«Ma un altro tempo non c’è» – ricordando Giovanni Giudici
Nel 2024 molte sono state le occasioni di rammemorazione di un poeta della grandezza di Giovanni Giudici, del quale quest’anno ricorre il centenario dalla nascita nel borgo ligure di Le Grazie, vicino a Portovenere.
La rilevanza intellettuale di Giudici si è manifestata nell’ambiente culturale italiano (e non solo) nella sua totalità: si limitano a ricordare in questa sede le scritture saggistiche, le collaborazioni con giornali del calibro dell’Unità, con le rubriche Trentarighe e Dietro lo specchio, nonché i contributi su testate come il Corriere della Sera e la toscana il Tirreno con la rubrica Fildifumo, fino all’impatto dell’attività di traduttore di testi letterari e saggistici dall’inglese, spagnolo, francese, ceco e russo.
Volendo fornire un’ulteriore occasione di riflessione sull’autore, risulta impossibile non soffermarsi sulla produzione poetica: in particolare, significativo è stato l’impatto della poesia di Giudici nel corso degli anni Sessanta, decennio ben noto per la propria vivacità culturale conseguente al fenomeno del boom economico e dei rapidi cambiamenti sociali. Inoltre, gli studi condotti nell’ultimo decennio hanno permesso il fiorire delle indagini delle carte d’archivio, con il risultato di un quadro d’insieme sempre più ricco e nitido del pensiero e delle relazioni di Giudici nel panorama letterario in cui è inserito.
La vita in versi e Autobiologia, opere edite rispettivamente nel 1965 e nel 1969, permettono di concentrare l’attenzione sullo sviluppo della concezione dell’individuo e, nello specifico, delle possibilità di articolazione linguistica nel tentativo di strutturare il caos del reale: «dominare la lingua è dominare, nei limiti della nostra finitezza, il reale»1.
Se con la prima opera si parte, infatti, dalla possibilità di analisi di un soggetto situato, non senza tensioni e controspinte, nel cronotopo milanese degli anni Sessanta, la seconda consente di assistere allo sviluppo nichilistico della percezione della voce poetica ormai sganciata dall’ancoraggio necessario a un luogo preciso: la riflessione inaugurata con La vita in versi si fa più disincantata, e gode ormai di propria autonomia stilistica e, di conseguenza, esercita maggiori libertà e virtuosismo dal punto di vista linguistico e metapoetico.
Le coordinate spazio-temporali della città di Milano negli anni Sessanta sono indubbiamente da prendere in considerazione come influenza cruciale per il poeta e non solo. L’orizzonte poetico e romanzesco del decennio non può prescindere dalla contestualizzazione storico-sociologica del boom economico e delle sue conseguenze, proprio perché ogni autore del tempo non solo ne prende attivamente parte, ma ne è immerso dal punto di vista sociale, letterario e culturale: Giudici compone La vita in versi, Autobiologia, intrattiene scambi epistolari con figure di spicco quali Sereni, Zanzotto e Fortini (con gli ultimi due dei quali compie nel ’68 un fondamentale viaggio a Praga), collabora con giornali, traduce saggi come Il problema del linguaggio poetico di Tynianov e legge Lukacs nello stesso contesto in cui si forma la neoavanguardia, Pagliarani fa uscire La ragazza Carla (1962) e Lezioni di fisica (1964), Sereni Gli strumenti umani (1965), e compaiono romanzi fondamentali quali Memoriale di Volponi, La vita agra di Bianciardi e Il calzolaio di Vigevano di Mastronardi (1959). Proprio sulle opere di Volponi e di Bianciardi, nota Alberto Bertoni «che hanno avuto quasi di certo un’influenza diretta sulla costruzione del personaggio che dice io entro la Vita in versi e sulla riconosciuta impossibilità di insediarlo nei confini di un qualsivoglia processo formativo e comunque di uno spazio accogliente e amico, capace di definire la giusta distanza dagli oggetti, dagli eventi quotidiani, dalle altre persone»2.
