Mascagni, Verga e il dramma di Cavalleria rusticana
Più che in Vita dei campi, la vicenda di compare Turiddu per molti anni ha soggiornato nelle aule dei tribunali, tra giudici e avvocati con parcelle da milioni di lire, contesa tra il suo creatore, lo scrittore catanese Giovanni Verga, e il compositore livornese Pietro Mascagni. Il caso è piuttosto insolito: la novella in questione, Cavalleria rusticana, che così bene si adatta alle forme dell’opera, vede spezzata l’armonia miracolosa tra letteratura e musica, tra note e parole, a causa di due uomini che si contendono i diritti d’autore a suon di azioni legali.
Andando con ordine, è necessario cominciare ad analizzare le ragioni dello scontro fin dall’incontro tra le due arti. In musica, la storia di Cavalleria rusticana inizia nel 1889, quando il giovane – e pressoché sconosciuto – Mascagni si iscrive al concorso indetto dalla casa editrice milanese Sonzogno per la scrittura di un’opera in un singolo atto. La scelta del soggetto ricade sull’omonima novella verghiana edita nel 1880, e il libretto, curato dai concittadini Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci, è, come richiesto da Mascagni: «strettamente attaccato all’azione del Verga, aggiungendovi semplicemente qualche brano lirico per vestire la nudità della tragica vicenda». “L’azione” a cui si riferisce il compositore è il dramma che lo stesso Verga aveva ricavato dall’adattamento teatrale della novella, trionfante nei teatri a partire dal 1884, che aveva catturato l’attenzione di Mascagni in una rappresentazione meneghina al teatro Manzoni.
La contesa di Cavalleria rusticana
Le strade di Verga e Mascagni si incontrano ufficiosamente per via epistolare nel 1890, quando quest’ultimo, dopo essere stato proclamato vincitore del concorso, si mette in contatto con l’autore della novella di cui la sua opera porta il titolo, per chiedergli – in maniera del tutto informale – il permesso per la rappresentazione nei teatri, e riconoscendogli il diritto di imporre i patti che avrebbe ritenuto “utili o necessari”. Lo scrittore siciliano, senza curarsi particolarmente di quel compositore ventiseienne la cui firma era estranea ai più, acconsente e, in risposta, riceve gli accorati ringraziamenti di Mascagni: «Io vivo qua a Cerignola da quattro anni, dimenticato, abbandonato da tutti; e la mia vita è stentata; è vita di privazioni, di miseria. Oggi vedo un avvenire, dovuto al mio studio, al mio lavoro e soprattutto alla Sua ‘Cavalleria’ che m’ispirò una musica appassionata e teatrale».
L’avvenire di Mascagni si rivela più prospero di quanto egli stesso avrebbe potuto immaginare: Cavalleria rusticana è un clamoroso successo, capace di brillare per tutta Europa e farsi spazio tra le ombre del Valhalla wagneriano che in quegli anni avanzavano sempre più spedite alla conquista del vecchio continente. All’apice del suo successo, però, Mascagni deve fare i conti con Verga, pronto a reclamare la paternità di Cavalleria presso il Tribunale di Milano e a definire – questa volta con grande precisione e formalità – quali – e soprattutto quanti – sarebbero stati i suoi “utili o necessari” accennati in precedenza.
Il processo si è trascinato per molti anni nelle aule del Palazzo di Giustizia prima di trovare l’intesa finale. Nel 1891 il tribunale impone a Mascagni e al suo editore Edoardo Sonzogno il versamento del 50% degli utili netti, ricavati e futuri del successo di Cavalleria, ma è solo nel 1893 che si trova l’intesa finale mediante un accordo transattivo che ha riconosciuto la somma di lire 143.000 – pari a oltre 500.000 euro odierni – allo scrittore siciliano, ancora insoddisfatto della decisione iniziale del tribunale.
Il dopo Verdi
Memore del successo solitario di Giuseppe Verdi, il futuro della musica in Italia nell’ultimo ventennio dell’800 è conteso tra chi cerca di seguire le orme del compositore di Busseto (come ad esempio Ponchielli, per breve tempo maestro di Mascagni a Milano), e chi invece strizza l’occhio alla tendenza europea del cosiddetto wagnerismo e della musica sinfonica, nel tentativo di ricostruire un patrimonio strumentale italiano oscurato da quasi un secolo di solo melodramma (vedi Arrigo Boito e la cerchia di musicisti attorno a lui tra Milano e Bologna).
Mascagni è una vera e propria sorpresa nella scena musicale: riceve l’eredità del melodramma italiano dalle mani di Verdi e lo adatta all’innovazione musicale europea, facendo da apripista a quel capitolo della storia della musica intitolato verismo.
