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Lettere III – Alcune puntualizzazioni sulla disinformazione

Cinzia Pedruzzi
Cinzia Pedruzzi, Disinformazione

Cara Elena,

nell’ultima lettera mi sono a tal punto perso da dimenticare di farti gli auguri per l’8 marzo: spero tu riesca a perdonarmi. Nel caso contrario, confido nella scrittura affinché ti riservi lo stesso effetto che ha esercitato su di me: vorrei che scivolassi alla cognizione del tempo e delle cause, che spegnessi i contrasti, annullassi i conti in sospeso nella sospensione di cui è garante la sola lettura; vorrei ti scordassi di essere Elena: se accadrà tutto ciò, avremo una prova del corretto funzionamento del nostro percorso epistolare.

“È novembre, non ci sentiamo da mesi. Per quanto tempo ha intenzione di andare avanti con queste carte? Non può farmi leggere direttamente il saggio? Prometto di spezzare la lettura”. Ho creduto che avresti potuto facilmente sentirmi con te nell’inchiostro, al di là delle distanze, ma ho preferito riprendere a scriverti con la riapertura delle scuole per vederti assorbire e praticare i contenuti. Inoltre, la società dei consumi è romanzesca e non vuole conoscere la faticosa lettura dei saggi – figuriamoci poi il perder tempo in poesie; trovo invece che il motivo epistolare sia una buona via di mezzo per trasmettere contenuti teorici espliciti a un pubblico più vasto di quello conosciuto dalla forma saggistica. Non voglio parlarti però degli effetti del consumismo sull’opera d’arte: prima ho bisogno di puntualizzare sull’informazione e di introdurti una variabile decisiva nel discorso che prolungavamo sulla coscienza sociale.

Se c’è un merito da attribuire al virus, è che questo – voglio crederlo – ha svariate volte palesato ai più la vera natura dei canali comunicativi: di questi tempi ti basta confrontare due o tre giornali per assumere come ormai l’informazione sia diventata un’opinione. I notiziari gareggiano tra loro per consegnare prima la novità del giorno, per nulla o minimamente curandosi della veridicità del contenuto che diffondono. Sebbene mi consideri una persona abbastanza preparata sulla rapacità dei giornali, sono rimasto io stesso sconvolto dalla feroce prontezza con cui questi uccellacci hanno scelto di rumoreggiare falsità al solo scopo di attirare l’attenzione di chi, dall’altra parte, già si predisponeva a farsi cuccare libando menzogne presunte vere in grazia del diffuso buon nome della testata giornalistica.

Voglio entrare nello specifico per consegnare alla polemica una nota indiscutibile: vigilia di giugno, i piani alti del governo discutono del coprifuoco estivo, gli italiani non vedevano l’ora di questo momento, e dunque aguzzano le orecchie per captare i rumours. All’improvviso, il giornale nazionale più famoso la spara grossa: la menzogna è subito verità. Il risultato? Confusione nella confusione generale, e tanta di più ancora se si tratta di una notizia che limita la libertà dei cittadini durante i caldi mesi delle vacanze estive: bestemmie a Dio, imprecazioni, chat di gruppo “Rivoluzione”. L’esito per il medium? È arrivato primo, ha attirato le visualizzazioni di tutte le orecchie tese nell’attesa: successo straordinario, “chi se ne frega se poi quel che s’è messo in giro non sta né in cielo né in terra, tanto gli italiani ascoltano noi, mica chi decide”.