Se dunque l’ambiente del quale il poeta è parte lo accomuna e lo avvicina ad altri grandi autori coevi, ancora più impellente risulta essere il bisogno di delineare quale sia la cifra caratteristica del soggetto-personaggio nella poesia di Giudici.
È sempre Bertoni a evidenziare quale sia
la vera novità introdotta da Giudici nella poesia italiana: la riproposizione, usurata e quasi corrosa, degli strumenti tradizionali della poesia in un contesto tutto romanzesco e – con l’approdo altrettanto decisivo al secondo libro, Autobiologia – sceneggiato, con l’impossibilità dell’autobiografia individuale estesa parodicamente a all’esperienza della specie.3
Le scelte stilistiche di rappresentazione del soggetto-personaggio di Giudici sono, dunque, orientate a una rappresentazione teatrale e tipizzante che, prendendo le mosse da elementi autobiografici di base, vuole mettere in evidenza esattamente l’individuo di interesse in questo frangente spazio-temporale, alle prese con una metropoli industrializzata dominata da una mobilità sociale inedita carica di luoghi d’ombra ed equivoci.
Il soggetto è ben lontano da essere fonte di chiarezza e soluzioni, come ben si vede da un testo come Mi chiedi cosa vuol dire4: usando quegli strumenti tradizionali della poesia, Giudici inscrive in una gabbia isostrofica, anisosillabica e filastroccheggiante ricca di rime, enjambement, anastrofi e assonanze una spiegazione della parola chiave del secolo industrializzato, ovvero alienazione. Tuttavia, il tono rimane sconsolato e sconfitto:
È un’altra vita aspettare,
ma un altro tempo non c’è:
il tempo che sei scompare,ciò che resta non sei te.5
La vita all’insegna dell’alienazione moderna, «qui dove il male è facile e inarrivabile il bene»6 si ripete sempre uguale, senza possibilità di scampo, senza vera speranza di poter trovare una via di fuga: «Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura / che dice: domani domani… pur sapendo / che il nostro domani era già ieri da sempre»7
Se è questa la condizione caratterizzante dell’individuo meccanismo del cronotopo milanese, ci si può domandare quale sia o, più drasticamente, se ci sia un ruolo speciale per il poeta, specie considerando il linguaggio comune e colloquiale caratteristico di Giudici: il lavoro di scrittura poetica offre la possibilità di «arginare il male e l’affanno»8 dal momento che «basta un nuovo ordine di parole per non sentirsi più bersaglio indifeso».9
Esattamente questa è la mansione che il poeta stesso si affida con la poesia La vita in versi, in cui è esemplificato uno slancio dotato di maggiore vitalità nel cercare di dare forma al reale:
Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.[…]
Inoltre metti in versi che morire
è possibile a tutti più che nascere,
e in ogni caso l’essere è più del dire.10
La poesia ha il compito di eseguire una trascrizione di ogni dettaglio del mondo in cui l’essere umano (non solo l’individuo Giudici) si trova, effettuare una «trasposizione in verso […] di vicende comuni e tipiche»11, con tutte le contraddizioni e punti chiaroscurali, ambigui o esplicitamente problematici: l’alienazione (Mi chiedi cosa vuol dire), l’identità politica e lo scontro con quella religiosa (Il socialismo non è inevitabile; Come un errore), le vicissitudini rievocate con l’attività memoriale, da quelle infantili (Nelle sole parole che ricordo; Piazza Saint-Bon) a quelle romane da giovane adulto (Tornando a Roma; Roma in quel niente), i dilemmi suscitati dalla vita cittadina e impiegatizia rispetto alla sacralità del privato (Se sia opportuno trasferirsi in campagna; Le ore migliori).
