L’ultima immagine di James Hillman e Silvia Ronchey – Premio Viareggio Rèpaci 2022
Corre l’anno 2008: uno dei più celebri psicanalisti viventi, James Hillman, e un’accademica italiana, Silvia Ronchey, passeggiano per le vie di Ravenna. Sono lì per osservare, per conversare e meditare su un tema vastissimo, forse il tema centrale della nostra contemporaneità: il senso dell’immagine. Il frutto delle loro riflessioni è contenuto nel saggio in questione, candidato al premio Viareggio Rèpaci 2022. L’ultima immagine consiste infatti nella trascrizione di un flusso dialogico che dal 2008 si dipana fino al 2011, anno della morte di Hillman. Come scrive la stessa Ronchey, l’opera può essere considerata il suo testamento etico e concettuale in merito al ruolo dell’immagine nella sua psicologia e, non da ultimo, nella società odierna. Che cosa si intende dunque per immagine nell’opera hillmaniana? E che cosa può trarre un non addetto ai lavori da questa idea?
Lo stile e i frammenti
Leggendo L’ultima immagine si ha l’impressione di assistere da spettatore a una lunga e coltissima chiacchierata tra due sconosciuti in cui al centro del dibattito non ci sono le vacanze o il meteo, ma concetti come il paganesimo, l’eterno femminile e il rapporto tra immagine e anima. Il tono della conversazione è intimo, pacato, meditabondo: se ci si concentra si può anche percepire il rumorio sommesso tipico di chi elabora pensieri intricati emergere dalle pagine. Come in preda a un incanto modernista, Hillman e Ronchey sorvolano epoche, luoghi, miti componendo di tassello in tassello un amplissimo mosaico culturale attorno al tema dell’immagine, tema che però resta enigmatico, per non dire fumoso. Difficile riconoscere nell’ammontare delle tessere un ragionamento coeso e argomentato: l’icona resta insondabile.
Il dialogo platonico tra i due studiosi resta quello che è: uno scambio erudito che mira alla sintesi senza saper giustificare il percorso. Nonostante il tentativo di identificare i principali nuclei argomentativi dell’opera nell’introduzione, il saggio resta disorientante a una prima lettura. Si parte dal crollo di Wall Street tracciando un parallelismo con la fine dell’Impero Romano d’Occidente per poi passare a una riflessione sulla morte, riflessione che dopo poche pagine termina per lasciare il posto a un aneddoto su Jung. Nessuna delle questioni sopra descritte viene approfondita: ciascuna delle domande metafisiche proposte viene relegata in un esiguo spazio editoriale, tanto che l’opera pare più un libro di sententiae senecane che un vero e proprio saggio.
L’immagine, l’archetipo, il simbolo
Gli spunti proposti sono molti, così tanti da rendere complicata l’operazione letteraria di chi ambisce a offrirne un sunto. Si potrebbe affermare che L’ultima immagine sta al saggio come La terra devastata di Eliot sta a un poema didascalico: l’obiettivo di chi scrive non è fornire una spiegazione logica, ma far emergere una verità sepolta sotto gli strati del reale servendosi di suggestioni, metafore e aneddoti. Tuttavia, la conclusione a cui Ronchey e Hillman giungono grazie al loro dibattito peripatetico è chiara: un’immagine è in primis un simbolo, un tramite che veicola dei significati invisibili, ma percepibili per chi sa interpretare. L’influenza del pensiero di Jung, mentore di Hillman, è indubbia; la sua teoria psicanalitica si basa per l’appunto sul presupposto che l’inconscio si esprima con un linguaggio figurativo.
Sia per il maestro che per l’allievo quindi, l’immagine può essere paragonata a un portale di accesso per dei contenuti preclusi alla mente razionale. In particolare, le immagini che veicolano dei significati simbolici possono essere l’espressione degli archetipi, pietre miliari della teoria psicoanalitica junghiana. Essendo gli archetipi delle forme tipiche di comportamento sepolte nei meandri più profondi della psiche, per emergere necessitano di un evento o di una situazione che fornisca loro del materiale rappresentativo affine: di qui il ruolo dell’immagine. L’immagine evoca, richiama, ripesca concetti tanto reconditi quanto essenziali per scoprire la propria essenza individuale, quella che sia Jung che Hillman chiamano “anima”:
Questo è ciò che mi ha insegnato Bisanzio. Mi ha insegnato che c’è un’immagine più profonda dell’immagine visibile. che sotto, anzi no, dentro, all’interno di ciò che è in mostra, della presentazione dell’immagine, c’è l’immagine invisibile. ed è l’immagine invisibile che ci guarda mentre guardiamo l’immagine visibile.
