Macbeth, 7 dicembre 2021 – Recensione
Prima di tutto, bentornati in teatro! Anche se lo stupore degli spettatori in sala è parzialmente nascosto dalle mascherine che ognuno è obbligato a portare sul viso, negli occhi vispi e curiosi del pubblico del 7 dicembre si intravedono la gioia e la speranza per essere di nuovo all’interno del Teatro alla Scala ghermito di spettatori, dopo molte restrizioni. L’opera che inaugura la nuova stagione scaligera è Macbeth di Giuseppe Verdi, in scena per la quarta volta negli ultimi 70 anni in un Sant’Ambrogio (nel 1952 diretto da Victor De Sabata, nel 1975 da Claudio Abbado con regia di Giorgio Strehler, e nel 1997 da Riccardo Muti), e che in questo 2021 completa il “trittico giovanile” di Verdi – così chiamato dal Maestro Chailly – , le cui opere hanno aperto la stagione della Scala a tre anni di distanza l’una dall’altra (Giovanna d’Arco nel 2015, Attila nel 2018 e Macbeth nel 2021).
Quale Macbeth
La prima assoluta del Macbeth, il 14 marzo 1847 al Teatro della Pergola di Firenze, fu un vero fiasco. Più che a causa della musica di Verdi, l’insuccesso è da imputare al fatto che il pubblico italiano non era pronto a veder rappresentato in scena Shakespeare, i cui testi venivano considerati esclusivamente da leggere anziché da inscenare.
Diversi anni dopo, il 19 aprile 1865, Verdi propone una seconda versione dell’opera, questa volta con libretto in francese destinata al pubblico parigino del Théâtre Lyrique, abituato a vedere Shakespeare in scena seppure in traduzioni di dubbia fedeltà all’originale. Nonostante le modifiche apportate alla partitura dallo stesso Verdi e le circostanze favorevoli intavolate molto bene, l’esito fu inaspettatamente negativo, in quanto la critica si rivelò inclemente nel giudicare il distacco di Verdi dalle traduzioni francesi di Shakespeare, inoltre la concorrenza dell’opera postuma di Meyerbeer (L’Africaine) in scena pochi giorni dopo all’Opéra lasciava spazio a molti confronti, e infine per la rappresentazione della recita non furono seguite le indicazioni del compositore nel migliore dei modi. Per questi motivi, complici tra loro nello screditare l’opera, Macbeth è approdato per la prima volta alla Scala solo nel 1874, nella sua seconda versione ma con il libretto in italiano di Francesco Maria Piave e Andrea Maffei.
Trovando consiglio nell’edizione critica della partitura edita da Chicago University Press e Casa Ricordi del 2005, il Maestro Chailly, direttore musicale del Teatro, ha deciso di mettere in scena la versione di Parigi – che è quella che si esegue solitamente – ma con l’aggiunta della scena della morte di Macbeth che è invece contenuta solo nella versione della Pergola.
La morte di Macbeth
L’edizione critica è un ottimo strumento di riflessione, ma che di certo non autorizza direttore alcuno a fare collage a piacere della partitura. Difatti quando si prendono decisioni di questo genere, differenti dalla volontà del compositore, bisogna sempre contestualizzarle e darne una spiegazione ragionevole. Chailly giustifica l’aggiunta con il richiamo armonico per cui gli accordi dell’orchestra in corrispondenza delle parole «Vil corona!» cantate dal baritono nella scena della morte sono gli stessi presenti nel Preludio dell’atto primo alle battute 24-25: un accordo di fa minore (in secondo rivolto) seguito da uno di do maggiore (in stato fondamentale). Dopo aver analizzato la situazione è il caso di domandarsi: è questa una motivazione sufficiente per manipolare la partitura?
