Critica di Prosa,  Letteratura,  Premio Strega

“L’età fragile” di Donatella di Pietrantonio – Premio Strega 2024

Un articolo di Francesca Manzoni

“Eravamo giovani, ma non invincibili. Eravamo fragili. Scoprivo da un momento all’altro che potevamo cadere, perderci, e persino morire.”

All’interno de L’età Fragile ultimo romanzo di Donatella di Pietrantonio, edito da Einaudi e finalista al Premio Strega 2024, un astratto protagonista domina la scena: le cicatrici, quei piccoli o grandi urti che l’umano vive nel contatto col mondo, sono il minimo comune denominatore di un’opera che, unendo armonicamente storie e generazioni differenti, regala al lettore la possibilità di riflettere sul valore delle proprie fragilità. Attraverso un intreccio di storie, Donatella di Pietrantonio si rivolge direttamente alla sofferenza, fornendole, pagina dopo pagina, una possibilità di riscatto, raggiungibile solo nel momento in cui si trova la forza di perdonare, e soprattutto di perdonarsi.  

È un’unica voce narrante, quella di Lucia, a portare il lettore all’interno di un piccolo paese abruzzese, situato nei pressi di Pescara: su questo microcosmo soggettivato dallo sguardo narrante, si sovrappongono due diversi piani temporali, che vedono alternarsi un trauma proveniente dal passato, rievocato costantemente dalla memoria dei luoghi abitati, e un presente divenuto incerto, proprio a causa del ritorno a casa di Amanda, figlia della protagonista. La giovane ragazza, dopo essersi trasferita a Milano per studiare, è costretta dall’emergenza sanitaria provocata dal COVID-19 a tornare nel suo paese d’origine: qualcosa in lei è però cambiato, la metropoli sembra aver spento la sua luce e, in poco tempo, Lucia si rende conto di aver donato al mondo una figlia che le è stata riconsegnata cosparsa di cicatrici, in preda ad una fragilità difficile da decifrare e da gestire. 

L’innesto per il passaggio da un piano temporale all’altro è una gita nel luogo di una memoria sepolta, il Dente del lupo, un campeggio abbandonato in cui la voce narrante, durante l’adolescenza, passava le sue giornate in compagnia di Doralice, grande amica d’infanzia. Il padre di Lucia, nonno burbero e radicato alle tradizioni contadine, decide di cedere la proprietà di quel terreno in rovina alla figlia, costringendola a ritornare, insieme ad Amanda, nei pressi di uno spazio che, molti anni prima, nel corso di una notte d’estate, aveva visto consumarsi un efferato delitto (che trova diretta ispirazione nel caso di cronaca nera nominato “Delitto del Morrone”). All’interno di un bosco limitrofo alla struttura, infatti, erano state  brutalmente uccise, per mano di un pastore-bracciante, Virginia e Tania Vignati, due sorelle che trascorrevano la stagione in villeggiatura. Le vittime designate però, erano tre, perché una terza ragazza, quella notte, era riuscita a scappare al suo carnefice, e dunque a sopravvivere al massacro: l’esistenza spezzata era quella di una delle persone più care alla protagonista, la sua Doralice. 

Alternando sapientemente i piani temporali, l’adolescenza di Lucia e quella di Amanda si intrecciano, raccontando e mettendo in parallelo tutta una serie di fragilità che le donne si trovano a dover affrontare, nel primo e spietato impatto con il mondo. Il romanzo, così facendo, non si limita a identificare nell’adolescenza “l’età fragile” per antonomasia, ma dona allo spettatore una panoramica completa di tutte quelle ferite che attraversano ogni essere umano, sempre presenti e difficili da lenire, a prescindere dall’età anagrafica o dal genere. L’autrice decide così di portare la sua riflessione e la sua analisi su un piano più complesso, che vede numerosi personaggi non solo messi costantemente al cospetto delle proprie fragilità, ma anche profondamente incapaci di comunicare, a parole, le proprie debolezze e i propri sentimenti. Senza bisogno di puntare su particolari cariche patetiche, senza impartire lezioni moraleggianti, Donatella di Pietrantonio ci regala, indubbiamente, una delle sue opere migliori, in grado di fornire al lettore un toccante quadro di resilienza umana.  

Quel giorno in cui ho scoperto di essere fragile: la perdita dell’innocenza. 