L’aria è davvero rancida, ma bisogna ammettere che la colpa non è tutta della propaganda; ancora una volta, torniamo lì: protagonista (ir)responsabile è il semplicismo, morbo di quella parte della popolazione che non fa un passo indietro per dire “aspetta un attimo”, di chi non prende le distanze critiche dalla questione vociata. Sia chiaro, certi giornali sono i primi Simplici[1]: quando questi lavorano con dedizione, alimentano un processo di disinformazione davvero invidiabile, generando un caos esponenziale; menzogna alla x, dove la variabile è il numero di condivisioni che la gente compie, poiché naturalmente questa febbre di tagliare il traguardo, arrivando alla notizia prima degli altri, non è solo propria dei canali comunicativi, ma anche delle persone, ansiose d’istruire i vicini diffondendo notizie che andranno a leggere solo più tardi – “prima si condivide, poi si legge, forse, altrimenti i dintorni lo fanno prima di me” –, o magari attivando la circolazione altrettanto virale di vocali chilometrici d’improvvisati virologi, pronti anch’essi a cavalcare i cavalloni della tendenza.

Ecco, io credo che gli intellettuali, entro queste circostanze, siano l’informante e l’informato che diffidano e confrontano le fonti per avere nozioni meno polverose, coloro che non s’esprimono prima di aver raggiunto una certa sicurezza riguardo all’oggetto della discussione. Penso che siano veramente pochi i giornalisti che si presterebbero a essere definiti intellettuali, soprattutto perché il giornalismo è ormai un business partitico che calcola cosa gli elettori del potere servito vogliono sentirsi dire e declinano l’argomento amaro zuccherandolo per bene, finanche falsificandolo. Sembra che tutti questi signori della televisione siano schiavi dell’algoritmo dei social, quel rizoma sotterraneo che non vede nessuno e alimenta la pianta della disinformazione, l’espressione matematica che memorizza i gusti dell’utente – quindi indirettamente il suo schieramento filosofico, ideologico, politico – per proporgli contenuti affini e mai divergenti. L’utente di Instagram o YouTube è sempre più convinto delle sue opinioni e s’ostina a farle valere senza valutare le antitesi: sulla sua home, del resto, bisogna proprio cercarle le tesi opposte per trovarle, perché non sembra parlarne nessuno, paiono del tutto fuori discussione.

E valuta anche com’è difficile, nel nostro mondo, che una persona tendenzialmente interessata a tutto fuorché all’arte prenda piacere in questa da un momento all’altro, per il fatto che i nostri gusti sono incanalati per una via monodirezionale dalla rete che satura l’odierno. Così l’intellettuale è sempre più costretto in una nicchia, raggiunto da pochi, odiato da molti – tanto più quando fa avidamente tesoro delle sue scoperte, quando non s’apre, forse proprio perché teme l’odio di chi ne scorge gelosamente lo stazionare in controtendenza.

Adesso che possiedi qualche nozione riguardo a questo discorso di conformazione informativa della massa, credo non ti sia difficile intuire i motivi della polemica sollevata da Pasolini sul fascismo televisivo – che avrei volentieri visto infittirsi con l’emersione dell’enorme conflitto d’interessi tra la proprietà di partiti politici e canali divulgativi sul finire del secolo. “Il tubo catodico più totalizzante del fascismo? Figuriamoci.”, mi dirai. Ebbene sì, perché crea una vera e propria coscienza di massa, in primo luogo esaltando le abitudini del consumatore. La disinformazione sbocca per vie inedite, che non chiedono il permesso: si installano e basta, diventando un’abitudine esse stesse, canali per i quali i potenti manipolano le coscienze – ti basterà leggere Fahrenheit 451 per comprendere come un’esagerazione di questa dinamica oppressivo-sottomissiva sia in realtà poco lontana dalla sinfonia della coscienza sociale quotidiana (a questo proposito, allego alla lettera una mia riflessione critica sull’opera in questione).

<< Mai un “modello di vita” ha potuto essere propagandato con tanta efficacia che attraverso la televisione. Il tipo di uomo o di donna che conta, che è moderno, che è da imitare e da realizzare, non è descritto o decantato: è rappresentato! Il linguaggio della televisione è per sua natura il linguaggio fisico-mimico, il linguaggio del comportamento. Che viene dunque mimato di sana pianta, senza mediazioni […] >>[2].

