di guerra, che vivono l’apice del conflitto attraverso gli schermi di un orfanotrofio italiano, in cui vengono condotti nella primavera del 1993.
Se nel caso di M. Mazzantini il “focus” era la visione in presa diretta del conflitto, nel caso di A. Carati e di R. Postorino il punto di vista è quello di chi fugge: nel primo romanzo è una famiglia bosniaca a scappare, volontariamente, alla ricerca di una salvezza in un Italia che si configura come la “terra promessa”, mentre nel secondo si parla di uno “sradicamento involontario”, voluto da terzi, a tutela di tutti quei bambini che non potevano essere arruolati e che rischiavano la vita sotto le bombe.
Con “Mi limitavo ad amare te” ci troviamo di fronte ad un romanzo che vuole, senza in alcun modo tutelare il lettore, riportare quel senso di incredulità, stupore e speranze disilluse che ha accompagnato la vita di Omar, Nada e Danilo, tre bambini che si sono trovati, senza neanche volerlo, privati delle loro madri e della loro vita. Il loro non è un viaggio della speranza, ma un “arrivederci” destinato a tramutarsi in un “addio” ad una terra e ad un senso di famiglia che non può sopravvivere ad una tale atrocità. Ed è proprio qui che l’autrice decide di sottoporci tre vite, capaci di configurarsi come tre approcci diversi alla medesima lacerazione
Il primo personaggio a dominare la narrazione è Omar, che, dopo aver perso le tracce della madre nel corso di un bombardamento, viene trasferito all’orfanotrofio di Sarejevo e successivamente, insieme al fratello Sen, in Italia. La sua è la storia di una speranza che non vuole, o forse non può, cedere alla rassegnazione. La sua nuova vita non riesce a compiersi poiché il ricordo della madre si configura come un’ancora che non gli permette di realizzarsi ed emanciparsi. Il suo profilo è quello di una caparbietà ostinata, che, con il passare del tempo diventa una radicale inabilità nell’inserirsi nel mondo. Il suo desiderio più grande è quello di tornare a Sarejevo, e qualsiasi forma di attaccamento all’Italia per lui non è altro che un tradimento, che non può, non deve, accettare.
[…] Nel futuro immaginato da Omar non c’era l’orfanotrofio, ma il seminterrato. Dopo la tragedia che li aveva colpiti, dopo aver rischiato di perdere i suoi figli per sempre, di certo la mamma non si sarebbe più separata da loro. In ogni caso, tornare al Ljubica Ivezić non sarebbe stato un problema. L’importante era poterla rivedere, avere la certezza che era viva. Loro stavano crescendo, sarebbero andati a lavorare per mantenerla, insieme ce l’avrebbero fatta.
All’interno dell’orfanotrofio Omar incontrerà Nada, una bambina che l’autrice decide di caratterizzare significativamente fin dalle prime pagine del romanzo. Lei infatti è diversa da tutti gli altri, a lei manca un dito: la sua mutilazione non è causata dalla guerra, ma da una violenza attuata dalla madre nei suoi confronti, quando ancora era infante. Quell’anulare reciso è allegoria di una mancanza più profonda, quella di un amore e di un affetto che la famiglia non è stata mai capace di fornirgli. Il suo sentirsi profondamente “difettosa” è qualcosa che si porta dietro dalla prima infanzia, e che continuerà a perseguitarla per la maggior parte della sua vita. In lei lo sradicamento è personificato dalla figura di Ivo, suo fratello maggiore, rimasto a Sarajevo per combattere.
Se il legame con la madre è sempre stato frammentario e inconsistente, quello con Ivo è forte, di protezione e affetto: proprio per questo motivo, nella prima parte del romanzo, l’immagine del fratello è trasfigurata nella sua mente, che cerca di conservare il suo volto, disegnandolo. Il suo arrivo in Italia, per ricongiungersi con la sorella, funge da spartiacque e delinea il principio di quel processo di disillusione che Omar ha sempre fuggito. Nada prende coscienza della sua solitudine, trovandosi rifiutata da una società che ha accolto il resto dei profughi: per lei non c’è una famiglia adottiva, una realtà alternativa alla guerra, ma solo la solitudine dell’orfanotrofio. La protagonista femminile si trova dunque collocabile tra due estremi: il totale rifiuto di una nuova identità e di un nuovo popolo, rappresentato da Omar, e il bisogno di sentirsi “altro” oltre che un profugo di Sarejevo, personificato da Danilo.
“Si sdraiò sul pavimento, aprì l’album Fabriano A4 e con una matita morbida cominciò a tracciare un occhio. Partiva sempre da lì: doveva guardare negli occhi il soggetto ritratto per riuscire a vederne il volto prima ancora che comparisse sulla carta. Non aveva una foto, solo i ricordi. […] La matita scivolava sul foglio e a Nada pareva di riconoscerlo. Pensò che, se era morto, lei non avrebbe di certo avuto una lapide davanti alla quale inginocchiarsi. Pensò che non le restava nulla di lui, tranne quel disegno.”
