Letteratura e politica nel secondo Novecento: litigio o dialogo?
Il rapporto intercorso tra gli intellettuali italiani e la politica nel corso del Novecento non è sempre stato dei migliori. Le liti, di carattere sia ideologico sia etico, erano all’ordine del giorno, e infuocavano quotidianamente i titoloni dei giornali, lasciando nello scompiglio tanti cittadini.
Questi d’altronde si trovavano di fronte ad una scelta di grande importanza per l’epoca, che difficilmente oggi possiamo arrivare a comprendere. Se da un lato vi erano i partiti di massa, come Pci e Dc, che sono stati chiamati dagli storici anche ”partiti chiesa”, proprio per il loro carattere quasi sacerdotale e invasivo nella vita dei tanti iscritti, dall’altro vi erano gli intellettuali, quasi tutti politicamente impegnati e dotati di una forte autorità sociale. Così in un mondo dove la politica partitica aveva una grande presa sulla società e il mondo della cultura e i suoi protagonisti avevano ancora un incisivo ruolo sociale il cittadino si trovava sballottato tra mille opinioni e visioni completamente differenti.
E in tutto questo caos, fatto di giornali, televisioni, proteste, scioperi, bandiere rosse, bianche e nere, la nostra società si trovava in uno status di profondo vitalismo, dettato proprio da quel vivacissimo scambio magmatico tra cultura e politica, tra idealismo e dogmatismo. Come a riprova del fatto che la discussione – e pure il litigio – alla fine non sono altro che una forma di dialogo. E il dialogo è vitalismo, presupposto essenziale per un qualsiasi progresso sociale.
Piuttosto, ciò di cui un sistema democratico come il nostro dovrebbe avere paura è proprio il silenzio, sia da parte di un mondo intellettuale troppo chiuso nel proprio guscio, sia di una classe politica priva di qualsiasi forma di idealismo.
Elio Vittorini e Palmiro Togliatti
La prima vicenda di cui si vuole parlare vede protagonisti due personaggi importantissimi per la storia di questo paese. Il primo, Elio Vittorini, fu uno dei più grandi scrittori neorealisti del secondo Novecento, oltre che direttore della Einaudi a Milano. L’altro invece, Palmiro Togliatti, è stato uno storico segretario del Partito Comunista Italiano, da lui fondato al congresso di Livorno del ’21 assieme a Gramsci e Bordiga, oltre che storico esponente del Comitato di Liberazione Nazionale durante il secondo conflitto mondiale, dopo la ”svolta di Salerno”.
Lo scontro tra questi due giganti è datato 1945. Proprio alla fine della guerra, mentre crollava definitivamente il regime fascista, la situazione nel paese era ancora incerta. Molti comunisti, invocando i nomi della mitologia socialista – Lenin, Stalin (che ancora non aveva subito la destalinizzazione), Marx – volevano compiere finalmente la rivoluzione: il tempo era giunto.
Così Togliatti, consapevole che l’asservimento dell’Italia a un regime totalitario come quello Sovietico sarebbe stato funesto, si ritrovava da una parte a dover accontentare i tanti comunisti che invocavano la rivoluzione popolare e dall’altra a rassicurare anche quei compagni, esuli come lui, che la dittatura stalinista l’avevano vista per davvero.
Ecco che però questo quadro politico si staglia in un’epoca dove l’intellettuale, dopo vent’anni di silenzio, voleva tornare a poter parlare liberamente, anche e soprattutto quello di sinistra. Non a caso la corrente letteraria che avrebbe troneggiato in quegli anni, che trova la sua origine propriamente nel cinema, è il neorealismo.
La casa editrice, osteggiata per lungo tempo dal fascismo, che ora si era posta a capo di questa corrente era l’Einaudi, che nel suo catalogo proponeva: Primo Levi, Pavese, Deledda, Ginzburg, Fenoglio, Calvino e Elio Vittorini. Insomma autori neorealisti di quegli anni che certamente non avevano alcuna intenzione, benché di sinistra, di dipendere in qualche modo dal partito di Togliatti.
Tuttavia il Pci necessitava del sostegno di intellettuali che non si schiodassero dal ferreo dogmatismo di Togliatti, il quale doveva tenere a bada gli animi più rivoluzionari. Ecco allora che il dissidio tra intellettuale di sinistra e il suo partito di riferimento diventa inevitabile.