La televisione è il paradigma della modernità: il bombardamento di informazioni-immagine a cui sottopone non lascia tempo al pensiero e induce ad acquisire come corrette le nozioni che semplifica affinché corrano senza deviazioni alla mente dello spettatore. La legge del conciso e del semplice domina attraverso una cultura sostanziata dalle immagini e, così facendo, diffonde lo stereotipo secondo il quale “semplice uguale giusto”. Manco stessimo parlando di anaciclosi polibiana, eccone qui un richiamo: le differenze tra semplice e semplicistico marciscono e il virtuoso degenera nel viziato. Un uomo come gli altri, anch’egli figlio dei suoi anni, osa mettere un po’ d’ordine e accorgere le distinzioni tra le nozioni? Lesa maestà.

Ho come la sensazione che la diffusione di un certo odio nei confronti dell’intellettuale rappresenti una costante nel variare dei tempi e delle società; meglio, che l’arte più in generale, principale strumento del pensatore, sia sempre stata considerata secondaria. Sto ancora cercando di smentirmi, ma in vano: trovo materiale sulla secondarietà dell’arte perfino fra le opere dell’umanesimo fiorentino. Forse una certa neofobia accompagna la storia dall’età classica a oggi, aizzando le coscienze omologate contro chi predica le controtendenze; forse il semplicismo è un tarlo di tutte le epoche, e il ragionamento secondo il quale l’utile è da preferirsi a ogni altra cosa ha relegato l’arte in seconda posizione (anche se, secondo il mio modesto parere, essa ha un’utilità – certo non materiale –, della quale però ti dirò in un’altra lettera); ancora, forse all’uomo fa semplicemente male che qualcuno gli sputi addosso ciò che non vorrebbe mai sentirsi dire. Mentre le società si trasformano conservando i brutti tratti, l’artista non cambia poiché commette costantemente il solo torto d’ascoltarsi: ecco perché in queste lettere preferisco parlare di società scomode, rifiutando l’etichetta affibbiata ai soli intellettuali.

Come non detto, mi capita di perdermi: già troppe parole e ancora non ho finito di scrivere tutto quello che avevo da dirti. Avrei voluto introdurti un’ultima costituente della coscienza sociale, la memoria, ma considerando che si tratta di un argomento piuttosto vasto, e soprattutto che scrivo epistole perché tu non soffra indigestioni, ti rimando alla prossima.

7 novembre


[1] Si chiama così Simplicio, personaggio del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo, per la sua ridicola incapacità di problematizzare, il suo frequente far testo all’ipse dixit, la sua superstiziosità.

[2] Pier Paolo Pasolini, 11 luglio 1974. Ampliamento del <<bozzetto>> sulla rivoluzione antropologica in Italia, in Scritti corsari, Garzanti, Milano, 2015.


Credits:

Cinzia Pedruzzi, Disinformazione, pastello, matita, gessetto e collage su cartoncino, 80 x 70

Autodidatta sin da giovane, Cinzia Pedruzzi viene indirizzata alla scuola d’arte del maestro Ernesto Doneda da Brembate. Sotto la sua guida perfeziona la tecnica della pittura ad olio, esprimendo uno stile figurativo moderno, paesaggi e nature morte. La ricerca delle forme la spinge allo studio del disegno e alla rappresentazione del corpo umano, dedicandosi successivamente al ritratto. Interessata allo studio dell’arte e curiosa di formarsi su nuove tecniche espressive, apprende la tecnica dell’affresco e la manipolazione plastica della materia, rappresentando in terracotta figure umane e busti. Insegna in corsi di disegno, pittura ad olio e manipolazione della terra. Collabora per la realizzazione di corsi scuola con due amministrazioni locali. Ha partecipato a varie rassegne d’arte, mostre collettive e tenuto esposizioni personali in svariati centri culturali. Iscritta al Circolo Culturale Bergamasco dal 1997, partecipa alla collettiva annuale presso la sede di Bergamo.

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Diego Ghisleni

Vicedirettore e redattore