L’ultimo personaggio ad apparire sulla scena è Danilo, ma la sua storia è differente da quelle sopracitate. Il suo allontanare da Sarejevo è volontario: è infatti la sua famiglia a favorirne la fuga per permettergli un futuro e una vita migliore. La sua reazione allo sradicamento si configura come diametralmente opposta a quella di Omar: anche quando la madre e la sorella lo raggiungono in Italia, ricongiungersi con le proprie origini pare impossibile, quasi come se tra il passato e il presente si fosse creato un invalicabile muro di incomunicabilità. Cresciuto e integratosi nella società italiana, soffre l’idea di dover tornare, un giorno, a Sarejevo, e cerca, con ogni mezzo a lui disponibile, di sentirsi solo e unicamente italiano. Il suo rapporto con la famiglia non si basa dunque sul disperato bisogno di un contatto, ma su un progressivo e costante allontanamento: pur non essendo stato mai abbandonato dai suoi affetti, lui percepisce nello sradicamento una forma di tradimento.
A differenza di suo padre, di sua madre e di sua sorella, non ha vissuto la guerra, rimanendone a tutti gli effetti escluso: è proprio questo senso di esclusione a veicolare la ricerca di una nuova identità che non porti con sé la memoria etnica del massacro. Lui cerca di fuggire al trauma rientrando nei canoni del “perfetto cittadino italiano”, capace di laurearsi in giurisprudenza e di inserirsi attivamente in una “comunità sostitutiva” priva di lacerazioni così profonde.
“Danilo si aggirò per l’appartamento, arredato con i resti dei mobili dei nonni paterni, morti senza che lui potesse congedarsi da loro, e altri pezzi che il padre aveva assemblato chissà come. Nessuno lo aveva occupato, ed era ancora in piedi, quando vi aveva fatto ritorno, ma non aveva trovato nulla di ciò che era appartenuto alla sua famiglia. Danilo pensò che non c’erano i suoi libri di scuola né i giocattoli di Jagoda, non c’erano le loro fotografie incorniciate, e il vaso pieno di fiori freschi in ogni stagione, non c’erano le pantofole invernali con la pelliccia dentro, […] non c’era più niente del loro passato in comune, e forse era per questo che lui li sentiva distanti, i genitori, la sorella, slegati da sé, particelle che fluttuavano senza aggregarsi”
Storie di madri viste attraverso gli occhi dei figli
“Avrebbe voluto dire che le pareva assurdo decidere di fare un figlio se questo figlio poteva sparire da un momento all’altro. La morte avrebbe dovuto essere un deterrente per la nascita, la sbalordiva che non lo fosse. Come riusciva la gente a progettare di mettere al mondo esseri mortali, come riusciva a superare il paradosso di voler dare la vita innescando il conto alla rovescia della morte?”
Per secoli la storia ha cresciuto il suo popolo con un’idea di madre distorta e inverosimile: un essere mitologico, privo di imperfezioni, dedito a portare la vita in un mondo utopico e capace di accoglierla senza alcun tipo di contraddizioni o debolezze. Ma questa visione idilliaca, negli ultimi anni, sta crollando, sotto il peso di una realtà sempre più frammentaria e concreta. Essere madri, oggi, vuol dire portare la vita in un mondo profondamente instabile, fatto di guerra, violenza, e incertezza nel futuro.
Rosella Postorino si muove, ancora una volta, controcorrente, proponendoci, attraverso l’espediente narrativo della guerra, una riflessione più ampia e articolata sulla maternità, vista dal punto di vista di coloro che non hanno voce in capitolo, i figli. A venire raccontate sono le testimonianze di tre esseri umani che, pur non avendo scelto di nascere, si trovano soli, abbandonati nel ricordo di madri un tempo presenti ma ora scomparse nella crudeltà di un mondo che non guarda in faccia nessuno.
Il romanzo si apre con la visione di Omar, strappato dalle braccia della madre nel corso di un bombardamento: lui, come figlio, sà che è viva e sà che da qualche parte, lei lo sta cercando. Arrendersi ad una nuova realtà, ad una nuova casa, vorrebbe dire arginare il ricordo, seppellirlo per sempre. Anche nel momento in cui alla sua vita si apre la possibilità di un amore, quello fornitogli da una famiglia adottiva, lui lo rigetta, impossibilitato dalla memoria a concedersi un amore nuovo.
In questo caso l’autrice vuole presentarci non una, bensì due madri denaturate dal contesto: la prima è infatti la madre biologica, che non può essere tale a causa di un allontanamento forzato dalle circostanze, la seconda è la madre adottiva, una donna che pur non potendo avere figli, sceglie di essere per Omar e per suo fratello Sen, una seconda possibilità. Ma la sofferenza all’origine è troppa per il giovane orfano, concedersi di amare e permettere l’amore altrui vorrebbe dire piegarsi al male del mondo, arrendersi. L’unica scelta possibile per Omar è il dolore, la rabbia e la solitudine: la vita gli ha tolto più di quanto gli abbia mai dato, e questo sentimento irrisolto non riesce a trovare, nella sua vita, una soluzione.