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Immagini “vere” e facies
Lungo tutta l’opera, Hillman parla dell’immagine invisibile, ossia dell’anima, come di qualcosa che va scoperto oltrepassando le apparenze della realtà fenomenica: le immagini visibili fungono da tramite, ma vanno superate per raggiungere uno stato ulteriore di consapevolezza. Tuttavia, ne L’ultima immagine l’autore non si limita a ripercorrere i passi di Jung, ma aggiunge una distinzione importante tra le immagini “vere” e quelle definite “facili”, dal latino facies, termine che indicava l’aspetto esteriore, l’involucro. Sono immagini facili quelle della televisione e della pubblicità, e tutte quelle che non forniscono uno spunto meditativo: per fungere da tramite, l’immagine deve invitare alla contemplazione statica. Un esempio perfetto è fornito dalle icone bizantine e dai mosaici che i due autori ammirano nelle chiese di Ravenna; si tratta di immagini che impongono allo spettatore la sospensione del tempo, fornendo a chi le osserva un antidoto contro la frenesia fagocitante del mondo moderno.
Nonostante Hillman si spenga agli albori della cosiddetta era social, le sue riflessioni sull’immagine risultano quantomai attuali. Oggi più di dieci anni fa viviamo immersi in una cultura visuale la cui pervasività è tale da passare spesso inosservata: le immagini sono rapidissime, sono troppe per essere processate. Invece che incoraggiarci implicitamente a riflettere, spingono all’azione performante dell’emulare o dell’acquistare. Sono, per utilizzare dei termini hillmaniani, propagandistiche e pornografiche, nel senso che ci trascinano dentro idolatrie materialistiche inebrianti, ma sterili.
L’ultima immagine: la coagulatio
All’interno del saggio, l’idea dell’immagine contemporanea come facies non è la sola idea felice che resta cristallizzata sotto forma di spunto, senza conoscere un ulteriore sviluppo: anche il concetto del paganesimo inteso come un modus vivendi ideale per l’uomo contemporaneo resta come sospeso tra la varietas eclettica dei due autori. Ciò che si evince da L’ultima immagine è che il paganesimo sia un atteggiamento non fideistico di apertura verso la polifonia del reale, un principio laico di tolleranza e accettazione della pluralità. Il tutto risulta senza dubbio molto suggestivo, ma, come detto in precedenza, scarsamente dibattuto e argomentato.
Lo stesso discorso vale anche per i concetti di eterno femminile e della tutela ambientale, esposti in modo vago e in definitiva poco rilevante ai fini della trattazione. La seconda parte dell’opera è a tutti gli effetti un colloquio con un uomo in procinto di lasciare questo mondo, un intellettuale, certo, ma pur sempre un uomo. Questo spiega in parte lo stile aforismatico in cui Hillman si esprime: l’interesse di un uomo morente per l’argomentazione puntuale risulta, comprensibilmente, relativo. In prossimità della soglia estrema, manca il tempo di sprecare parole inutili.
Non è un caso che lo psicanalista parli della sua capacità di cristallizzare e formulare, di coagulare i concetti fissandoli in un punto denso, sospeso nella storia. Ne L’ultima immagine questa affascinante facoltà sopraggiunta nell’ultimo periodo della sua vita si rivela – anche per merito della tecnica maieutica dell’intervistatrice Silvia Ronchey – nella sua duplice ambiguità. Da un lato ammalia grazie allo straordinario calibro culturale del dialogo, dall’altra evita di sciogliere qualsiasi questione esposta. L’immagine e il suo ruolo contemplativo, quasi mistico, resta un enigma allusivo: L’ultima immagine ne fornisce un assaggio.
Bibliografia:
James Hillman, Silvia Ronchey, L’ultima immagine, Milano, Mondadori, 2021