Non si sta parlando certo dell’accordo del Tristano o di qualcosa di talmente riconoscibile per cui una riproposizione in due punti dell’opera implicherebbe un’associazione immediata, ma bensì di due accordi che costituiscono la più identificativa e comune della forme cadenzali. Però, in questo caso, l’orchestrazione è la medesima in entrambi i punti, e per di più questi accordi accompagnano un concetto decisivo per l’opera, la corona vile, che non è improbabile trovi un richiamo nel Preludio. Per cui – anche se qualche musicologo potrebbe dissentire – le ragioni del Maestro sono estremamente valide, e soprattutto hanno un precedente nel Macbeth di Abbado, di cui il giovane Chailly era assistente ai tempi della famosa rappresentazione scaligera che comprendeva anch’essa l’aggiunta della morte di Macbeth alla seconda versione.
Quello che invece c’è nella direzione di Chailly e che invece mancava al Macbeth del 1975 sono i ballabili, che Strehler avrebbe voluto mettere in scena ma a cui ha dovuto rinunciare per ragioni tecniche. Questa virtuosistica pagina strumentale del terzo atto è stata inserita da Verdi per la versione di Parigi, città in cui la danza è passion predominante dai tempi della Francia del Re Sole, ballerino provetto. Ma anche per le esecuzioni successive al di fuori dei confini francesi, lo stesso compositore scrive che il Macbeth deve essere rappresentato senza che venga mutilata la sua parte di balletto, ma questo ovviamente non è sempre possibile in tutti i teatri e in tutte le occasioni.
La Scala in famiglia
Non hanno bisogno di presentazioni perché sono sempre loro: si alternano e si scambiano, talvolta protagonisti e talaltra coprotagonisti, ma i nomi sui libretti del 7 dicembre sono gli stessi da sei anni a questa parte. Il baritono Luca Salsi in questa produzione è Macbeth (nelle precedenti prime ha interpretato Carlo Gérar in Andrea Chénier e Scarpia in Tosca), il soprano Anna Netrebko è Lady Macbeth (al suo attivo conta i ruoli nelle serate inaugurali di Giovanna d’Arco, Maddalena di Coigny in Andrea Chénier, e Tosca), il basso Ildar Abdrazakov è Banco (già protagonista di Attila) e infine il tenore Francesco Meli è Macduff (Carlo VII in Giovanna d’Arco e Cavaradossi in Tosca).
Tutti cantanti di altissimo livello adottati dalla bacchetta del Maestro Chailly, che su di loro si muove sicura in quanto musicalmente tra loro non ci sono segreti. Un grande vantaggio per il Maestro, ma lo è anche per chi ascolta? Il giorno di Sant’Ambrogio a Milano è presente il meglio che il mondo della lirica ha da offrire, ma è necessario ricordare anche che non è possibile che tutti i ruoli calzino a pennello a tutte le voci.
Di nuovo Livermore
Dopo quattro inaugurazioni consecutive, più che di collaborazione tra il Maestro Riccardo Chailly e il regista Davide Livermore si dovrebbe parlare di un felice matrimonio artistico. Attila, Tosca, il particolare 7 dicembre dello scorso anno e ora Macbeth: mai nessun regista nella storia del Teatro alla Scala ha firmato così tante prime consecutive.
Quest’anno Livermore si è trovato tra le mani un soggetto che ha moltissime possibilità e pochissimi vincoli, in quanto Macbeth è una storia fuori dal tempo, che si presta senza problemi alla trasposizione in qualsivoglia secolo e contesto. Non aveva ritenuto opportuno farlo con Tosca, per i riferimenti storici che l’opera contiene (anche se è sempre molto divertente vedere, nelle regie spostate temporalmente, l’entrata di Sciarrone al grido di: «Bonaparte è vincitor!»), ma la trasposizione al contemporaneo di Macbeth è addirittura suggerita dal carattere quasi onirico e profondamente indagatore del comportamento umano che percorre tutta la vicenda, nello stesso modo in cui tutta l’umanità nelle diverse epoche ne è soggetta.