Questo termine, proveniente dalla letteratura, in musica non è da intendersi come l’espressione estremizzata dei sentimenti e delle passioni – nessun ritorno alla teoria dell’Affektenlehre barocca –, ma “il vero” si trova principalmente nei soggetti, riguardanti vicende di vita comune e contemporanea, e talvolta attinti da fatti di cronaca locale, come nel caso di Cavalleria rusticana.
Tramontano le storie di eroi e di regnanti, le vicende riguardanti i fermenti del romanticismo e i grandi ideali, i personaggi mitizzati e le ricostruzioni storiche. Dal ricordo di quel vasto patrimonio musicale di opere lasciate in dono dal proficuo ‘800 musicale italiano, scompaiono i personaggi definiti e individualizzati in ruoli “a compartimenti stagni” (l’eroe coraggioso, la giovane ingenua, l’anziano saggio, ecc.), lasciando così il posto a dei nuovi protagonisti, capaci di mostrare nel loro carattere molteplici sfumature. Il risultato ottenuto è che i personaggi smettono di essere degli stereotipi da palcoscenico, ma ora assomigliano sempre più a veri uomini e donne in carne ed ossa che non è raro trovare nelle città, seduti al tavolo di un’osteria, tra la folla o addirittura in mezzo al pubblico.
Il dramma di Cavalleria rusticana
Un breve riassunto della trama: nella calda Sicilia del giorno di Pasqua, compar Alfio scopre che sua moglie Lola lo tradisce con il bel Turiddu appena tornato dal servizio militare, al quale lei aveva giurato amore prima di vederlo partire. È Santuzza, la nuova fiamma di Turiddu, ad allertare Alfio, il quale al termine della giornata si scontra a duello con Turiddu e lo uccide.
Poche righe, che solo grazie al lavoro di Mascagni si trasformano in un’ora e mezza di musica intensa e sanguigna, densa di suoni e di voci, melodie struggenti e violente parole.
Quando si parla di melodramma è sempre buona cosa tenere a mente il significato primario della parola “dramma”, cioè azione. In ragione di questo, di fronte a Cavalleria sorge spontaneo domandarsi: in una trama in cui non succede praticamente nulla (perfino il duello tra Alfio e Turiddu avviene dietro le quinte), dove la scena non cambia mai (la piazza del paese, con la chiesa e la casa di Turiddu sullo sfondo), e considerando che la vicenda si svolge nel giro di poche ore, dove sta l’azione?
La risposta – nonché principio cardine del Verismo – è che per Cavalleria il dramma è un elemento intrinseco, che però non si manifesta nei gesti dei personaggi o negli episodi scenici, bensì nella musica e nel testo, o meglio, in quell’aderenza soffocante per cui la musica segue la parola in ogni momento. Parole e suoni incollati a formare una tensione costante che confluisce in una forza vitale irrompente e scatenata, “appassionata e teatrale”, per utilizzare le parole di Mascagni.
Bisogna però puntualizzare che già dall’incontro maturo tra Verdi e Shakespeare (mediato dal librettista Arrigo Boito), l’aria in forma chiusa era stata gradualmente abbandonata. L’ultimo Verdi, quello di Otello e di Falstaff, senza sapere a chi di preciso, stava già passando il testimone ai compositori del futuro, gettando le fondamenta per una nuova costruzione dell’opera, in cui aria e recitativo scivolano l’uno all’interno dell’altra, e dove l’azione non viene bloccata dal momento solista del cantante, ma è continuativa e incalzante, senza pause tra gli episodi: l’intera opera è dramma, dall’inizio alla fine.
Preludio e siciliana
Pur restando legato alla tradizione del melodramma italiano, Mascagni non può rimanere indifferente di fronte agli stimoli sinfonici provenienti dall’800 musicale europeo: dal primo Romanticismo tedesco al gusto del poema sinfonico di Liszt e Strauss, dalla complessità degli effetti strumentali dell’orchestra di Wagner e di Meyerbeer ai capolavori sinfonici di Tchaikovsky e Dvorak. Il nuovo operista, a cavallo tra i due secoli, è necessariamente portato ad attingere a queste risorse che l’Italia del melodramma nazionale – impegnata nel Risorgimento – non ha potuto autonomamente sviluppare.
La dedizione per questa nuova bellezza sonora è svelata sin dalle prime note del Preludio, dove la musica si presenta al pubblico densa e passionale: il tema caldo e avvolgente degli archi si fa spazio nel teatro, scandito dagli accordi dell’arpa. Ed ecco che su questo sfondo emerge un oboe, con un intimo accenno di melodia nel suo registro grave. Gli strumenti si incalzano a vicenda in un accelerando che culmina nell’esplosione del colpo di piatti, da cui affiora solitaria la melodia struggente di flauto e corno all’unisono. I violini rispondono con carattere deciso e si uniscono al dialogo con i legni che si sussegue frenetico, fino a un grande crescendo sospeso nel suono dell’arpa rimasta sola, e da dietro le quinte arriva la voce del tenore.