La storia di Lucia, proprio come quella di Amanda, porta alla luce, attraverso un fatto di cronaca nera, una costante nella vita di ogni essere umano: il romanzo vuole mettere in evidenza e concentrare l’attenzione sul momento esatto in cui muore l’innocenza, in cui il contatto con il mondo obbliga il singolo a confrontarsi con emozioni nuove, difficili da elaborare. Il passaggio all’età adulta avviene infatti quando siamo spinti, contro la nostra volontà, a crescere, e, soprattutto quando siamo costretti, per sopravvivere, ad accettare l’esistenza del male, della brutalità e del dolore. Questo “battesimo nel fuoco della vita” è una costante assoluta, destinata a mutare drasticamente la visione che l’Io ha di sé stesso e del mondo: l’utopia infantile di invincibilità si trova infranta nel momento esatto in cui scopriamo di essere fragili, e dunque esseri umani distruttibili. Tutto ciò che fino a quel momento ci sembrava lontano, appartenente a un immaginario incompatibile con la nostra quotidianità, si rivela come vicino e tangibile. 

All’interno del romanzo, questa esplorazione delle proprie fragilità, avviene quasi in parallelo: Lucia, tornando indietro nel tempo, ripercorre il suo primo, brutale, urto col mondo, non solo spinta dalla memoria rievocata dal luogo, ma anche attraverso il costante contatto con sua figlia, una donna ancora giovane, ma incapace di reagire e di rialzarsi dopo la presa di coscienza della propria frangibilità. Amanda, trasferitasi Milano per inseguire sogni accademici, torna in Abruzzo, come molti suoi coetanei, a causa del COVID: la ragazza che varca la porta di casa, non è però quella che, molti mesi prima, ha cominciato il suo viaggio verso l’età adulta. Qualcosa di indefinito sembra aver cancellato tutti i suoi sogni e le sue aspirazioni, rendendola inerme, incapace di agire e di riconquistare il senso della propria vita. A Milano è successo qualcosa, il punto di rottura è avvenuto all’interno della metropoli, durante una colluttazione e una rapina ai danni di Amanda stessa.

Mi resta il dubbio che di quella sera non mi abbia raccontato tutto. In fondo non era successo niente di grave, pensavo allora. Le avevano rubato soltanto la carta prepagata e il telefono. La ferita era superficiale, si sarebbe presto rimarginata. Non vedevo il danno piú duraturo, la fiducia nel mondo che le avevano strappato insieme alla borsa.

Ha dimenticato presto l’episodio, cosí sembrava. Non ha piú voluto parlarne, né con me, né con il padre. Le è rimasto addosso un riflesso che la fa saltare ai contatti improvvisi. Di notte dorme con la luce accesa e quando l’alba entra dalla finestra, Amanda preme l’interruttore e si abbandona a un sonno piú profondo. M’intenerisce l’inutile coltellino che a volte si porta in tasca

L’autrice, a questo punto, porta il lettore a guardare la giovane ragazza spegnersi con gli occhi di una madre che, disperatamente, cerca di normalizzare e razionalizzare il trauma subito dalla figlia: nel suo sguardo però la donna non può far altro che rivedere, giorno dopo giorno, al contempo se stessa e Doralice. È infatti il trauma subito da Amanda, a fornire, narrativamente, il gancio per lo svilupparsi di quel flashback che, attraverso il delitto del Morrone, mostra il tragico ingresso di Lucia nella vita adulta, trascinandola, ancora una volta, nel vortice delle sue stesse fragilità. La narrazione passata è infatti intrisa di una profonda “sindrome dell’impostore”, che vede la protagonista, seppur non direttamente, vittima di un trauma capace di metterla a contatto con la verità del reale. Quella sera, in quel bosco, Lucia non era insieme a Doralice, Virginia e Tania a causa di una scelta del tutto arbitraria, che l’ha spinta a prendere una decisione diversa per quella apparentemente normale sera d’estate. Il caso, un’alternativa banale, ha separato la vita dalla morte, rendendo la donna spettatrice di un atrocità di cui sarebbe potuta essere la prima vittima. 

Due storie diverse nello spazio e nel tempo trovano dunque un comune denominatore nell’ingresso delle due donne all’interno dell’età adulta: per la prima volta, entrambe, sperimentano il male del mondo sulla loro pelle, riuscendo ad emergere, ma non prive di profonde e dolorose lacerazioni. A distinguere la madre dalla figlia è solo il tempo, che ha permesso alle ferite di Lucia di trasformarsi in cicatrici, di accettare, seppur con fatica, la sconfitta dell’innocenza, e l’ingresso in un mondo che spesso e volentieri sa essere inospitale. 

