L’inquietudine del vivere: da Madame Bovary alla felicità della gratitudine
D’altronde, più le cose si trovavano a portata di mano, più il suo pensiero si distoglieva da esse. Tutto quanto nell’immediato la circondava, la campagna noiosa, i piccoli borghesi imbecilli, un’esistenza mediocre, tutto le appariva un’eccezione nel mondo, frutto di una fatalità che la teneva in trappola, mentre più in là si allargava a perdita d’occhio l’immenso paese delle gioie e delle passioni.
Riflessioni di questo genere si affollano nella mente di Madame Bovary, protagonista dell’omonimo romanzo di Gustave Flaubert. Oltre a essere uno dei personaggi femminili più celebri della letteratura occidentale, la donna, tormentata dal divario che separa le fantasie dalla realtà, risulta essere una figura estremamente attuale.
“L’insufficienza di vita”
Emma Bovary è una donna a cui apparentemente non mancano i presupposti per essere felice: è sposata con un uomo che, sebbene difetti in sagacia e acutezza, si dimostra sempre buono e premuroso nei suoi confronti. Non si può definire ricca, ma non le manca di certo il denaro per concedersi qualche sfizio. Inoltre, in quanto moglie di un medico, ricopre una posizione sociale che la esonera da qualsivoglia lavoro manuale e le concede di dedicarsi interamente a se stessa.
Eppure Emma è tremendamente infelice. Dopo essersi sposata, si rende presto conto che la vita coniugale, il paese, la provincia sono dimensioni asfissianti che stridono con la maestosa grandezza delle sue aspirazioni. La ragazza sogna gli agi e la vivacità della vita cittadina, i galantuomini, lo sfarzo, desideri che di contro ricoprono inevitabilmente la provincia campagnola e bigotta con una patina di mediocrità. Tutto ciò che le è prossimo è oscurato da questo velo di tedio, inquietudine e disprezzo impossibile da squarciare. Viceversa, tutto ciò che è lontano, estraneo al suo mondo, rappresenta un ideale di perfezione esistenziale, a cui Emma tende in modo assoluto, vorace e violento, senza compromessi. La sua brama di esperienze sembra insaziabile, incurabile come l’infelicità.
“Ma da dove veniva quell’insufficienza di vita, quell’istantaneo imputridirsi di tutte le cose a cui si appoggiava?”
Ogni volta che Madame Bovary desidera qualcuno o qualche cosa e lo ottiene, lo consuma avidamente e poi, una volta esaurita ogni attrattiva, lo accantona come un giocattolo rotto per desiderare altro. Questo processo vorticoso e oscuro la porta a corrodere la sua stessa esistenza, trascinandola verso il vuoto fino all’autodistruzione.
Il Bovarismo
A seguito della pubblicazione del romanzo, dal nome di Madame Bovary verrà coniato il termine bovarismo, che designa un desiderio ossessivo di evasione dalla propria realtà dovuto ad un’insoddisfazione patologica nei confronti della propria condizione. In altre parole, il bovarismo è l’espressione formale del divario tra la manchevolezza del proprio essere e le proprie aspirazioni.
Chiunque, almeno una volta nella vita, ha sperimentato questa sensazione e si è sentito in trappola, prigioniero di un’esistenza mediocre tragicamente al di sotto delle proprie aspettative. La reazione più logica per liberarsi di questa angoscia è cambiare, ma in alcuni individui il bovarismo permane sempre e comunque sotto forma di un malessere costante, come un sapore di bile che corrompe il gusto di ogni giornata.
Questo è il caso di Emma, che sarà spinta al suicidio da questa “insufficienza di cose”. La parabola tragica della donna insinua nel lettore un quesito spontaneo: poteva Madame Bovary salvarsi? Esiste una cura al bovarismo?
L’inquietudine si trasforma in egocentrismo
Rispondere in modo definitivo a tale quesito è difficile, forse impossibile. Tuttavia, si possono riscontrare nella personalità di Emma Bovary alcuni elementi che le impediscono, se non di eliminare, almeno di arginare il fenomeno, primo fra i quali l’egocentrismo.
A livello tematico, l’opera tutta è talmente permeata da una visione unilaterale e autoreferenziale della realtà che questa chiave di lettura quasi sfugge. Se Madame Bovary fosse una sinfonia, l’egocentrismo corrisponderebbe al basso continuo, una costante apparentemente superflua ma su cui si regge l’intera architettura compositiva.
Durante il corso della vita, Emma inventa e costruisce attorno a sé un universo che funge da bolla, isolandosi progressivamente dalle visioni altrui. Le sue angosce riecheggiano tra le mura di una prigione in cui lei stessa, sempre al centro, è sia vittima che carnefice, aguzzina e reclusa; così facendo, si priva di tutte quelle gioie semplici che anche l’esistenza più misera sa regalare.