Bisogna premettere che in tutto ciò che mette in scena, Livermore è sempre contraddistinto da un prezioso senso del buon giusto: non c’è mai qualcosa di brutto o sgradevole e neppure banale, ma questo non lo rende esente da ricevere ugualmente qualche appunto.
Il paradosso del piccolo schermo
Per questa produzione, il regista ha tratto ispirazione da diverse fonti cinematografiche del nuovo millennio, ma non ha tenuto conto di quel principio verificato empiricamente per cui il passaggio dal teatro al cinema funziona molto bene, mentre il viceversa un po’ meno, in quanto il risultato che per il grande schermo si ottiene con facilità mediante un green screen e una sapiente post-produzione, non potrà mai essere raggiunto dal più grande dei maxischermi posizionati in teatro. Livermore, nel tentativo di proporre la migliore resa televisiva, ha tappezzato il Tempio della lirica di una fitta coltre di pixel, sempre attivi nella riproduzione di immagini aventi la funzione di sfondo alla scenografia.
Lo scorso anno il maxischermo era stato uno strumento fondamentale per la riuscita del galà lirico, ma d’altro canto come si sarebbero potute altrimenti creare in poco tempo scenografie diverse per ogni aria e cantante senza l’ausilio della tecnologia?
L’uso che invece ne è stato fatto quest’anno si è rivelato quasi ridondante, in quanto l’enorme schermo è rimasto acceso costantemente (sarà contenta Edison, che è uno degli sponsor principali) anche quando le scenografie magistralmente curate dallo studio milanese Giò Forma avrebbero meritato di essere assolute protagoniste del palcoscenico.
In teatro l’effetto desiderato da Livermore si è un po’ perso (per la semplice e ovvia constatazione fisica che la scena è tridimensionale, mentre lo schermo rimane piatto, qualsiasi immagine venga trasmessa), ma il suo obiettivo di rendere l’opera adatta al piccolo schermo (la prima è stata infatti trasmessa in diretta su Rai1) è stato raggiunto alla perfezione, in quanto la resa televisiva impone che i cantanti si appiattiscano nei loro sfondi, e quello che si ottiene è qualcosa di davvero simile alle scene di un film.
Nel tentativo di creare un Macbeth telegenico, Livermore ha finito per gettarsi la zappa sui piedi. La parte che in teatro ha risaltato di più della sua regia – e che è anche la vera sfida di quest’opera – è quella dei ballabili del terzo atto, che il Maestro Chailly ha espressamente richiesto venissero trattati come delle pantomime. Da qui si capisce che Livermore è un uomo di teatro, e che guardare l’intera filmografia di Christopher Nolan non è bastato: le tre scene dei ballabili da lui immaginate e create con l’aiuto della recitazione dei cantanti, dal vivo sono risultate estremamente teatrali e hanno trovato il loro massimo splendore nella visione complessiva, che invece le telecamere e i loro primi piani sui volti dei ballerini hanno distrutto, facendo sembrare tutta la sezione un anonimo e sconnesso spettacolo di balletto.
Davide Distopico Livermore
Sul maxischermo di fondo si sono alternate vedute di città dai tratti irriconoscibili e distorte: grattacieli simili allo skyline di New York o Singapore, palazzi che ricordavano il centro di Milano, zone industriali di periferia, insomma una selezione di immagini non troppo caratterizzanti di luoghi reali ma scelte appositamente per ricreare una città distopica. Negli anni è molto chiaro come questo concetto di distopico sia molto caro a Livermore, il quale non se ne è mai separato in nessuna delle sue inaugurazioni scaligere.
Prima ad essere distopico era il ‘900, ora la contemporaneità, ma il processo resta identico, e questa metropoli dai tratti cupi e industriali – che sulla carta sarebbe dovuta essere un grande punto di forza della regia di Livermore – tende a collassare sulle fondamenta di un’altra città irreale (realizzata anche decisamente meglio), di cui è copia spiccicata sia ideologicamente che materialmente. D’altronde, la metropoli che si intravede dalle vetrate di casa Macbeth non nasce per lo stesso identico principio per cui hanno preso forma le vie di Gotham City? Livermore ha citato Inception di Nolan tra le sue principali fonti di ispirazione, e in alcune scene questo oltre a essere evidente è anche molto gradevole, ma in cima alla lista avrebbe dovuto menzionare la trilogia del Cavaliere oscuro, di cui questo Macbatman – o per chi preferisce Batmacbeth – ha molti riflessi.