Come si resta in vita, dunque, dopo il primo, definitivo, urto col mondo? Come si può accettare di vivere con la consapevolezza di essere costantemente esposti al pericolo ? Lucia, nonostante siano passati molti anni, non riesce a fornire a sua figlia le risposte di cui avrebbe bisogno: lei, per prima, non ha fatto altro che sopravvivere, giorno dopo giorno, cercando di sopprimere i ricordi e l’immagine, ormai sfocata, di Doralice.    

Tutte le parole che non ci siamo mai dette: essere madri ed essere figlie. 

“La vita segreta dei figli. Sappiamo che esiste, ma non siamo mai pronti a toccarla. Restano per sempre angeli senza sesso nel chiuso delle nostre teste. Indifferenziati, mai del tutto partoriti.”

Ad accompagnare quel senso di corruzione dell’animo umano, provocato dall’urto con il mondo è il rapporto generazionale che intercorre tra diverse donne della medesima famiglia. Protagonista assoluta della narrazione è la dinamica madre-figlia, che vede al centro della scena Lucia, voce narrante, e Amanda. La visione della propria figlia, sconfitta dai suoi stessi sogni, lascia la protagonista inerme, incapace non solo di imporsi nel modo corretto, ma anche di fornire una risposta efficace alle fragilità di Amanda. All’interno di una casa, un tempo capace di configurarsi come la culla dell’intimità familiare, arriva quindi un nuovo, spaventoso, inquilino: il silenzio, che non consente alle due donne di mettere le reciproche fragilità al cospetto l’una dell’altra. L’impossibilità di trovare un spazio per il confronto crea un muro, tanto metaforico quanto fisico: la cameretta dove Amanda è nata e cresciuta diventa una cassaforte per le sue emozioni, sigillata, costantemente buia e invalicabile. 

Ogni forma di contatto diventa così interferenza e scontro generazionale: Lucia non vuole, o forse non può, prendere coscienza di quelle ferite che sua figlia porta addosso e che faticano a rimarginarsi, mentre Amanda non immagina di poter trovare, nelle fragilità che hanno accompagnato sua madre per tutta una vita, la soluzione alla sua sofferenza. Ecco che però, sarà proprio una gita al Dente del lupo a fornire, contro la volontà delle due donne, i presupposti per un incontro tra le reciproche fragilità. Tutto ciò che sua madre ha vissuto in passato, tutte le atrocità provocate dal delitto del Morrone, sembrano scuotere Amanda più di ogni discorso motivazionale: ad un’iniziale sentimento di curiosità si sovrappone, velocemente, un nuovo slancio verso la vita. I fantasmi che, nel corso di molti anni, sono stati forzatamente sepolti dalla madre, riemergono come istanza salvifica per la figlia. 

Al termine del romanzo, Lucia, è costretta non solo a ricordare quel fatto di cronaca che l’ha toccata così da vicino, ma anche ad identificarlo come momento di scoperta della propria radicale fragilità. Sull’ormai preesistente rapporto tra Lucia e Amanda, all’interno della narrazione si innesta, quasi per associazione spontanea, il rapporto della protagonista stessa con sua madre. Il ricordo le permette di sovrapporsi ad Amanda e di ricordarsi, in un tempo passato, altrettanto silente, altrettanto inaccessibile, chiusa in una camera buia e priva di prospettive. Ritorna così, quasi offuscata dalla memoria, l’immagine di una madre non tanto diversa da ciò che lei, nel presente è diventata: se oggi Lucia è vittima del silenzio di sua figlia, un tempo era carnefice di un muro eretto nei confronti della madre. Un ricordo dolcissimo la riporta così nel vivo di un viaggio a Napoli (svoltosi pochi mesi dopo il delitto), dove, ripercorrendo gesti e parole, riesce a scrutare, nella donna che l’ha cresciuta, una molteplicità di fragilità che fino a quel momento non era stata in grado di cogliere a pieno. La mancata emancipazione, la poca cura per se stessa, la devozione ad un marito burbero, ma comunque buono, la paura di mostrarsi curata, truccata e acconciata, sono le fragilità nascoste che hanno accompagnato sua madre, cicatrici portate sul corpo e sull’anima nel corso di una vita intera. 

“Odiavo il suo spirito di sacrificio. Io non volevo essere come lei. Mi sarei presa tutto il possibile, mi sarei goduta la giovinezza e il resto. Non è stato proprio cosí. Mia madre mi ha segnata piú di quanto pensassi a vent’anni, ho finito per somigliarle anche troppo.”