Ecco che nella sua vita “pensava che non ci fosse più niente da imparare, nulla per cui valesse la pena di commuoversi”.
Il desiderio vorace di una realtà ideale
In questo universo negativamente narcisistico regna sovrana l’idealizzazione di ciò che è Altro rispetto al suo vissuto quotidiano. Tutto ciò che ha già ottenuto, dai beni di lusso al matrimonio, le è indifferente o la disgusta, mentre quello che non possiede ancora ai suoi occhi coincide sempre con il Bello per eccellenza. Anche la visione del prossimo obbedisce a questi princìpi: gli amanti assurgono a un ideale di perfezione, mentre il marito Charles viene identificato esclusivamente con i suoi fallimenti.
Essere eternamente insoddisfatti coincide spesso con l’essere incredibilmente ambiziosi. Infatti, l’esistenza campagnola e ingannevolmente tranquilla di Emma è in verità una corsa selvaggia per ottenere di più, come fosse un cavallo con i paraocchi. Non è in grado di vedere realmente gli altri né si rende conto delle proprie fortune: la meta è sempre davanti a lei, il presente è terra brulla da calpestare.
Niente e nessuno riuscirà a far vacillare questa impalcatura di convinzioni radicali, mai sottoposte al confronto sincero con una mente esterna: Emma soffocherà schiacciata tra le anguste mura di un mondo tanto individualista quanto invivibile.
La cura della gratitudine
Evitare di essere nauseati e contrariati dalla nostra realtà di ogni giorno appare come una sfida ardua di questi tempi. Malgrado tutto, la letteratura può fornire sempre qualche valido spunto di riflessione. In particolare, nel caso di Madame Bovary, un invito a non essere come lei.
Sebbene possa sembrare un paradosso, saper accantonare temporaneamente i propri problemi e persino le proprie aspirazioni è una capacità salvifica, necessaria per stimolare un dibattito autentico tra la nostra interiorità e la realtà esterna. Porsi in ascolto, osservare senza giudicare ciò che accade al di fuori e a prescindere da noi sono attività spesso sottovalutate, ma in verità ci permettono di ridimensionare ciò che ci sembra drammatico e di rivalutare quegli aspetti positivi apparentemente insignificanti. Solo così si può assumere consapevolezza di tutto quello che effettivamente funziona nella propria quotidianità ed esserne grati. A tale proposito è illuminante l’aforisma attribuito al filosofo tedesco Adorno:
“La felicità è come la verità: non la si ha, la si è. Per questo nessuno che sia felice può sapere di esserlo. Per vedere la felicità, ne dovrebbe uscire. L’unico rapporto fra coscienza e felicità è la gratitudine.”
La gratitudine, questo filo sottile che collega le cose belle alla nostra capacità di riconoscerle come tali, dona un senso di appagamento profondo, quello che Emma ha cercato disperatamente senza mai trovarlo, perché la gratitudine per essere sperimentata presuppone un rapporto sano con ciò che ci circonda, un rapporto che lascia spazio all’altruismo e all’umiltà. Per imparare a essere grati è poi bene conservare anche un pizzico di quel realismo di cui Flaubert stesso era maestro e che, di nuovo, manca alla protagonista del suo capolavoro, così da non cedere alla tentazione di bollare l’intera esistenza come mediocre o insignificante, magari idealizzando quella altrui.
Ciò che cerchiamo spesso è davanti a noi
Riuscire a riconoscere la felicità nel proprio presente è un problema comune agli uomini di ogni epoca, così come l’affannarsi per cambiare e ottenere di più. Scrive Orazio, sommo poeta e uomo inquieto:
Strenua nos exercet inertia: navibus atque
quadrigis petimus bene vivere. Quod petis, hic est,
est Ulubris, animus si te non deficit aequus.
(Ci tormenta una faticosa inattività: con navi e
quadrighe cerchiamo di vivere bene. Quello che cerchi è qui,
è a Ulubre, se non ti manca una mente serena.)
Questi versi ci ricordano che ognuno di noi soffre per le proprie angosce, per le ambizioni stroncate, i sogni inespressi e probabilmente continuerà a farlo. Tuttavia, solo apprezzando anche ciò che si è già raggiunto è possibile dare un senso ai giorni, vivere gustando i momenti e non fagocitandoli.
Bibliografia:
Flaubert G. (2016), Madame Bovary, Milano, Feltrinelli Editore, prima edizione digitale 2016 da quindicesima edizione nell’ “Universale Economica”- I CLASSICI febbraio 2014
Sitografia:
Horatius, epistulae I,11, Musique deoque. Un archivio digitale di poesia latina dalle origini al Rinascimento italiano, http://www.mqdq.it/texts/HOR|epi1|011