Un regista di teatro
Una caratteristica positiva delle regie di Livermore è l’abolizione dei cambi scena, ma d’altro canto è abbastanza facile non perdere tempo quando in scena non c’è praticamente nulla. Ritornano nuovamente gli spostamenti mastodontici di intere parti di edifici, tuttavia ad essere sinceri funzionavano meglio le rotazioni della scena di Tosca, piuttosto che le traslazioni di Macbeth, anche se i movimenti in verticale hanno piacevolmente ricordato lo scorrere della pellicola di un vecchio film. Comunque, tutto si muove solo nel primo atto, le stanze che spariscono, si uniscono e si dividono, seguendo un movimento ascensionale che è presente sia macroscopicamente che microscopicamente con il vero e proprio oggetto fisico dell’ascensore. Però negli altri atti più nulla, c’è solo il maxischermo che crea dinamica: è sufficiente mettere il video di qualche nuvola o un po’ di fumo per tenere testa alla comparsa di un’intera stanza dal sottosuolo vista in precedenza? Forse per la resa televisiva può anche andare bene, in teatro invece il diminuendo dinamico tra i vari atti è davvero troppo drastico.
Una delle più grandi qualità di Livermore è invece la gestione dello spazio. Il regista è estremamente consapevole della sua intelligenza scenica e la sfrutta bene sul grande palcoscenico scaligero che ha a disposizione. Ricorrente in questo Macbeth è l’ottima idea di posizionare i cantanti nel vero e proprio centro del proscenio, grazie all’utilizzo dell’ascensore ferma a mezz’aria (per chi guarda dal loggione deve essere stato molto spassoso vedere la platea con il naso all’insù e un conseguente torcicollo). Grazie a questa notevole intuizione riguardante lo spazio, il teatro viene riempito in un modo nuovo e anche più completo dalla voce dei cantanti, che hanno eseguito molte arie e duetti all’altezza del terzo ordine di palchi (che verticalmente è l’esatto centro del teatro).
In conclusione, guardando il Macbeth contemporaneo inscenato da Livermore, viene spontaneo domandarsi: a quale epoca appartiene un uomo che tiene il cellulare in tasca e la spada al fianco? Non è chiaro fin da subito che le armi e la corona sono dei simboli, e quindi fuori dal tempo, e inizialmente questo strano accostamento può risultare abbastanza buffo. Conseguono in modo naturale altre domande: questi elementi sono necessari? La «vil corona» è un concetto così materiale? Probabilmente no, anzi, sarebbe stato geniale eliminare tali simboli (che anche senza l’oggetto fisico in scena sono ugualmente comprensibili dal libretto), ma forse un po’ troppo audace per Livermore.
Sana competizione
Il capodanno dell’opera è il 7 dicembre, non solo a Milano, non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Quest’anno, però, qualcuno ha iniziato a fare i fuochi d’artificio già prima, e l’eco si è sentito fino in pazza della Scala. Il Teatro Costanzi di Roma, che ha inaugurato la sua stagione il 20 novembre con la prima assoluta del Julio Caesar di Giorgio Battistini, ha messo in scena un’opera ambientata nel contemporaneo che ha ricevuto moltissimi consensi. La regia è firmata da Robert Carsen, una vecchia conoscenza scaligera, che ha inscenato l’assassinio di Giulio Cesare in una moderna aula di parlamento.