Turiddu, in lontananza, canta in dialetto siciliano una serenata per Lola, sul ritmo di “siciliana”. L’inserimento di questa particolare canzone popolare può sembrare una scelta ruffiana, visto il contesto in cui la vicenda di Cavalleria rusticana si svolge, ma al contrario: non è nella Sicilia che si trovano le radici di questo ritmo di danza, bensì nei dintorni di Napoli al tempo del Regno delle Due Sicilie, da cui il nome deriva. Il movimento ternario e l’andamento moderato e dolente sono gli elementi che rendono la siciliana il modo identitario della canzone malinconica napoletana, tenera e struggente, capace di esaltare quel sentimento di afflizione e lamento che porta con sé l’idea della morte. Difatti, prima ancora che il sipario si alzi, nelle parole di Turiddu si intravede già il suo triste epilogo, nel momento in cui dichiara che per l’amore di Lola sarebbe perfino disposto a morire.
Tenendo a mente che è il giorno di Pasqua, questo ritmo di siciliana ne ricorda un altro, sempre inerente al presagio della morte: l’apertura della Passione Secondo Matteo di Johann Sebastian Bach, tradizionalmente eseguita nella domenica delle palme. È difficile trovare una correlazione diretta tra Mascagni e Bach, ma il punto d’incontro sta proprio nella scelta di entrambi – in contesti assolutamente diversi – di utilizzare il ritmo di siciliana per esprimere quel sentimento di inquietudine e tormento che preannuncia il sacrificio.
La Cavalleria di Santuzza
Se la novella tratta della vicenda di compare Turiddu, la Cavalleria di Mascagni ha, invece, per protagonista Santuzza. Questo personaggio – che in Verga rischia di emergere solo come “la spiona” – nell’opera acquista tutt’altra dimensione, tanto da far cambiare il punto di vista dell’intera vicenda, ora raccontata dalla sua prospettiva. In virtù di quanto detto in precedenza in merito alle molteplici sfaccettature dei personaggi del verismo, non è un caso che Mascagni utilizzi spesso la tessitura grave del registro della voce di soprano, in modo tale da ricreare attraverso la musica quell’immagine di intima sofferenza e di carattere mite che contrastano, invece, l’esplosione di rabbia e dolore esternati nel registro medio-acuto.
D’altro canto, il registro acuto non viene estremizzato, rendendo così accessibile il ruolo anche alle voci di mezzosoprano. Il fatto che Santuzza si adatti così bene a differenti tipologie di registri – e viceversa che diverse cantanti possano interpretare questo personaggio ponendo l’accento su quello che più caratterizza la loro voce – conferisce una sfumatura diversa a ogni rappresentazione di Cavalleria rusticana, contribuendo a rendere ancora più vero il personaggio di Santuzza.
Scena 5 e seguenti
Il dramma scoppia nella scena 5, nel duetto all’incontro tra Turiddu e Santuzza. Sono terribili le parole che i due si scambiano: lei è decisa ad affrontare l’amante fedifrago, mentre lui cerca in ogni modo di negare il tradimento e liquidarla il prima possibile.
L’apice tensivo dell’intera opera è raggiunto nello scambio di battute che segue: «Bada, Santuzza, schiavo non sono di questa vana tua gelosia!», dice Turiddu quasi offeso dalla mancanza di fiducia nei suoi confronti. Santuzza risponde con una frase che fa gelare il sangue: «Battimi, insultami, t’amo e perdono, ma è troppo forte l’angoscia mia». Ormai certa del tradimento e consapevole di essere stata usata solo per far ingelosire Lola, Santuzza è disposta a prendersi la colpa e a perdonare Turiddu pur di farlo restare con sé, perché anche se lui è palesemente innamorato di un’altra donna, lei non ha mai smesso di amarlo.
Il duetto si interrompe bruscamente quando da lontano sopraggiunge la voce di Lola. Turiddu e Santuzza restano in silenzio ad ascoltare il suo stornello Fior di Giaggiolo, una canzone popolare molto semplice che da dietro le quinte si insinua gradualmente in palcoscenico. L’unico momento nell’intera opera in cui Lola è solista, in realtà, è a tutti gli effetti un duetto, non con un’altra voce, bensì con l’oboe: il timbro seducente del mezzosoprano si intreccia con il suono puntiglioso dell’ancia doppia, creando un particolare contesto sonoro che risulta sia provocante agli occhi di Turiddu, che provocatorio nei confronti di Santuzza.
