Manticora
un racconto di Massimiliano Mari
Il primo bimbo fu trovato nella casa dei fantasmi da due ragazzini in vena di misurarsi con il mondo e di provare qualche brivido. La casa era nient’altro che un piccolo edificio a due piani, mezzo diroccato, con le finestre sbarrate da due assi inchiodate a croce: non aveva nulla di misterioso o di terrificante e una volta, fra le sue mura, aveva accolto una famiglia. Era solo un luogo un poco triste, uno dei tanti segni che il tempo si premura di lasciare come traccia del suo passaggio. La si poteva trovare nel suo vicoletto salendo verso il monte , dopo aver oltrepassato via della Pietà: una porta di ingresso sfondata, incorniciata da stipiti in granito e sormontata da un sopraluce in vetro colorato che la ingentiliva; due finestre laterali con grate arrugginite e altre due finestre al piano superiore. Nulla di più. A cosa dovesse il suo poco lusinghiero nomignolo, diffuso soprattutto tra i ragazzi, non è dato sapere: forse l’atmosfera del vecchio ospedale, così massiccio e incombente, e la necessità di passare di fronte alla cappella mortuaria per raggiungerla, suggestionavano la mente dei giovani; era una vera prova di coraggio oltrepassare le alte erbacce del cortiletto e intrufolarsi all’interno, nella sua atmosfera ombrosa e polverosa.
Quel giorno, i due quindicenni urlanti che correvano in pantaloncini corti a rotta di collo giù verso il mare, il coraggio lo lasciarono tutto in una piccola stanzetta buia di quella casa. Il bambino aveva otto anni, ed era stato abbandonato davanti a una vecchia stufa, nudo. Aveva gli occhi socchiusi, bianchi, storte le gambe in modo innaturale. Segni di graffi rossi spiccavano sul suo piccolo torace grigio cenere. Grossi pezzi di muscolo mancavano dagli arti, lasciando scoperto l’osso. Chi lo trovò, quella notte non riuscì a prendere sonno. Lo portarono su una barella, coperto da un lenzuolo, verso l’ospedale. Qualcuno trovò paradossale che proprio sul lato del nosocomio che guardava a via della Pietà un tempo si trovasse la ruota degli esposti, un meccanismo girevole che le madri utilizzavano per abbandonare i propri neonati: il peso del bambino azionava il meccanismo, una campanella suonava, e una nuova anima veniva accolta. Ora la via accoglieva solo la morte e la disperazione senza fiato di una madre.
Sandro Furlan osservava la scena dalla porta della sua bottega: dolci e caramelle ammiccavano ai passanti da dietro le vetrine; monumentali torte bianche, rosse e verdi attiravano irresistibilmente l’attenzione.
“Cosa succede?” disse sua madre, piccola, quasi raggrinzita, da dietro la sua spalla.
“Non lo so, mamma. È successo qualcosa di brutto, credo”
“Cosa succede?” ripeté la donna con occhi acquosi.
Il pasticcere sospirò, si voltò verso la madre e le accomodò i capelli: “Vai in camera mamma, ti porto il tè fra poco”
“Tu chi sei? Dov’è mio figlio?”
“Sono io tuo figlio, mamma” le rispose gentile.
“Mio figlio fa i dolci. Ha un negozio. Fa i dolci.”
“Su, mamma, vieni”. Prese sua madre per un gomito, la accompagnò nella sua stanza e poi uscì, per capire cosa fosse successo. Quando vide il cadavere impallidì e per un momento dovettero sorreggerlo.
“Ma chi è stato?” chiese.
“Nessuno lo sa”, gli rispose qualcuno fra la folla di curiosi che si stava formando: “l’hanno trovato un’ora fa”.
