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“Locus desperatus” di Michele Mari – Premio Campiello 2024

di Niccolò Gualandris

Torna in libreria Michele Mari con Locus desperatus (Einaudi), finalista al Premio Campiello 2024: un romanzo dal titolo filologico che indica una porzione di un testo antico inevitabilmente corrotta e pertanto non più ricostruibile dagli studiosi. La crux desperationis, il simbolo utilizzato per segnalare tale luogo testuale, è, in questo nuovo libro di Mari, ennesimo feticcio e memento della paura per l’oblio che affligge il protagonista.

C’è poco da dire sull’autore, ormai un classico in vita, se non quanto questo ritorno al romanzo – un romanzo pure spurio e contaminato da una voce in prima persona più vicina al Mari maturo di quanto egli possa o voglia ammettere – fosse atteso con trepidazione. Se è dubbia l’attribuzione del titolo di romanzo a Leggenda privata del 2017, “autobiografia forzata” (e suo ultimo capolavoro), in cui dei mostri costringono Mari a raccontarsi senza rifugiarsi nell’alter-ego bambino di Michelino, affrontando per la prima volta il difficile rapporto dell’autore con i propri genitori, allora bisogna risalire al giocoso bildungsroman d’avventura Roderick Duddle, del 2014, per rintracciare l’ultima prosa lunga di “pura invenzione” del Nostro.

In questi dieci anni si è consolidata la canonizzazione definitiva dello scrittore milanese; oltre al pluripremiato Leggenda privata, ricordiamo l’edizione accresciuta del volume di saggi, articoli e prefazioni I demoni e la pasta sfoglia (2017);  La Morte attende vittime (2019) il volume a tiratura limitata edito da NERO che raccoglie la sua produzione fumettistica, tra tarda infanzia, adolescenza e prima età adulta;  il lungo libro-intervista Scuola di demoni, a cura di Carlo Mazza Galanti (2019), in coppia con Walter Siti;  Asterusher. Autobiografia per feticci (2015; 2019), che cristallizza con le fotografie di Francesco Pernigo la famosa villa di Nasca, teatro delle avventure del Michelino di Verderame (2007) e fonte inesauribile di materiale memoriale-narrativo per l’ingegno di Mari e l’appartamento milanese dell’autore maturo, ricettacolo di feticci e souvenir, residenza e officina del miglior fabbro della narrativa italiana contemporanea. Nel 2020 il pensionamento dalla docenza universitaria, la morte del padre, il celebre designer Enzo Mari nello stesso anno e un trasloco; l’addio, forse definitivo, a Milano.

Michele Mari nel 2024 (foto Premio Campiello)

Non si vuole qui indugiare nella mera biografia o – peggio – nel biografismo, bensì tenere traccia brevemente di una serie di eventi che hanno segnato il passaggio a una nuova fase della vita dell’autore e che si intersecano alla sua produzione attuale, insieme al percorso di canonizzazione di cui è al momento protagonista. La raccolta di racconti Le maestose rovine di Sferopoli (2021) è la prima opera in cui si avvertono i segni di questo “stile tardo”, tendente più che mai alla riproposizione di moduli e temi già esplorati in precedenza. 

Sferopoli è una raccolta di prose eterogenee, per metà già edite e disperse in volumi collettivi o riviste negli ultimi anni; per l’altra metà composte ad hoc per conferire maggiore omogeneità al volume. Sulla riuscita di questa operazione auto-antologizzante aleggia qualche perplessità ma alcuni racconti spiccano e sono una gradita aggiunta per i lettori di Mari. In particolare, Sghru, tra i racconti “nuovi” della raccolta, mette in scena un colloquio d’esame, caratterizzato da un atteggiamento di delusione e disillusione sulla preparazione media degli studenti e fa percepire una certa stanchezza del protagonista professore, finché l’esaminato non inizia a parlare in una lingua sconosciuta e mostruosamente lovecraftiana; Come venne ricordato mio padre nel cimitero di Lambrate, invece, tematizza la morte del padre, con un personaggio che, chiamato a parlare per ultimo dopo una sfilata di ombre allegoriche si ritrova per l’ultima volta impotente nel congedare adeguatamente la figura ingombrante del genitore e può solo constatare il suo essere rimasto orfano.

Locus desperatus è un secondo tassello del Mari recente, in cui l’autore prende spunto dall’occasione del trasloco per esplorare nuovamente la propria fissazione per gli oggetti accumulati negli anni e infusi di un potere feticistico che li fa assurgere a veri ricettacoli dell’identità personale. Gli oggetti, al pari, se non più, della voce in prima persona, sono i veri protagonisti del romanzo.