Ecco che, Lucia, come voce narrante, si trova nella posizione centrale di madre e figlia allo stesso tempo: comprende, solo guardando al suo rapporto con Amanda, come quel viaggio a Napoli sia stato un tentativo, disperato, di portarla via da quella molteplicità di voci che, in poco tempo, avevano reso assordante la vita abruzzese, la ricerca di un silenzio metaforico, in cui fosse possibile ricreare, anche se solo per pochi istanti, l’illusione infantile di invincibilità. Sente che sua madre le è uguale, e senza che siano necessarie le parole, si accorge che Amanda, probabilmente, si sta ponendo le stesse domande che, molti anni prima, cercavano in lei una risposta. Proprio come per sua madre, anche per Lucia l’età fragile non è solo una “fase” che introduce l’essere umano all’età adulta, ma un percorso, che, senza alcun dubbio, ha avuto un inizio, ma che probabilmente non troverà mai fine. 

Ogni fase della vita, dall’adolescenza alla vecchiaia, è dunque caratterizzata da un nuovo e inedito modo in cui l’uomo si interfaccia con la sua fragilità: il primo ed inevitabile urto col mondo, di cui è allegoria il personaggio di Amanda, è solo il tassello iniziale di un percorso che prosegue, manifestandosi nel profondo senso di distanza e impotenza provato da Lucia nei confronti della figlia, arrivando alla sua conclusione con l’immagine della madre di quest’ultima, immortalata nei suoi ultimi anni di vita, al cospetto di una malattia che l’ha resa debole nel corpo e nella mente. Tutte le età, in questo senso, sono caratterizzate da una lotta continua, una sfida ad accettarsi, giorno dopo giorno, come esseri fragili. 

Una possibilità di riscatto: un romanzo sulla capacità di perdonare e perdonarsi. 

Al termine della romanzo, sarà proprio un concerto svoltosi al Dente del Lupo, a riportare la vita in quel luogo della memoria, che per anni la popolazione abruzzese aveva cercato di dimenticare: il lettore ritrova Lucia, Amanda, ma anche Doralice, insieme a tutti i personaggi protagonisti del passato e del presente. L’ultimo, brevissimo capitolo, mostra ancora una volta l’eleganza con cui Donatella di Pietrantonio ha deciso di affrontare la complessità del tema: senza bisogno di esplosioni patetiche o messaggi motivazionali fini a se stessi, senza impartire una morale o lezioni di vita assolute, l’autrice invita i suoi personaggi (e il lettore insieme a loro) a ritornare in un luogo che ormai è divenuto allegoria dello scontro, traumatico, con il dolore e il male del mondo. 

Le ultime pagine dell’opera vedono i protagonisti ritornare alle radici del proprio dolore per demolirlo, proprio come è stato demolito il vecchio campeggio. Lo spazio fisico dell’Appennino abruzzese diventa metafora di uno spazio emotivo, rappresentazione tangibile di un luogo che, per moltissimi anni, l’uomo ha cercato, seppur inutilmente, di dimenticare. Ritorna, come in molti altri romanzi dell’autrice, il macro tema della memoria e il tentativo disperato di cancellare uno spazio portatore di profonde e radicali ferite. Ciò che, un tempo, era stato Il dente del lupo viene così raso al suolo da Lucia, che con l’aiuto di Amanda, sua figlia, da a quella terra, la possibilità di rifiorire in qualcosa di nuovo, inedito.

L’obiettivo finale non è quello di fare “tabula rasa” dei propri traumi, ma l’accettazione di quest’ultimi e la conseguente volontà di ricostruire sopra le macerie. “L’età fragile” è dunque un invito al riscatto, verso se stessi e verso il mondo: tutto ciò si manifesta attraverso la creazione di nuove possibilità, attraverso la voglia di ricominciare a vivere. Un invito, quello dell’autrice, a perdonare la vita per tutto il dolore che ci ha provocato, e soprattutto a perdonare noi stessi per tutti gli errori che, giorno dopo giorno, ci perseguitano.  


Il romanzo: https://www.einaudi.it/catalogo-libri/narrativa-italiana/narrativa-italiana-contemporanea/leta-fragile-donatella-di-pietrantonio-9788806255787/


PREMIO STREGA 2021: DONATELLA DI PIETRANTONIO, “BORGO SUD” – UN PELLEGRINAGGIO NEI RICORDI (https://www.arateacultura.com/premio-strega-donatella-di-pietrantonio-borgo-sud-la-potenza-dei-ricordi/)

Francesca Manzoni

Redattrice di Cinema e Letteratura