D’altronde, avevano finalmente due figli soltanto perché era scoppiata una guerra dall’altra parte del mare: il loro desiderio più persistente si era realizzato grazie alla sciagura di un intero Paese, grazie a una madre saltata in aria. Affinché una donna senza figli possa allevare il figlio di un’altra, serve una quantità smisurata di sofferenza all’origine. Che la madre biologica sia morta o no, è comunque in corso un lutto. Dovresti saperlo, quando ti prendi in casa un orfano, pensava Omar, che se tu hai vinto è perché io ho perso. Mia madre, ho perso.
Diametralmente opposta è la storia della protagonista femminile (e di suo fratello Ivo): in lei il seme dell’abbandono si sedimenta ancora prima della guerra, a causa del rapporto con una donna che non ha mai scelto di essere madre. Nada è figlia di una prostituta che ha avuto due bambini come “conseguenza” del suo lavoro: a questa donna manca totalmente quel desiderio materno così radicato nelle due madri di Omar. La sua denaturazione viene da dentro, a ricordarci come l’istinto materno non sia mai in diretta correlazione con l’essere biologicamente madri. Quello che Nada ricava, da questa esperienza traumatica, è il tentativo di costruire un amore che non ha mai vissuto sulla sua pelle, ma ha potuto comprendere attraverso gli occhi di altri figli e di altre madri.
L’anulare reciso dalla sua stessa madre non è altro che un’allegoria della sua personale condanna all’infelicità: senza quel dito non può indossare una fede nuziale, simbolo dell’unità familiare, e tale condizione non è altro che la conseguenza di un atto violento perpetuato dalla donna che l’ha generata. Anche nel momento in cui si configura la possibilità di un incontro, la madre la rifiuta, quasi si stesse punendo per non aver mai trovato, in se stessa, un istinto materno.
Quando scesero, si impose di non guardarla più, di separarsene, dimenticarsi di averla incontrata, era stato una vita senza di lei e non l’aveva rimpianta. Lui era la prova che si può vivere senza una madre e un padre, che si può crescere senza un consiglio, uno sprone, un abbraccio di conforto: non si muore mica, non si diventa più deboli né più forti, siamo tutti scagliati nel mondo verso la possibilità della morte – è all’origine del creato, la mancanza d’amore.
Il percorso narrativo che invece si distanzia, nel rapporto madre-figlio, più drasticamente dai precedenti sopracitati risulta essere proprio quello tra Danilo e Azra, sua madre. In questo ritratto, forse il più crudele dei tre, ci troviamo di fronte ad una denaturazione di carattere psicologico, legato ad una malattia silenziosa e ingannevole: la depressione. Dopo averci raccontato diverse forme di disagio provocate da una distanza fisica e tangibile, l’autrice si ricorda di mostrare allo spettatore anche una distanza non data dallo spazio, ma da barriere rette all’interno delle mura di casa.
Danilo non riesce infatti a perdonare la madre (o forse se stesso) per averlo lasciato solo, per averlo escluso da una sofferenza che il resto della famiglia, inclusa la sorella minore Jagoda (rimasta in patria a causa dei suoi gravi problemi di salute) continua a condividere. Il suo rapporto con la madre, un tempo sereno, si tinge di tinte cupe, al punto tale da spingerlo ad allontanarsi il più possibile alla sua cultura e alle sue origini. Dalla prospettiva opposta però la madre non può comprendere il disagio del figlio, non riesce a sopperire alle sue mancanze, perché in lei si insidia, da tempo, un disagio più profondo, che, latente fino alla fine della guerra, si manifesta nel dopo arrivando alle estreme conseguenze. In questa dinamica di vicinanza fisica e lontananza emotiva si insinua una denaturazione silenziosa e toccante, ricca di rimpianti e di non detti capaci di segnare, indelebilmente, il destino di tutta la famiglia.
Arrivati a questo punto, al culmine dell’apice drammatico, proprio quando pensiamo che l’autrice abbia solo cercato di fornirci un oscuro ritratto della maternità, un finale inaspettato ci offre una possibilità di soluzione positiva. Il futuro è rappresentato da una nuova madre e da un nuovo figlio, che, mentre un mondo in rovina tenta di ricostruire se stesso, si limitano ad amare.
Alla fine dei giochi, questo romanzo non è altro che una straordinaria storia di resilienza nei confronti delle difficoltà della vita, che, pur non volendo insegnare nulla, spinge il lettore a riflettere sull’importanza di non lasciarsi trascinare dalle sofferenze che ci abitano, perché infondo c’è sempre spazio per ricominciare ad amare.
“Mi limitavo ad amare te” è un romanzo che merita, senza ombra di dubbio, di essere una delle voci protagoniste di questa edizione del Premio Strega: non solo per la bravura con cui Rosella Postorino riesce a comunicare la complessità di ciò che ci circonda, ma anche perché, in un contesto storico così incerto e frammentario, abbiamo bisogno di storie capaci di raccontare una possibile via d’uscita.
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