Per tutto il pomeriggio le persone si accalcarono davanti alla porta della cappella, cercando di capire e di curiosare, ma infine la città non prestò l’attenzione dovuta all’episodio. Il bimbo era scomparso esattamente tre giorni prima, il venti marzo 1921, e in quel momento tutta Trieste era in festa. La piazza non era mai stata così piena, la gente si assiepava da ogni parte. Molti partecipavano dai tetti, o dai balconi. Un venditore ambulante gridava sul lungomare offrendo frittelle ai passanti. Lampadine colorate collegate da fili di rame adornavano i palazzi, la “Caio Duilio” mostrava i suoi cannoni lucidi come muscoli oliati, bandiere e festoni sventolavano in ogni dove. Le persone inondavano le vie, attraversate da un nuovo fervore. Sembravano voler dimenticare. Un nuovo inizio, un nuovo futuro. Come avrebbe potuto qualcuno accorgersi di un bambino sfuggito per un attimo alla mano della madre?
Ci fu, è vero, chi disse “Io l’ho visto”, “Era con un uomo alto, mi pare”, “Ma sì, gli ha dato un sacchetto di caramelle”, “Sì, sì, lo teneva per mano”, “Chiamava la mamma e tirava”, ma nessuno forniva una descrizione precisa o riferiva qualcosa di cui fosse certo. Il mondo non aveva il tempo di badare ad un bimbo.
Finché, più o meno un mese dopo, la casa dei fantasmi accolse un altro ospite. Questa volta era una bambina, la figlia di un noto farmacista cittadino, anche lei martoriata e scomposta nella stessa stanza, davanti alla stessa stufa. La mesta processione di fronte all’ospedale si ripeté, e Sandro osservò dalla vetrina. Non uscì come la volta precedente, si fermò sulla soglia, con una mano a coprire la bocca, in silenzio. Attirò comunque l’attenzione, perché sua madre comparve accanto a lui, puntando l’indice ossuto e urlando: “Io l’ho visto! Io l’ho visto!”, con tutto il fiato che aveva a disposizione.
“Chi ha visto, signora?” le domandò un ufficiale avvicinandosi.
“Io l’ho visto! È un mostro!” lo fissò la vecchietta annuendo con convinzione.
“Mamma, cosa dici? Entra in casa, su”, cercò di calmarla Sandro, preoccupato
“No, no, un momento” disse l’ufficiale, “la lasci parlare”.
Non ci fu bisogno di sollecitare. La vecchietta era infervorata: “Era grande, e aveva gli occhi tutti gialli, e i denti tutti gialli, e la bava, che scendeva giù, e aveva la coda con le spine, e gli occhi tutti gialli”
“La coda?” disse il poliziotto.
“Era un mostro, sa?”, disse la madre annuendo più vigorosamente, per confermare.
“Ho capito”.
“Sei tu mio figlio?” disse improvvisamente la vecchina.
“Scusi?”
“Mio figlio ha un negozio. Fa i dolci”
“Mia mamma non è più lucida, mi dispiace” intervenne Sandro. “non ha più il senso della realtà.”
“Ho capito, va bene così” borbottò l’uomo in divisa allontanandosi.
“Su, andiamo dentro, mamma”
La vecchina lo fissò: “Chi sei tu?”
Sandro non disse nulla, fece per accompagnare all’interno sua madre, ma avvertì qualcosa di anomalo, una sensazione improvvisa, una nota inquietante. Si girò verso la via: tutti i presenti lo fissavano in silenzio e l’atmosfera si fece elettrica. In fondo, anche questa volta, la trappola era scattata con dei dolci: la bambina morta era sparita sulla soglia di casa, in un attimo, lasciando solo alcune caramelle sparse sul selciato. La città stava fissando il pasticcere, improvvisamente lo guardava con occhi diversi, e non si fidava più di lui.
Nei giorni successivi i clienti diminuirono, e le persone passavano davanti alla vetrina dal lato opposto della strada, mormorando. Un pomeriggio Sandro si ritrovò nel negozio vuoto a fissare la strada, e sua madre gli disse: “Era un mostro, sai?”. Poi rimasero in silenzio entrambi, nella penombra profumata di zucchero filato.
