La poesia, l’ispirazione e la “nuova carne” della musica italiana: Intervista a Max Manfredi
di Massimiliano Mari
Difficile incasellare in una definizione Max Manfredi, teatrante, scrittore e soprattutto cantautore della più bell’acqua: classe ’56, genovese doc, autore di un pugno di album premiatissimi – tra cui “Max”,1994, in cui canta “La fiera della Maddalena” insieme a Fabrizio de André, e “Luna Persa”, grande successo di critica del 2009 -, ha pubblicato a dicembre 2021 il suo ultimo lavoro, “Il grido della fata”. Abbiamo parlato con lui di questo lavoro e di molto altro.
La poesia «nichil aliud est quam fictio rethorica musicaque poita», nient’altro è che composizione ad arte fatta di retorica e di musica. (Dante, De vulgari eloquentia, II, IV, 2), Se la “poesia alta” oggi è rinchiusa in un piccolo orticello autoreferenziale, nel quale chi legge praticamente coincide con chi scrive, ci sono persone che sostengono che la canzone, anche in virtù dei suoi sistemi di produzione e distribuzione sostanzialmente diversi dalla letteratura, non sia in effetti poesia. Tu, che peraltro parti dalla musica trobadorica, cosa ne pensi? Fare canzoni può significare anche fare poesia?
La poesia “alta” oggi è, spesso volutamente, molto bassa. Ai tempi di Dante esistevano diverse scuole di pensiero: secondo i trovatori, ad esempio, “un verso senza musica è un mulino senz’acqua”. Nel difficile equilibrio di una canzone il gradiente del testo e quello musicale possono essere più o meno complessi e profondi. Si può fare una canzone particolarmente sensibile alla forza poetica del connubio tra testo e musica. L’importante è che dia delle emozioni, dei brividi, delle scosse. Come la poesia, d’altronde, secondo la (non) definizione di Emily Dickinson, che addirittura esagerò, parlando di crani scoperchiati e nervi messi a nudo. Peraltro, è ovvio che quando il linguaggio di una canzone è prosaico, non fa che imitare la poesia prosaica.
“E lavora di lima sotto questo clima che è un tiro di dado”: è evidente ascoltandoti che questa “lima” sia importante nei tuoi lavori. Scrivendo i tuoi testi, quanto è importante la retorica, la versificazione italiana, il” mestiere dello scrivere per versi”? E quanto invece la pura cantabilità, l’aderenza del testo al respiro della musica?
Sono entrambi essenziali. Aggiungi, buon peso, la cosiddetta e tanto bistrattata “ispirazione”, che è il lievito madre che mette in moto l’impasto, e che non dipende dalla nostra volontà cosciente.
Nei tuoi testi ci sono suggestioni geografiche di diverso tipo, ma Genova ha una forte presenza, con i suoi angiporti e i suoi vicoli: esiste una scuola di cantautorato genovese, come si va dicendo, c’è una matrice comune, un denominatore, che unisce i suoi esponenti, o semplicemente è il fatto di essere nati in città? Tutto sommato, pensando a Fossati o a De André (il cui apprezzamento per il tuo lavoro è diventato quasi un tormentone), l’impressione è che apparteniate a mondi diversi. Oppure i legami sono più sottili, e, per esempio, la Dolcenera di un amore impossibile sta contemporaneamente disseppellendo il teschio di un Doria?
Genova è il set dei miei film. In parte ciò è voluto. Dolcenera e il teschio del Doria direi che possono convivere, mentre per la graziosa di Via del Campo non rimane che l’eternità. Ma le scuole dipendono dalle frequentazioni comuni fra gli artisti, sono loro che determinano e scoprono il “Genius loci”. E pure dalle case di produzione.
Servo e cantore, Troubadour/che nel suo amare ogni bel volto amò/Più che possa l’ignavo il solo amore di sua vita//Ricolmo dell’”amor che move il sole/e l’altre stelle”. (Ezra Pound, In Epitaphium eius). Attraversare il tuo nuovo disco, Il grido della fata, significa, almeno per me, lasciarsene catturare a poco a poco, gironzolare tra i simboli, i personaggi, le metafore e lasciarsi colpire da un’impressione. E qui ci trovo meno ironia rispetto al passato, più invece una sorta di malinconia, un osservare il mondo un poco dall’esterno, un “bordone” di solitudine. Quanto è importante l’amore (per una donna, per la letteratura, per la vita) in un mondo così, di ghiaccio, di inverni con nome neve e nome fuoco, di inferni oltre le finestre?