Il concetto per cui la politica viene uccisa a teatro quando nella vita di tutti i giorni succede il contrario (il mondo dello spettacolo ancora fatica a rialzarsi), è talmente ambizioso e sorprendentemente coraggioso da sembrare impensabile, così come ha dell’assurdo immaginare i politici che pagano un biglietto per andare al Teatro dell’Opera di Roma a vedere inscenato il loro omicidio e poi addirittura applaudirlo soddisfatti. Forse qualcuno non si rende conto di quanto questo messaggio profumi di ribellione (chi pensa che il teatro debba essere apolitico è solo un perbenista, l’arte deve essere apartitica, ma l’artista è da sempre impegnato nel quotidiano), altro che Livermore che si mette a giocare con gli schermi colorati: è difficile da ammettere, ma il Julio Caesar romano è una vera e propria coltellata alla schiena del Macbeth scaligero.
Lady Macbeth
Anna Netrebko è probabilmente il sogno di qualsiasi regista: bella, elegante, espressiva, e tutto questo – e molto altro ancora – è solo il contorno alla sua voce meravigliosa. Bisogna ammettere però che la recita del 7 dicembre non è stata una delle sue migliori dal punto di vista canoro, come già successo anche in passato per Tosca. Le sue doti attoriali hanno tuttavia compensato le lievi carenze, consacrandola ugualmente protagonista indiscussa della serata. La contraddistingue la capacità innata di stare sul palcoscenico con una naturalezza quasi surreale: non è mai statica e non si limita a fare i gesti di circostanza che molti cantanti fanno con le mani (se si presta attenzione, spesso le allargano quando c’è un crescendo e le ricongiungono nei diminuendo), ma riesce a immergersi in una maniera incredibilmente vera all’interno della scena, magari attraverso uno spontaneo passo in avanti, un movimento teatrale con la mano, l’interazione con qualche oggetto, la direzione dello sguardo, e il tutto mentre sta cantando Verdi!
La parte di Lady infatti non è per nulla semplice, e ancor più difficile è mediare l’incontro tra quel miracolo timbrico che è la voce della Netrebko e le indicazioni che Verdi richiede alla protagonista femminile di quest’opera, la cui voce deve essere «aspra, soffocante, cupa». Si nota che i panni di Lady non sono cuciti su misura per lei, ma comunque è riuscita a indossarli in modo che le stessero ugualmente molto bene. Il registro medio-acuto è quello in cui splende maggiormente, mentre quello grave è risultato spesso troppo sforzato, il che non è sgradevole in Macbeth, purché sia fatto con coscienza e non per limiti vocali. Nella famosa scena del sonnambulismo, invece, è riuscita a trovare dei colori spaventosamente delicati, vicini al sussurro infernale del rimorso, un peccato che l’orchestra non sempre l’abbia assecondata al meglio.
Oltre all’impegno nella parte vocale, la Netrebko è stata protagonista della pantomima del terzo ballabile, in cui lei stessa ha danzato. Impossibile scollarle gli occhi di dosso nel ballo frenetico e scomposto immaginato da Livermore (e coreografato da Daniel Ezralow) che racchiude quell’ambiguità legata al personaggio di Lady Macbeth, per cui il disgusto per la sete malata di potere si trasforma in qualcosa di attraente. Perfettamente a suo agio, è riuscita addirittura a oscurare i ballerini professionisti che le stavano accanto, e nonostante per una cantate sia anomalo ricevere richieste sceniche di questo tipo, lei si è lanciata ugualmente, e probabilmente si è anche divertita molto.
Le voci maschili
Grandi aspettative per Luca Salsi, in quanto Verdi è il suo pane. È un interessante Macbeth, con un approccio alla parte molto rispettoso di Verdi e di buona presenza scenica (è molto difficile risaltare con accanto Anna Netrebko). Non sempre preciso dal punto di vista vocale, raggiunge un ottimo livello complessivo nella scena del brindisi di cui è protagonista, contribuendo a incoronare la scena quinta del secondo atto come uno dei punti meglio riusciti dell’intera opera. Talvolta un po’ statico vocalmente, forse a causa del fatto che è molto incollato alla bacchetta, il che da che mondo e mondo dovrebbe essere un grande punto a suo favore (i cantanti vengono spesso presi in giro perché si dice che non siano capaci di seguire il direttore, in quanto in passato nel vecchio ordinamento di conservatorio facevano meno della metà delle ore di solfeggio degli strumentisti), ma in questo caso sarebbe stato forse meglio compiere qualche gesto più audace.
