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Lettere I – Intellettuali e no

Cinzia Pedruzzi
Cinzia Pedruzzi – La consapevolezza di sé

Quando l’altro giorno ho trovato quella Commedia rovesciata nel cestino, non riuscivo a credere che fosse la tua. Se il resto della classe è totalmente indifferente alle mie lezioni, infatti, tu sei l’unico che prova a spiegarsene il senso, interpellandomi di frequente affinché io ti motivi l’importanza degli studi umanistici. Ti – mi – interroghi, seppur con quel tono irritato con cui lamenti che per te dovrebbero abolire il mestiere dell’intellettuale; per questa ragione mi sarei aspettato un atto simile da qualche altro tuo collega, e non da te.

Vedi, è sempre concesso trovarsi in accordo o in disaccordo; l’indifferenza, invece, è sbagliata in ogni contesto. Se la condivisione o il dissenso manifesti nei riguardi di una posizione presuppongono, infatti, che sia avvenuta una discussione democratica, e con essa uno scambio di tesi e antitesi ragionato e ragionevole, la sordità prestata a una voce altra – che corrisponda o meno alla propria opinione – è un atto discriminatorio e fascista poiché equivale a negarne l’esistenza, non attribuendole peso. Peraltro, ignorando si resta privi di qualsiasi possibilità di raggiungere una conoscenza adeguata a relazionarsi con il resto del mondo con fare critico, godendo di un punto di vista quantomeno valido.

Sai, la funzione pedagogica del mio mestiere d’insegnante si attiva solo se c’è qualcuno che sta ad ascoltare quello che dico. Dal momento che tu sei l’unico studente disponibile al dialogo, sei anche il motivo che mi rende reale come maestro, e perciò desidero ringraziarti rendendoti il destinatario di questa mia lettera, che scrivo per rispondere ad alcune delle tue ultime provocazioni.

Conoscere è confrontarsi. I tuoi compagni preferiscono non scomodarsi a farlo, impolverando in un mondo monodimensionale, dove vige il principio di incomunicabilità. Tu invece ascolti, eppure ti abbandoni ancora a ragionamenti acerbi, condizionati da un modo di pensare semplicistico e modaiolo; perché hai cestinato la nostra cultura? A tratti sento ancora la tua voce stridulare che i poeti e gli scrittori sono bravi solo a rendere più difficile quanto è già di per sé chiaro, che tutto s’impara con l’esperienza e i racconti dei nonni, che l’arte non serve e la fai se vuoi morir di fame.

Non sono parole offensive per un uomo di lettere come me, anzi una punta di piacere intellettuale rende meno amara la tristezza che mi pervade nel sentirti starnazzare ciò che senti dire dagli altri: si tratta del sentimento che ti coglie solitamente quando vedi comprovare una tesi a cui tieni molto, che nel mio caso si traduce in un brivido di gaudio nella completa rassegnazione; è un’emozione che provano quelli che perdono giornate intere a pensare – proprio così: noi ci trastulliamo con questo genere di cose.

Sai, quando avevo la tua età credevo che per diventare un grande intellettuale bisognasse inventarsi qualcosa, cogliere con una geniale intuizione un’idea dall’etere e non lasciarsela scappare, mettendola subito per iscritto; quindi mi chiedevo cos’altro avrei potuto elaborare di nuovo rispetto a quanto mi disperavo che fosse già stato detto dai grandi pensatori della storia. Ricordo che un giorno elaborai una teoria vaga sulla sfuggevolezza del piacere; mi rammaricai, in seguito, che la scoperta fosse già stata fatta quando studiai per la prima volta Leopardi.

Capii così, con l’ausilio del tempo, che i temi cari agli intellettuali non si scoprono, ma si inferiscono da un confronto con la vita di tutti i giorni, provengono dai propri tempi e corrispondono a una sensibilità specifica, una prospettiva diversa sul mondo. Complicherei le cose, come dici tu, se inventassi quanto penso e scrivo, costruendo di punto in bianco una teoria ammissibile senza desumerla da ciò che apprendo trascorrendo come chiunque la vita di tutti i giorni. Dacché nessun intellettuale si comporta – né si è mai comportato – in questo modo, il suo pensiero ha a che fare con l’esperienza, la quale però non viene, evidentemente, da te considerata tale.