Tra Togliatti e Vittorini la battaglia sarà circoscritta ad una rivista culturale fondata dal secondo nel ’45: il”Politecnico”. Il periodico propugnava nuove forme di impegno degli intellettuali anche al di fuori degli schemi puramente umanistici: era insomma una rivista interdisciplinare, che voleva conciliare differenti forme di sapere e competenze. Sul piano politico il Politecnico, sulla scia di quella voglia di libertà degli intellettuali di cui quest’epoca è pregna, non voleva in alcun modo accettare il rigorismo ideologico del Partito Comunista, né tantomeno esserne dipendente.
Così nel ’47, dopo vari alterchi anche personali, Vittorini si troverà costretto a chiudere la rivista. Naturalmente però la questione non si era conclusa lì. Infatti, una decina di anni più tardi Vittorini aprirà una nuova rivista culturale, chiamata Il Menabò, che avrà tra i suoi collaboratori e promotori niente meno che Italo Calvino.
Italo Calvino e il comunismo
Il 1956 è un anno di fuoco per il blocco comunista. Stalin era morto qualche anno prima, nel 1953, e il suo successore, Nikita Chrushov, aveva già svelato tutti gli orrori delle purghe e dei Gulag al ventesimo congresso del Pcus.
Le conseguenze di quest’azione, universalmente nota come ”destalinizzazione”, però non furono delle migliori. Perché se da una parte il grado di felicità e di speranza, proprio anche dell’ideologia marxista, era cresciuto nel popolo sovietico, dall’altra molti paesi, soprattutto quelli più vicini all’occidente, iniziarono a portare avanti istanze di democratizzazione e apertura verso il blocco filo-americano.
Uno di questi fu l’Ungheria di Ymre Nagy, che iniziò a minacciare l’egemonia del partito comunista sovietico con istanze liberaliste. Ma la risposta di Chrushov non si fece aspettare. La mattina del 23 Ottobre del ’56 i carri armati del blocco sovietico varcarono il confine con l’Ungheria, arrivarono fino a Budapest e posero fine alle speranze di libertà.
Di fronte a immagini che rivelavano un volto del socialismo diverso da quello presente nelle speranze dei più, molti intellettuali marxisti d’Europa si trovarono a dissentire col regime sovietico e con tutti i partiti comunisti che vi facevano riferimento. Tra questi vi era Italo Calvino.
Davanti a simili immagini e davanti all’atteggiamento molto ambiguo del Partito Comunista Italiano, quasi di velata accettazione dei fatti, Calvino, suo militante per molti anni, decise di stracciare la propria tessera e di continuare a portare avanti la propria visione politica, essenzialmente marxista, con altri mezzi come riviste e giornali.
L’aspetto politico colpisce molto l’opera letteraria di Calvino, tanto che quasi tutta la sua prima produzione, che va da ”Il sentiero dei nidi di ragno” fino a ”La giornata di uno scrutatore” (pubblicato nel ’63), ne è fortemente impregnata.
Proprio in questa stagione della sua produzione esce uno dei suoi romanzi più celebri, ”Il barone rampante”, contenuto nella trilogia de ”I nostri antenati”. L’opera viene pubblicata nel 1957, un anno dopo rispetto alla rinuncia dell’autore alla politica attiva. In questo senso la metafora è facilmente comprensibile: così come il barone Cosimo da Rondò decide di rifugiarsi e continuare a vivere sugli alberi guardando tutto dall’altro, anche Calvino decide di uscire dal Pci e continuare a portare avanti le sue idee politiche attraverso l’opinionismo sui giornali.ù
Pasolini e il Partito Comunista Italiano
Un altro intellettuale che militò nel Pci e che ne uscì per motivi differenti fu Pier Paolo Pasolini. Una delle figure intellettuali più importanti della storia del secondo Novecento italiano, Pasolini fu poeta, scrittore, pensatore, regista, drammaturgo, giornalista, direttore di giornali, ma anche opinionista politico e, appunto, militante del Pci.
Nel 1947 Pasolini si trovava a San Giovanni di Casarsa in Friuli (famosa per la sua prima raccolta poetica) e sempre in quell’anno decise di iscriversi al Partito Comunista. Già due anni dopo si trovava a ricoprire il ruolo di segretario cittadino del Partito.
Il giovane Pasolini, ancora professore di lettere alle scuole medie, continuò la sua militanza nel partito con molto zelo e convinzione, maturando anche un grande interesse verso i classici del comunismo e in particolare le opere di Antonio Gramsci, che avrebbero poi permeato tutta la sua produzione letterario-cinematografica successiva, si pensi a ”Le ceneri di Gramsci”.