Ildar Abdrazakov rimane un po’ anonimo, forse a causa del contesto che ha favorito altri punti di interesse piuttosto che le arie del basso. Un discreto risultato vocale, ma se lo si mette a confronto scenicamente con gli altri cantanti in palcoscenico – il che è inevitabile – risulta essere un po’ impalato. Del suo Banco sarà ricordata l’enorme gigantografia fusa ai palazzi comparsa sul maxischermo dopo il suo assassinio: anche se indubbiamente Abdrazakov è un bell’uomo, non era necessario vedere la sua faccia comparire nel cielo a mo’ di apparizione divina.
Il ruolo di Francesco Meli in quest’opera è davvero marginale: Macbeth è interessantissimo dal punto di vista timbrico proprio per il suo colore profondo, dovuto all’utilizzo accessorio della voce di tenore.Per di più le parti di tenore sono anche abbastanza infelici, in quanto Macduff e Malcom spesso cantano all’unisono. Meli di certo non si fa mettere i piedi in testa, ma il giovane Iván Ayón Rivas riesce a incanalare molto bene l’adrenalina della sua prima alla Scala in una vivida grinta.
C’è anche della musica
È inutile negare che la direzione che l’opera sta prendendo in questi ultimi anni è fortemente guidata dal palcoscenico, ma bisogna ricordare che il dramma teatrale è fatto anche e soprattutto di professori d’orchestra in buca che imbracciano i loro strumenti e di coristi che scaldano la voce dentro e fuori la scena. Le redini del 7 dicembre sono nelle mani di Livermore da ormai un paio d’anni, il Maestro Chailly rimane sempre un passo indietro.
La direzione del suo Macbeth, comunque, è stata scorrevole e molto riflettuta. Da alcuni punti si capisce che ha passato molte ore su quella partitura ancor prima di prendere in mano la bacchetta. Colori molto intesi e tenuti nei forti, un po’ meno d’effetto i piano, ma questa non è una novità. Orchestra non sempre precisa, ma nessun grave incidente di percorso. Ottimo debutto invece per Alberto Malazzi, alla guida del coro nel suo primo Sant’Ambrogio, che grazie a lui acquisisce un nuovo velo di freschezza.
Macbeth
Ultimo accenno ai costumi di Gianluca Falaschi, semplici e composti, ma molto curati e artefici di un effetto cromatico davvero suggestivo quando indossati dal coro delle streghe e quello di esuli scozzesi. Un dettaglio particolare sono le grù ricamate sui completi di Macbeth e sugli eleganti abiti di Lady, che hanno aggiunto uno spunto di carattere che per alcuni versi sembra distante dalla ricercata semplicità di Livermore.
L’appuntamento con il Macbeth di Verdi è fisso per molti direttori stabili del Teatro alla Scala, che ne mette in scena una rappresentazione nel giorno della prima circa ogni vent’anni. Livermore e Chailly firmano questa produzione che, indipendentemente da un giudizio positivo o negativo, è insindacabile che sia un grande lavoro.
Infine, bello o brutto questo Macbeth? La risposta a questa domanda si perde nella domanda stessa, che è la giusta chiave di lettura del testo di Shakespeare, in cui l’intervento iniziale delle streghe «Fair is foul, and foul is fair» (cioè «Il bello è brutto, il brutto è bello») è la premonizione dell’ambiguità che percorre tutta l’opera.
Un’opera in cui non compare il sentimento dell’amore ma che quando è ben rappresentata è davvero capace di farsi amare.