Senza l’amore non si può fare e scrivere nulla. Non si può passare due anni risicati a comporre un disco nei ritagli di tempo, un album con musicisti reali ed elettronici. Ma il mondo che si descrive, senza mai voler essere autobiografici, è legato a quello che si vive. All’esterno, al sociale. Io ci ho voluto stendere un pietoso velo di neve.
Né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. (Matteo 5:14-15) Nella tua opera non noto bandierine ideologiche piantate a bella vista, o manifesti politici. La citazione qui sopra però apre il tuo video “Dremong”, e anche Il grido della Fata è tutto un florilegio di immagini che rimandano alla religione, a partire dalla foto in copertina passando per calvari, cattedrali, omerici asfodeli, inginocchiatoi, prelati, rosari, diavoli, per non parlare del tuo ultimo libro e spettacolo teatrale, “Faustus”. Al contrario della politica, la religione ti interessa dunque molto di più, sembrerebbe. Ce ne vuoi parlare?
Mi interessano le mitologie e gli ambiti della religione, compresa e in primis la cattolica, che non pratico. Mi piace frequentarla poeticamente, da profano. Nel bene e nel male (configurato, nella canzone che tu citi, dal prelato pedofilo). Credo che ricercare i simboli o semplicemente i riferimenti religiosi (o blasfemi) nelle mie canzoni sia un buon lavoro per un critico – o uno psicoanalista. Devo dire che questa giostra tematica è presente un po’ in tutti gli autori di canzoni, compresi i più irridenti e tragici, sia romanzi che latini che anglosassoni. Io forse esagero un po’ con le cattedrali.
Sono certo che la musica, anche nella sua “teatralità”, sia molto importante per te, tanto quanto i testi. Il nuovo disco è pervaso da una musicalità elettronica, tintinnante come cristallo, tendenzialmente algida, frutto di un gande lavoro di arrangiamento. Ma tu imbracci la chitarra come un musicista classico, e abbiamo sentito da te ritmi popolari, sonorità greche, suggestioni esotiche. Qual è il tuo modo di vedere la musica, quali sono le tue radici?
Di radici musicali nel mio caso non si può parlare. Di interessi e frequentazioni nel tempo, sì. Mai stato feticista di un genere musicale o di un autore in particolare (alcuni li amo, stop). Il fanatismo nell’arte mi ha sempre fatto orrore, tranne che nei rari casi in cui ne sia io l’oggetto. Da bambino ascoltavo indifferentemente musica classica e festival di Sanremo. Poi ho praticato il folk italiano e la musica e la poesia medioevale. Ma una canzone può poggiarsi, sì, su una tradizione o una moda; ma solo per ricrearla di continuo.
Colleghi cantautori, eletta schiera, /che si vende alla sera per un po’ di milioni (Francesco Guccini, L’avvelenata). A chiudere, domandina facile facile: è evidente che i tempi siano cambiati e che milioni per i cantautori non ne girino più; qual è secondo te il futuro del cantautorato in Italia? C’è una “nuova leva” che tu segnaleresti, come fece a suo tempo Fabrizio de André con te?
È una questione che contemplerebbe una dissertazione di almeno un paio d’ore, che tenga conto di tutte le stratificazioni e differenze e salti di qualità dello scenario discografico e culturale degli ultimi cinquant’anni. Potrebbe essere oggetto di un caffè a parte. Un caffè molto lungo. Ma per venire all’ultima parte della tua ultima domanda, e se vogliamo farne anche una questione anagrafica (bravi e giovani) io nomino Lady Lazarus, cioè Marcello Stefanelli e Gabriele Santucci, che son pure quelli con cui ho composto non le canzoni dell’ultimo mio album, ma l’album proprio. Vedi, una volta c’era un brano e “gli si dava una veste” musicale. Adesso con l’elettronica si tratta di sostituzioni, protesi, organismi musicali, innesti. Come in un film di Cronenberg.