Secondo te l’esperienza è di tutti fuorché dei pensatori, che sono invece sofistici e vogliono rendere la realtà astratta e difficile. Questa è una massima della filosofia della pancia, quella comoda e diretta, apprezzata dai buontemponi. Di tale gruppo fanno parte gli indifferenti e quelli come te, che si lasciano facilmente abbindolare da un modo di pensare molto terrestre e semplicistico. Gli intellettuali non scrivono né dicono quello che pensano perché vogliono guadagnarsi da vivere teorizzando l’inesistente; il loro compito è quello di problematizzare la realtà, che non significa renderla malauguratamente più astrusa e cavillosa, bensì liberarla da ogni pensiero impacchettato e servito come soluzione, sragnatelandola da ogni semplicistico problem solving.

Ognuno di noi esperisce il mondo a suo modo, percependolo con una sensibilità che gli è propria e confrontandolo allo stesso tempo con gli assiomi configurantisi nella sua mente durante la crescita; assiomi che fanno parte di una vera e propria coscienza prematura, la quale riflette il modo di pensare della società contestuale che li determina. Ora, in relazione a quale delle due fonti, la propria sensibilità o la coscienza sociale, si ritenga di poter maggiormente accreditare per sviluppare una visione critica della realtà, si distinguono due tipi di identità. C’è chi mette in discussione i paradigmi quando si rivelino in discordanza con quanto si percepisce del mondo attraverso la propria sensibilità – e questi li chiameremo intellettuali; c’è chi, invece, pur di non complicarsi la vita, rinuncia ad assimilare le circostanze come le percepisce a livello soggettivo e aderisce alla coscienza collettiva e societaria, facendo del suo mondo il mondo degli altri. Il sempliciotto – seconda categoria di persone – sacrifica, in questo modo, la propria opinione alla moda, che gli sembra anche la più accreditabile perché vincente in quanto condivisa dalla maggioranza. Egli diventa un conformista. Il pensiero semplicistico è un fenomeno che induce le società ad appiattirsi conformisticamente, diventando greggi di ripetitori automatici.

Diciamo quindi che il mondo non è uno e non è semplice, ma è costruito – in linea teorica, perché il fenomeno dell’omologazione si espande continuamente – da un reticolo di percezioni relative a ogni singolo individuo che lo popola; è per questa ragione che è complesso e si presta a diverse interpretazioni. Credere che esista un’unica lente per osservarlo, e ritenere che sia quella giusta, significa banalizzarlo e ridicolizzarlo. Nel loro pensiero, gli intellettuali danno conto solamente di quello che vedono: non sono loro che sfidano gli altri, andando contro la massa conformista, bensì gli altri, che hanno già da tempo rinunciato alla possibilità di far valere il proprio sguardo, che marciano contro sé stessi. Contraddice la sua natura d’uomo chi scredita ciò che percepisce, vendendosi al pensiero preconfezionato. Il pensiero semplicistico genera il conformismo, dal quale è generato a sua volta, e con esso l’odio nei confronti degli intellettuali, che la penserebbero diversamente, e quindi in modo più dispregiativamente complicato.

Dal momento che la realtà è relativizzata da molteplici sensibilità, essa è già per natura complessa, dunque non sarebbe nemmeno corretto parlare di problematizzazione della stessa come compito degli intellettuali. Poiché questi si comportano naturalmente, credendo alla propria soggettività, occorrerebbe spostare il fuoco del discorso sui rappresentanti del fenomeno anomalo e innaturale. L’astio provato nei confronti degli intellettuali è un mascheramento del rancore maturato verso sé stessi da coloro che hanno rinunciato alla propria indipendenza di pensiero per non aver avuto il coraggio di contrastare l’opinione pubblica, un atto di invidia verso coloro che ce l’hanno fatta. Il compito del pensatore indipendente è dunque quello di contrastare il fenomeno di banalizzazione del mondo messo in atto dai conformisti, annullando ogni semplicistico ragionamento e riportando la realtà al suo stato naturalmente complesso.

L’aggettivo “scomodo” qualifica di per sé, a livello definitorio, un oggetto nei termini di una relazione con qualcos’altro. Si parla di “intellettuale scomodo” quando si fa riferimento a Pier Paolo Pasolini nei confronti del contesto storico-sociale del secondo dopoguerra, clerico-fascista e poi capitalistico-consumista, in una parola: omologante – la stessa società di oggi. La dicitura non mi piace per diverse ragioni. Innanzitutto essa pare attribuire questo carattere di scomodità a un solo intellettuale, laddove, stando al mio ragionamento, si potrebbe affermare che tutti i pensatori siano incomodi a un consorzio sociale che sviluppi un pensiero semplicistico. Certo, Pasolini rappresentava un caso particolare fra gli altri uomini di lettere: egli conduceva dei veri e propri esperimenti sulla società, provocandone i membri e sollecitandone la reazione, che diventava un oggetto di studio; inoltre i suoi scritti erano veri e propri attacchi al sistema istituzionale vigente e ai costumi della maggioranza degli italiani.

