Lettere IV – L’inferno temprante della memoria
Car* Matilde,
non ricordo perfettamente quando, ti dicevo che avrei voluto parlarti della memoria, ultimo fattore variabile costituente di quella coscienza sociale sulla quale abbiamo incardinato il discorso fino a questo punto.
Se non mi confondo, l’ultima lettera che ti ho spedito puntualizzava sulla disinformazione e suggeriva un collegamento paradigmatico tra la televisione e il contesto temporale-sociale in cui dipaniamo la vita. Dicevo che <<La televisione è il paradigma della modernità>>, nello specifico perché emette un flusso ininterrotto di informazioni che travolgono l’individuo moderno costringendolo a un dialogo passivizzante e unidirezionale, dallo schermo al divano senza possibilità di risposta.
Il bagno di dati in cui sguazziamo, che oggidì non si limita alle sole ricezioni sensoriale ed emotiva, ma trova una terza via virtuale per interessarci, che riguarda più propriamente la nostra immagine, sembra condanni l’uomo sociale contemporaneo a un arrabattarsi snervante e dispendioso, che non conosce ore buche o momenti di riposo. Questo stile di vita, sebbene paghi a rate di nevrosi, diventa abitudinario: la routine dell’individuo consumista – cioè di chi consuma informazioni – nasce quando il soggetto impara a ballare con il flusso. Finalmente, l’uomo routinario è assimilabile a un coagulo del lago informativo che abitudinariamente lo annega, poiché, sebbene possieda un’identità personale di volta in volta esaltabile, si lascia trasportare da un magma che, di fatto, è la sua stessa vita: egli è diventato un’informazione, disalienarsi gli sarà difficile.
Immerso nel flusso, informazione tra le informazioni, l’individuo contemporaneo raramente riemerge per guardarsi dall’esterno, scrutarsi fino in fondo, conoscersi criticamente. L’atto autocritico, di separazione temporanea da sé, d’altra parte, permette a chi trova il tempo di compierlo di rielaborare i dati del passato alla luce di un’intenzione futura, dunque di stabilire di volta in volta il senso da attribuire alle proprie trascorse esperienze, di ottenere un insegnamento da esse, una lezione valida per il presente che s’ha da disegnare sul profilo di un progetto. Il presente racchiude il tempo passato sotto forma d’appreso e la sfera del futuro desiderato, a cui le azioni mirano: il corretto funzionamento della memoria prevede l’amalgamazione dei tre tempi canonici.
All’interno di un consorzio sociale che tendenzialmente annaspa tra le informazioni, dunque, unicamente grazie alla capacità mnestica, pochi risoluti si distinguono per il fatto di conoscere quello che sono e ciò che vogliono e, sulla base di quanto scoprono, organizzano – assemblano a organo funzionante e funzionale – la propria vita. Questi individui devono anche essere in grado di astrarsi dalla coscienza sociale di cui fanno inevitabilmente parte per poter dire a tutti gli effetti di conoscersi; essi devono almeno porla in discussione, decidendo se aderirvi o distanziarvisi solo posteriormente a una riflessione che abbia misurato gli effetti della rimemorazione di gruppo sul gruppo stesso.
Introduco così il concetto di memoria collettiva, anche detta “sacrale”[1], il fattore costituente della coscienza sociale di cui ti parlavo. Gli studiosi non l’hanno ancora definita a dovere, ma possiamo dire che si tratti di una pseudo sovra-entità collettiva che conserva e alimenta la cultura di un determinato popolo, spesso coincidendo con l’estensione territoriale nazionale – ma anche agendo più ristrettamente, a livello delle diverse classi sociali, come accadeva per esempio in Italia prima dell’omologazione culturale.
La memoria collettiva è anche detta sacrale per il supposto che prevede il suo consolidarsi in grazia di un atto condiviso di rimemorazione dei caduti, tributati a valori di fondamentale rilevanza per la totalità del gruppo (ideali di Resistenza, di Unità, di Liberazione, di antifascismo etc.). A questo proposito, Tzvetan Todorov[2] e Paul Ricoeur[3] hanno a lungo parlato di abuso – cioè di un impiego sbilanciato – della memoria nei termini di un’ingiunzione di non dimenticare socialmente indotta, evidenziando gli effetti indesiderati che da questa possono conseguire: primo fra tutti, la mancata assunzione di una coscienza del passato, ossia di un insegnamento che da lì possa conservarsi valido nel presente, per il futuro.