La terza vittima portò un cambiamento. Qualcuno, finalmente, vide. La piazza principale era tutto un brulicare di persone, a passeggio per il bel tempo: gli uomini con la paglietta, le signore con larghi cappelli, affollavano i caffè e passeggiavano, godendosi il sole che splendeva sul mare. La piazza, maestosa e austera, accoglieva tutti. Più avanti i lavoratori del porto, indaffarati, rendevano l’atmosfera più chiassosa. In pieno giorno, in pieno sole, finalmente il mostro fu visto: un marinaio quasi ubriaco notò una persona avvolta da un lungo soprabito scuro, coperta da un cappellaccio, che stringeva la mano di una piccola bambina vestita di rosa. Il contrasto era forte, e il caldo abbastanza intenso rendeva strano, fuori posto, quel lungo vestito cupo.
“Ehi! Dove vai con quella bambina, tu?” iniziò ad urlare il marinaio. L’uomo scuro si fermò, si girò per un momento, i lineamenti coperti dalla densa ombra del cappello, e poi iniziò a correre, afferrando la sua piccola preda per la vita. Il marinaio scattò, alzandosi dal tavolo a cui era seduto e ribaltando la sedia: “Prendetelo! Prendetelo!”. Fu questione di un momento: l’uomo si lanciò all’inseguimento, dietro gli acuti strilli rosa della bimba che si perdevano in una via laterale, e la madre, realizzata improvvisamente la situazione, prese a correre con lui. Gli altri reagirono più lentamente: l’atmosfera placida e rilassata del pomeriggio non si conciliava con un mutamento così repentino. Solo alcuni infine capirono cosa stava accadendo e corsero anche loro dietro al marinaio e alla madre disperata. Malauguratamente, era troppo tardi.
Appena svoltato l’angolo di una stradina, li trovarono: l’uomo e la donna, a terra, grondanti di sangue, dilaniati. Sembrava che degli enormi artigli li avessero straziati: dal viso all’inguine si aprivano su entrambi profonde ferite, rosse e lucenti. Pochi minuti erano passati dalla piacevolezza della piazza alla tragedia nel vicolo. Le leggende si moltiplicarono: qualcuno parlò di una belva scappata da un circo, qualcun altro disse di aver visto l’assassino, enorme e peloso, altri ancora sostennero di averne vista l’ombra allungarsi in modo innaturale su un muro, distorta e terribile. Si parlò di maledizioni, si tirò in ballo Satana in persona, molte furono le preghiere nelle fresche chiese profumate di incenso. Nessuno però disse di essere riuscito a vedere il volto dell’assassino, e una cosa era certa: nessun uomo avrebbe potuto uccidere due persone in modo così orribile.
La bimba fu cercata ovunque, e la casa dei fantasmi piantonata giorno e notte, ma a nulla valse. Solo tre giorni dopo il piccolo corpicino martoriato fu trovato nella stanzetta, ormai tristemente famosa; questa volta aveva ancora addosso qualche brandello del vestitino, e in una mano stretta a pugno reggeva un sacchetto. Un piccolo sacchetto con un nastro rosso e sul fondo il simbolo del negozio di Sandro Furlan.
La folla inferocita che si radunò davanti al negozio sembrava seriamente intenzionata a linciare il pasticcere. Solo i poliziotti che circondavano l’ingresso lo impedivano, mentre l’ufficiale all’interno mostrava a Sandro la prova. La vecchina continuava ad urlare: “L’ho visto, è un mostro, è un mostro!”.
“Io vendo molti dolci a tante persone”, stava dicendo Sandro.
“Lo so”, disse il poliziotto, “ma per caso ha qualche spiegazione? Il suo negozio è molto vicino al luogo del delitto”.
“Anche questo non significa niente: chiunque può comprare le mie caramelle.” Si rigirava il sacchettino fra le mani. “E poi questo nastro… non è mio.”
Una pietra ribalzò contro la vetrina, incrinandola.
“Mamma, taci, per favore!” Urlò Sandro, sbottando. La vecchia si zittì, lo guardò e gli chiese, fissandolo: “Lo sa che mio figlio fa i dolci?”