In secondo luogo, l’etichetta di intellettuale scomodo ha il sapore di uno stigma: l’anomalia – com’è già stato detto – è di chi vende il suo pensiero, non di chi lo segue. Si dovrebbe piuttosto parlare di società sorde, sempliciotte, conformiste, composte da scoraggiati che odiano i pensatori indipendenti. Un filosofo romano avrebbe definito il nostro intellettuale come un uomo virtuoso, poiché segue la stessa direzione della natura, e tutti gli altri come viziati.

Infine, il discorso che generalmente viene costruito attorno a una voce ostile è piuttosto orientato a un’analisi del soggetto e verte nello specifico sulle peculiarità per cui il suo pensiero è diverso da quello degli altri, presupponendo la diversità di una mente fra tante simili, rischiando di indurre a identificare erroneamente una norma rispetto alla quale il fenomeno si caratterizzerebbe come extra-ordinario. La questione non è mai stata visualizzata nei suoi termini invertiti, ovvero supponendo un contesto storico-sociale particolarmente scomodo nei confronti d’una pluralità di voci intellettuali tutte diverse, una società sorda tra molte altre possibili, le specificità a motivare l’allergia di una determinata comunità a una moltitudine di menti variopinta. Si è sempre parlato di intellettuali scomodi, e mai di società sorde.

Alle tue invettive contro l’arte intendevo rispondere somministrandoti un saggio che scrissi qualche mese fa sul rapporto tra intellettuali e società nei secoli, ma ho creduto che non saresti riuscito a metabolizzare l’insegnamento in quella forma, eccessivamente impegnativa e scientifica. Tu sei il genere di studente che, proprio perché detesta ciò che studia, fa correre gli occhi sulle pagine, frustrato dall’obbligazione, senza capirci mezzo periodo: in questo modo non avresti mai assimilato il contenuto, o avresti fatto molta fatica. Vorrei che la lettura non fosse un obbligo, né un dispiacere, pertanto mi invento un genere tutto nuovo, inserendo in queste mie lettere la lezione che ho cercato di dare alla carta in un’altra sede, che riserberò forse a lettori più affamati. Non poca foga mi spingerebbe a concludere in queste pagine il discorso che ho cominciato, ma ritengo che per oggi possa bastare quanto è stato detto: come disse lo stesso filosofo che ho citato più sopra, a proposito dei contenuti, non giova né si assimila il cibo che, appena assunto, viene subito rigettato.

24 febbraio


CREDITS:
Cinzia Pedruzzi, La consapevolezza di sé, matita e gessetto su cartoncino, 30*40

“Camminando sulla spiaggia di Alberese in una fredda mattina d’inverno mi sono imbattuta in questa scena inaspettata, che ho interpretato in un modo del tutto attuale: essere fuori, emarginata dagli altri, ma nel contempo fiera di sé e del proprio messaggio.”

Autodidatta sin da giovane, Cinzia Pedruzzi viene indirizzata alla scuola d’arte del maestro Ernesto Doneda da Brembate.
Sotto la sua guida perfeziona la tecnica della pittura ad olio, esprimendo uno stile figurativo moderno, paesaggi e nature morte. La ricerca delle forme la spinge allo studio del disegno e alla rappresentazione del corpo umano, dedicandosi successivamente al ritratto. Interessata allo studio dell’arte e curiosa di formarsi su nuove tecniche espressive, apprende la tecnica dell’affresco e la manipolazione plastica della materia, rappresentando in terracotta figure umane e busti. Insegna in corsi di disegno, pittura ad olio e manipolazione della terra.
Collabora per la realizzazione di corsi scuola con due amministrazioni locali. Ha partecipato a varie rassegne d’arte, mostre collettive e tenuto esposizioni personali in svariati centri culturali. Iscritta al Circolo Culturale Bergamasco dal 1997, partecipa alla collettiva annuale presso la sede di Bergamo.

Sito Web di Cinzia Pedruzzi
Pagina Instagram


https://www.arateacultura.com

Diego Ghisleni

Vicedirettore e redattore