So che può sembrare tutto nebuloso e contraddittorio (“se m’impegno a non dimenticare, dimentico?”): per chiarire questo snodo, ti racconto una storia italiana. Nel dopoguerra, la coscienza collettiva nazionale si è fatta ben pochi problemi ad appannare la colpa delle proprie responsabilità fasciste attraverso la costruzione di uno stato democratico. L’estensione di un oblio del tutto acritico sulle macchie di un passato criminale è stata giustificata da una bipartizione manicheistica dei ruoli storici (antifascisti = buoni, fascisti = cattivi), nonché da un’identificazione di massa con la causa antifascista, la prospettiva delle vittime. Allo stesso tempo, la politica democristiana è stata una calcata esaltazione dei meriti partigiani, una celebrazione della Liberazione dal nemico, laddove una vera e propria libertà non poteva essere conquistata senza l’ammissione degli sbagli ed il perdono del proprio sé fascista passato, con la conseguente prelevazione di una lezione morale da poter impiegare per distinguere – e di conseguenza contrastare – ciò che del fascismo resisteva e resiste[4]. Ancora una volta, devo quanto scrivo a Pasolini:
<<La colpa dei padri dunque non è solo la violenza del potere, il fascismo. Ma essa è anche: primo, la rimozione dalla coscienza, da parte di noi antifascisti, del vecchio fascismo, l’esserci comodamente liberati della nostra profonda intimità (Pannella) con esso (l’aver considerato i fascisti <<i nostri fratelli cretini>>, come dice una frase di Sforza ricordata da Fortini); secondo, e soprattutto, l’accettazione – tanto più colpevole quanto più inconsapevole – della violenza degradante e dei veri, immensi genocidi del nuovo fascismo[5]>>.
Credo che l’ingiunzione di non dimenticare sia per certi versi paragonabile a quel flusso di informazioni che annega l’individuo di una società nazionalista contemporanea, in quanto è sostanzialmente anch’essa una routine di cui non si coglie l’essenza. Immerso in questo lago, l’intellettuale deve saper cacciare fuori la testa per respirare, così da poterlo vedere dall’esterno e comprendere, oppure, egli deve <<restare / dentro l’inferno con marmorea / volontà di capirlo>>[6], ossia metabolizzare le colpe del passato senza nasconderselo, per assimilarne così le sostanze nutritive e crescere una coscienza. Se tutti sapessero condividere e perdonarsi la colpa del fascismo – passato di tutti gli uomini –, forse assisteremmo meno frequentemente alle pur diffuse discriminazioni, alle stragi che qualcuno prova ancora di non aver saputo comprendere tra le proprie responsabilità d’uomo. L’“oblio / accorante, violento”[7], è l’esercizio semplicistico di chi s’illude di buon grado, nella sua piccolezza, di avere una coscienza pulita.
Non mi fraintenderai se avrai capito il discorso: è bene che i fasci littori che crescono sporadici sulle pareti di Milano si conservino intatti, poiché una loro cancellazione, atto gratuito d’oblio, costerebbe la coscienza delle generazioni future, l’infuturarsi dell’odio per vie trasverse.
Ma non chiediamo all’uroboro di non mordersi la coda.
[1] Assmann A., Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Il Mulino, Bologna, 2002.
[2] Todorov T., Memoria del male, tentazione del bene. Inchiesta su un secolo tragico, Garzanti Elefanti, Milano, 2019.
[3] Ricoeur P., Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, Il Mulino, Bologna, 2012.
[4] Le ceneri di Gramsci: una proposta di lettura attraverso la filosofia della memoria, tesi di laurea triennale di Diego Ghisleni.
[5] Pasolini P. P., Lettere luterane, Garzanti, Milano, 2015, p. 24.
[6] Pasolini P. P., Picasso (VIII), in Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano, 2015.
[7] Pasolini P. P., Le ceneri di Gramsci (V), in Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano, 2015.
Credits:
Cinzia Pedruzzi, Storia, pastello, matita e gessetto su cartoncino, 80 x 70
Autodidatta sin da giovane, Cinzia Pedruzzi viene indirizzata alla scuola d’arte del maestro Ernesto Doneda da Brembate. Sotto la sua guida perfeziona la tecnica della pittura ad olio, esprimendo uno stile figurativo moderno, paesaggi e nature morte. La ricerca delle forme la spinge allo studio del disegno e alla rappresentazione del corpo umano, dedicandosi successivamente al ritratto. Interessata allo studio dell’arte e curiosa di formarsi su nuove tecniche espressive, apprende la tecnica dell’affresco e la manipolazione plastica della materia, rappresentando in terracotta figure umane e busti. Insegna in corsi di disegno, pittura ad olio e manipolazione della terra. Collabora per la realizzazione di corsi scuola con due amministrazioni locali. Ha partecipato a varie rassegne d’arte, mostre collettive e tenuto esposizioni personali in svariati centri culturali. Iscritta al Circolo Culturale Bergamasco dal 1997, partecipa alla collettiva annuale presso la sede di Bergamo.