Il pasticcere si portò una mano alla fronte, confuso: “Non c’è nessuna prova, io non ho fatto niente. Perché quelle persone mi attaccano?”
“La gente ha bisogno di trovare un colpevole, signor Furlan. E noi…”
“Oddio…”
“La prego di seguirmi, Signor Furlan”, intimò l’ufficiale con un tono che non ammetteva repliche: “Verificheremo la situazione”.
Poi, finalmente, una luce illuminò lo sguardo del pasticcere: “Un momento, la prego, un momento. Ho capito. Vede questo nastro?”
“Sì, certo.”
“Le ho già detto che non è mio. Non potete condannare una persona per un sacchetto di carta. Io so chi è! So chi è stato.”
C’era un venditore ambulante, spiegò Sandro, che bazzicava il lungomare con il suo carretto. Lo conosceva da tempo e spesso gli regalava qualcosa da mettere sotto i denti. Era una persona semplice, completamente analfabeta, che viveva in una baracca ai margini della città. Guadagnava qualcosa vendendo dolciumi, bibite e frittelle nei giorni di festa. E le sue confezioni erano tutte decorate con un nastrino rosso.
Per la polizia fu facile entrare in quella che lui chiamava casa, mentre lui non c’era, e trovarvi una piccola collezione di mutandine da bambina: a quel punto tutti i dubbi furono dissipati. Facile fu anche trovarlo mentre spingeva pigramente il suo carretto davanti al mare luminoso. Ma stavolta i poliziotti non arrivarono per primi: alcuni cittadini lo raggiunsero armati di bastoni e manganelli. Quando li vide arrivare, l’uomo non perse tempo a discutere: abbandonò il carrettino e si diede alla fuga, o almeno ci provò; fu raggiunto poco dopo e ammazzato a bastonate. Trieste perse un ambulante e nessuno lo pianse.
Il ventotto ottobre del 1921 una piccola donna triestina, nel silenzio della cattedrale di Aquileia, si tolse il velo nero e lo appoggiò su una bara di legno, semplice, la seconda di una fila di undici. La accompagnavano quattro militari. Ciascuna di quelle bare conteneva i resti di un soldato non più identificabile, caduto in guerra. Con quel gesto, una madre riconosceva in un cadavere sconosciuto quello di suo figlio morto in battaglia e mai ritrovato. Fu un evento epocale: il Milite Ignoto attraversò l’Italia sul treno, a tappe fino a Roma, accompagnato sempre da una folla oceanica.
Il mondo non poteva sopportare il peso di milioni di morti, di un’intera generazione cancellata dalla storia, di così tanto dolore e sofferenza: aveva bisogno di un simbolo, un filo per ricucire la ferita, per esorcizzare il Male. Forse lo trovò nel passaggio del Milite. La commozione unì un intero paese nella perdita. A Trieste, il quattro novembre, mentre all’Altare della Patria veniva tumulata la salma di questo soldato sconosciuto, l’atmosfera era silenziosa e concentrata. Il dolore di ognuno si univa in una grande celebrazione con quello degli altri, e nel momento dell’inumazione risuonarono le campane delle chiese e vennero sparati ventuno colpi di cannone.
Lo stesso giorno Sandro Furlan era felice: aveva ormai riguadagnato il rispetto e la stima dei suoi concittadini, aveva contribuito a risolvere il mistero della casa dei fantasmi, e gli affari giravano bene. Mise a letto la madre, che lo guardava con i soliti occhi lucidi e perduti.
Le disse: “Fai la brava, mamma. Io esco a mangiare”.
Si osservò nello specchio, compiaciuto: sollevò le fauci e si passò la lingua nera sulle zanne. Poi si ricompose. Assunse di nuovo il suo aspetto quotidiano, quello che usava nel mondo civile. Nascose la coda spinata sotto il lungo soprabito e uscì.
In mezzo ad una stradina, un piccolo bambino biondo giocava con le biglie. Sandro si accucciò per arrivare all’altezza del bimbo gli rivolse un sorriso.
“Ciao tesoro. La vuoi una caramella?”