Nella seconda importante opera di Giudici, Autobiologia, la critica e lo sconforto che attanagliano il soggetto si fanno più pregnanti. Stilisticamente, mantenendo la propria tendenza all’isostrofismo e alla ritmicità del dettato, il poeta si dedica a una maggiore libertà sintattica, determinando una complessiva diminuzione della linearità.
Un particolare esito del nuovo slancio sperimentale lo si può ravvisare nell’inserimento di una sezione in una prosa incalzante e colloquiale, intitolata Morti di fame, in cui la tematica dell’ascesa sociale in un contesto sempre più mobile come la metropoli contemporanea si intreccia con l’autobiografia e lo slancio memoriale per mettere a fuoco il sentimento che davvero è pervasivo nel soggetto: il senso di una colpa inespiabile, di una macchia impossibile da cancellare, che in ogni contesto lo contrassegna come colui che in realtà non appartiene a quel mondo spietato cui tanto aspira, creando una contrapposizione quasi bellica tra collettività, noi contro gli altri:
Così uno che in partenza ha sempre qualcosa da farsi perdonare è mezzo fregato, inevitabile, deve sempre fare il doppio della fatica degli altri, darci dentro come dicono qui, sperare che intanto non se ne accorgano, perché se se ne accorgono sei spacciato.
[…]
Sembra che noi abbiamo paura, invece non è vero, hanno più paura loro, solo che noi non lo sappiamo e crediamo di avere più paura noi.
[…]
Sì lavoriamo il doppio facciamo le cose bene, perché Dio ci vede, d’accordo, ma anche perché altrimenti ti fanno fuori.12
Ancora una volta, nonostante gli inserti di vita fortemente personali (ricordi di scuola, di carriera militare, di vita sociale in genere), anche con lo strumento prosa Giudici offre al lettore un punto di contatto, una collettività tipizzata di cui far parte, con cui simpatizzare.
La capacità di creare questo «uomo impiegatizio»13, ovvero «una specie di suo doppio, un personaggio che si nasconda nell’io nel tu e nel lui, […] una caricatura del sé in quanto tipo, generalità»14, unitamente alle tecniche retoriche e stilistiche con cui lo ha messo in scena, è sicuramente una delle novità e dei lasciti più interessanti che di cui si può far tesoro della produzione di Giovanni Giudici.
- G. Giudici, Andare in Cina a piedi. Racconto sulla poesia, a cura di Laura Neri, Ledizioni, Milano, 2017, p. 30 ↩︎
- A. Bertoni, Una distratta venerazione. La poesia metrica di Giudici, Book Editore, Bologna, 2001, pp. 14-15 ↩︎
- Ivi, p. 20 ↩︎
- G. Giudici, La vita in versi, Scalpendi, Milano, 2021, p. 40 ↩︎
- Ibidem ↩︎
- G. Giudici, Una sera come tante, in La vita in versi, Scalpendi, Milano, 2021, p. 67 ↩︎
- Ibidem ↩︎
- C. Viviani, Giudici: la presenza dell’affanno e del ritmo, in A. Cadioli (a cura di) «Metti in versi la vita. La figura di Giovanni Giudici», Sussidi eruditi, Roma, 2014, p. 15 ↩︎
- Ibidem ↩︎
- G. Giudici, La vita in versi, in La vita in versi, Scalpendi, Milano, 2021, p. 128 ↩︎
- G. Giudici, Agenda 1960, p. 100, citazione da «La vita in versi nelle agende inedite degli anni Sessanta», E. Gambaro, in A. Cadioli (a cura di) Metti in versi la vita. La figura di Giovanni Giudici, Sussidi eruditi, Roma, 2014, p. 129 ↩︎
- G. Giudici, Morti di fame, in Autobiologia, Mondadori, Milano, 1969, pp. 74-78 ↩︎
- A. Zanzotto, I drammi di un ceto nella poesia di Giudici. L’uomo impiegatizio, in «Corriere della Sera», 28 aprile 1977, p. 3 ↩︎
- Ibidem ↩︎