Un anonimo personaggio senza età e senza lavoro (leggasi uomo di cultura, pensionato, di età compresa tra i 60 e i 70 anni) vive in appartamento in un’anonima città (leggasi Milano, Mari si tradisce perché non può non far parlare il protagonista del suo amato Milan) e conduce una vita monotona e ripetitiva. Un giorno, rientrando a casa scorge sulla porta un segno tracciato con il gesso bianco sullo stipite della porta di ingresso: sembra una spada ma si tratta della crux desperationis, accompagnata da un numero che si farà via via decrescente. L’autore utilizza tutto l’armamentario del romanzo gotico per tracciare un arco narrativo surreale ma dallo svolgimento perfetto: gli oggetti prendono vita mentre il protagonista inizia a perdere la memoria. Personaggi dai nomi arcaici lo tormentano e lo incalzano affinché egli abbandoni la propria casa, attentando agli oggetti che vi risiedono. Gli amati libri sono le prime vittime del crudele scherzo di cui l’uomo si ritrova vittima e il disperato tentativo di salvarli, trasferendoli nell’appartamento sottostante, gli si ritorce contro. Infatti, un doppio del protagonista viene a insediarsi nella casa vuota e, verrà rivelato, è destinato a sostituire l’originale, sempre più spersonalizzato.

A furia di circondarvi di cose, amandole, collezionandole, vi ci siete a poco a poco trasferito, regalando loro quote sempre più consistenti della vostra personalità. Le avete personificate, giusto? e nel contempo vi siete spersonalizzato.

Locus desperatus, p. 11

Lo svolgimento è avvincente e procede in una spirale di sdoppiamento, deformazione e svuotamento progressivo del mondo intorno al protagonista: la casa, le cose, i vecchi compagni di classe, gli affetti. Tutto procede in un incastro perfetto e ben congegnato, 131 pagine che avrebbero potuto essere il doppio, se non fosse che Mari, da narratore esperto, sa bene quando è il caso di fermarsi. La prosa è, come sempre, di alto livello: aulica e sofisticata.

Soprassedendo alla maestria con cui vengono manipolati i tropi del genere, i personaggi inquietanti, l’atmosfera di mistero e la gestione della suspence, ciò che colpisce maggiormente sono alcune riflessioni cristalline ma monolitiche sulla visione della vita, una continua e inevitabile dissipazione, solo temporaneamente arginabile infondendo la propria identità negli oggetti, sperando che essi possano, alla fine, restituirci la vera immagine di noi stessi.

Io avevo dato senso e vita alle cose, scegliendole, collezionandole, amandole, considerandole parte di me, immettendovi la mia energia, e loro mi avevano sempre restituito tutto contribuendo alla mia identità e alla mia biografia, modulando i miei pensieri e i miei sogni… Senza le mie cose io non sarei stato più io, e senza di me […] loro non sarebbero state più loro

Locus desperatus, p. 77-78

Quello che rende Locus desperatus un’opera minore, e forse addirittura superflua, nella ormai nutrita produzione di Michele Mari, è una sensazione non solo di deja vù ma di esplicita marginalità di questo romanzo rispetto ad altre opere in cui lo scrittore tratta i medesimi temi.

Manca l’alchimia perfetta di maniacalità e trasporto di un racconto come Le copertine di Urania, recentemente riedito in un volume a sé, illustrato, per Humboldt (2023) ma tratto da Tu, sanguinosa infanzia (1997); non si raggiungono le vette di inquietudine del racconto-manifesto I palloni del Signor Kurz (da Euridice aveva un cane, 1993), nel quale viene esplicitamente cristallizzata una postura conservativa e classificatoria nei confronti della memoria e della letteratura; non c’è la reinvenzione postmoderna del romanzo Tutto il ferro della Torre Eiffel (2002), in cui il personaggio di Walter Benjamin va a caccia di manufatti letterari in una Parigi degli anni Trenta preda di una cospirazione. Locus desperatus gioca con i rimandi interni all’universo di Mari, a partire dalla biblioteca abitata dal doppio che ricorda quella di Osmoc dell’esordio Di bestia in bestia (1989; riscritto nel 2013), non a caso un libro su cui l’autore è tornato e in cui ha più volte affermato di rispecchiarsi. 

Il lettore che si sia spinto oltre i romanzi e abbia provato a sbirciare nei pochi spiragli concessi dal riservatissimo autore nella sua vita privata avrà senza dubbio ritrovato la fisionomia del corridoio-biblioteca dell’appartamento milanese di Mari all’interno di quest’ultimo romanzo, insieme agli oggetti collezionati che già apparivano in alcune interviste e nelle immagini di Asterusher.

Ecco, se c’è qualcosa a cui Locus desperatus dovrebbe essere associato è proprio Asterusher, di cui costituisce un ideale specchio… distorto, ça va sans dire. Un commento narrativo, dall’inventiva apprezzabile e anche divertente in alcuni momenti, alla sezione milanese dell’autobiografia fotografica. Resta sempre la curiosità per ciò che un autore di questo calibro scriverà in futuro ma Locus desperatus, candidato “alla carriera” al Campiello è, senza dubbio, soltanto un piacevole complemento.

di Niccolò Gualandris

Aratea Cultura

Niccolò Gualandris

Redattore di Letteratura

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