Nel 1950 un’accusa di oscenità in pubblico non soltanto farà perdere a Pasolini il posto da professore, ma anche quello di segretario di partito, tanto che addirittura verrà espulso dal Pci. E’ a questo punto che Pasolini decide di trasferirsi con la madre a Roma e intraprendere più seriamente la sua carriera da scrittore. Infatti giusto qualche anno dopo uscirà uno dei suoi romanzi più celebri, ”Ragazzi di vita”, anch’esso processato per immoralità.
Il rapporto che Pasolini avrà successivamente con il Pci e con il resto della classe politica italiana sarà molto conflittuale. Per farsene un’idea basterebbe leggere ”Scritti corsari”, una raccolta recentemente pubblicata, che contiene alcuni tra i più infiammati articoli di giornale di Pasolini contro la società e la politica italiana.
L’aspetto più interessante dell’opera di Pasolini è il conflitto di natura soprattutto ideologica col Partito Comunista. Indubbiamente fu un convinto marxista, fino alla fine dei suoi giorni. Ma il suo marxismo era ben differente da quello del Pci. Ciò che Pasolini rifiutava categoricamente era l’apparente borghesizzazione che, a sua detta, era avvenuta nel Pci, causata proprio dal mutamento antropologico della società dei consumi. Questa aveva influenzato anche i militanti comunisti, sia delle classi più alte, che gli stessi lavoratori.
A tale deviazione sociale Pasolini contrapponeva ”il mito del popolo”, ossia l’idea che si dovesse recuperare quella purezza del popolo italiano, persa col boom economico e appunto con il conseguente mutamento antropologico.
Questa teoria ha un effetto rilevante anche sotto l’aspetto stilistico nell’opera letteraria pasoliniana. Il plurilinguismo pasoliniano, o meglio, il suo neosperimentalismo, nasceva nel rifiuto da una parte dell’enigmaticità ermetica e dall’altra del forte dogmatismo politico-ideologico neorealista. Insomma, si viene a creare una sorta di trade union poetico-letteraria tra l’ideologia comunista di stampo gramsciano e una ripresa stilistica tradizionale del plurilinguismo dantesco.
Alfonso Gatto e l’Unità
Infine non si può concludere una simile panoramica senza citare Alfonso Gatto. Fu uno dei poeti ermetici più famosi della storia della nostra letteratura, conosciuto per una particolare declinazione del genere poetico volta a un ermetismo surreale, chiamato ”surrealismo idillico” . Ma oltre ad essere poeta, Alfonso Gatto fu anche giornalista.
In particolare, l’esperienza giornalistica che più significativa è quella svolta nella redazione dell’Unità, il giornale ufficiale del Partito Comunista, che raccoglieva nella propria redazione molti intellettuali propriamente vicini alle istanze del partito. Tra questi vi era anche Alfonso Gatto, appunto, in quell’epoca incandescente per la politica italiana, con quelle famose elezioni del ’48 i cui slogan sono rimasti ancora nella nostra memoria storica, come il celebre ”Dio vede, Stalin no” della Dc.
Il lavoro di Gatto consisteva nel compiere reportage in giro per l’Italia, per mostrare le macerie in cui si trovava il paese dopo la seconda guerra mondiale. E naturalmente parallelamente a questo portare avanti le idee marxiste come soluzione alla tragedia. Eppure, nonostante il forte credo verso l’ideologia, nel 1951 Gatto si trovò a dissentire con quel dogmatismo troppo stringente del partito, che toglieva grande libertà soprattutto agli intellettuali.
Così, Gatto se ne andò sbattendo la porta, con quel gesto rimasto probabilmente famoso nella memoria dei giornalisti della redazione dell’Unità.
Per concludere
Come si può comprendere attraverso questi quattro aneddoti, il rapporto intercorso tra politica e letteratura nel secondo Novecento è stato in molti casi particolarmente conflittuale. Eppure le tante questioni sia di carattere civile che ideologico, dai diritti civili, come nel caso di Pasolini, alle questioni più riconducibili al tema marxista e sociale, come per Calvino, si sono in qualche modo rese agente di un progresso sociale che non ha eguali nella storia.
E allora la domanda da porsi è: la discussione tra letteratura e politica non è forse qualcosa di costruttivo per la società? Non ne abbiamo forse ancora bisogno?