Le provocazioni si susseguono l’una sull’altra e le parole che le due donne si scambiano diventano sempre più violente. Se Santuzza, poco prima, si trovava da sola con Turiddu era completamente sottomessa a lui, ora, a faccia a faccia con la rivale, non utilizza mezzi termini. Lo scontro verbale si accende nei toni di sfida e derisione, ed entrambe pronunciano parole amare e di odio.
Lola esce di scena, e Turiddu e Santuzza restano nuovamente soli a confrontarsi: tra i due scoppia una tremenda lite che culmina nel grido delle minacce: «A te la mala Pasqua!». Anche Turiddu se ne va, e lascia il posto all’ingresso di Alfio, che non sarebbe potuto capitare in un momento più sbagliato: furiosa e affranta per essere stata rinnegata dal suo amato, Santuzza è in preda all’ira e alle lacrime quando trova la spalla di Alfio su cui piangere, e mentre sfoga tutto il suo dolore, avverte il marito di Lola che “la corona che adorna d’Atteòn l’irte chiome su di lui già spunta” – per utilizzare una proposizione boitiana dal Falstaff –, ovvero – meno garbatamente – lo informa di avere le corna. Con questa dichiarazione, Santuzza condanna a morte Turiddu, l’amato che era disposta a perdonare: Alfio giura vendetta.
Intermezzo e finale
Segue Intermezzo, il breve capolavoro orchestrale di cui Gustav Mahler successivamente dirà: «solo un italiano avrebbe potuto comporre questo pezzo di musica». Per la prima volta l’azione si ferma, l’atmosfera si placa e nel disperato silenzio che precede il duello, il suono degli archi si fa spazio flebile nella Sicilia in cui ribolle il sangue. Man mano l’idea sonora diventa più intensa, più sostenuta e robusta, fino a sfociare in quel famoso tema dei violini, appassionato e ardente, accompagnato dall’arpa, che era stata protagonista nel Preludio, e ora con le sue note gravi mette in risonanza i bassi dell’armonia.
Un momento capace di creare un’atmosfera incantata e fuori dal tempo, permettendo a tutti di prendere fiato: per i cantanti letteralmente (Cavalleria pur essendo un’opera breve è estremamente intensa e densa di note, soprattutto per Santuzza), e metaforicamente per l’ascoltatore che ha bisogno di respirare dopo essere stato partecipe di quel clima acre di gelosia, ripicca e tradimento che precede e preannuncia l’odore della vendetta.
Il duello tra Alfio e Turiddu non tarda ad arrivare. La novella lo descrive dettagliatamente, ma già nell’adattamento teatrale, Verga aveva preferito non mostrarlo in scena perché troppo cruento, e così anche la scelta dei librettisti e di Mascagni per l’opera. Prima di andare a morire, Turiddu saluta sua madre e le rivolge un appello: prenditi cura di Santuzza. Il Turiddu di Verga quando si prepara allo scontro non pensa minimamente alla donna che ha tradito e abbandonato, è solo il Turiddu musicato da Mascagni ad avere questo accenno di rimorso e pentimento nei confronti di una donna che, anche se probabilmente non ha mai amato, non lo lascia indifferente al senso di colpa.
La coltellata di Alfio è fatale e l’opera si conclude al grido ripetuto: «Hanno ammazzato compare Turiddu!». Cala il sipario ma la questione rimane aperta nelle menti degli ascoltatori, che si alzano dalle loro poltrone anch’essi vittime della vicenda stessa, tanto quanto i veri protagonisti: Santuzza, Turiddu, Lola e Alfio, tra loro non c’è nessun vincitore.
Cavalleria rusticana
Sempre attuale, Cavalleria è una storia che non vive solo nei teatri, ma si intreccia con la vita vera: tradimento e gelosia sono elementi propri dell’essere umano imperfetto e, sebbene meno estremizzati, hanno almeno una volta fatto parte della vita di ogni uomo. Perfino gli stessi Verga e Mascagni ne sono caduti vittima al momento della loro contesa dei diritti d’autore.
Ma a questo punto, è davvero importante decretare chi ha reso grande Cavalleria rusticana? È vero, il soggetto in principio è di Verga, ma è con la musica di Mascagni che acquista tutt’altro spessore. D’altra parte, non si può sapere se il livornese avrebbe ugualmente vinto il concorso senza i personaggi della Sicilia verghiana. Quello che più di ogni altra cosa crea il miracolo della gloria e degli applausi è proprio l’incontro tra questi due grandi uomini, da cui nasce la miglior versione di Cavalleria, capace di far accapponare la pelle e gelare il sangue, in quell’agglomerato di suoni e parole, sensazioni e passioni, che rendono universale la drammatica vicenda grazie al potere espressivo della musica, unito a quello comunicativo della parola.
https://it.wikipedia.org/wiki/Cavalleria_rusticana_(opera)
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