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Le ragazze perbene sono solo quelle che restano. “Ragazze perbene” di Olga Campofreda attraverso le parole di Ferrante e de Beauvoir.

di Andrea Piumino

Il titolo del romanzo, di esistenzialiste memorie, è già chiaro di per sé. Le “ragazze perbene”, qui delineate come una classe specifica, un sottogruppo sociale preciso, sono quelle con la quale la protagonista del libro avrà sempre a che fare: da bambina come modello da seguire, da adulta come archetipo col quale essere confrontata.

Copertina del libro finalista al premio TIR

Ciò, come si è già fatto intendere, non può che riecheggiare la “ragazza perbene” che è stata Simone de Beauvoir e di fatto Olga Campofreda cerca di creare un parallelismo, o meglio, evidenziare un confronto tra le esperienze vissute dalla filosofa francese da ragazza con quelle della protagonista.

A parlare in prima persona è Clara. Il suo nome in tutto il libro ricorre poco più di una decina di volte in alcuni dialoghi, concentrati soprattutto nella seconda metà del romanzo e solo raggiunta la fine del libro intravediamo una fisionomia precisa del personaggio. La quasi soppressione del nome proprio della protagonista avviene tramite l’unione di due voci, quella della narratrice e quella dell’autrice, denotando, sin dal momento in cui si inizia la lettura, un’auto-finzionalità che costruisce l’intera narrazione. È proprio come accade nelle memorie di de Beauvoir, dove l’esperienza autoriale diventa pretesto per la creazione di storie, finzionali o non che siano. Il prologo de L’età forte, secondo libro del ciclo autobiografico della scrittrice esistenzialista, è una sorta di manifesto sulla scrittura del sé. A posteriori l’autrice si ritrova a far “esistere sulla carta”, citandola testualmente, il proprio essere, portatore di un bagaglio esperienziale specificatamente femminile. De Beauvoir rende il tutto estremamente romanzesco, così come il libro di Campofreda in cui la voce polifonica dell’autrice-narratrice, testimone di una caratteristica e personalissima educazione sentimentale, fa vivere sulle pagine la sua presa di coscienza.

Clara è nata a Caserta ma vive a Londra da diversi anni. In occasione del matrimonio della cugina Rossella, deve tornare nella sua città natale, ed è di questo ritorno che parla il libro: il confronto con il microcosmo della sua città di provincia, una sorta di società di status come quelle identificate da Mannheim ne Il problema delle generazioni.

Rossella è quella parte di me che invece di andare è rimasta. Penso a lei come al mio Sliding Doors personale, quel film in cui prendere il treno o perderlo è un dettaglio che sdoppia la vita della protagonista in due traiettorie opposte. Immagino la mia vita nella sua, se avessi deciso di restare: eccomi ad aiutare in cucina per i pranzi di famiglia ogni domenica, eccomi accanto alla nonna a capo della lunga tavolata, con la camicia stirata che profuma di pulito e gioielli preziosi ma non troppo, come si addice ad una ragazza ancora giovane.[1]

Rossella è una di quelle ragazze perbene che danno il titolo al libro, è una donna accomodante, metodica, lontana dai problemi. Le ragazze perbene delle città di provincia sono quelle che hanno i capelli in ordine e la camicia stirata, che dicono sempre di sì e che sposano il loro fidanzato storico. Queste donne si confondono tra loro, i loro corpi uguali, i loro uguali percorsi.

Quasi tutte le nostre ex compagne di classe – ragazze perbene – raggiunti i trent’anni contano almeno un bambino. Tutte hanno un marito o un compagno, e chi di loro lavora ha un’attività facilmente identificabile: sono maestre o avvocate, qualcuna fa il medico part-time in uno studio privato, altre sono mamme a tempo pieno, ma solo fino a quando i figli saranno grandi abbastanza, e questo ci tengono a precisarlo subito. [2]

Clara, dunque, nel pensare a Rossella come Sliding Doors, è consapevole che sarebbe potuta diventare come lei se non si fosse allontanata da quella città. Sarebbe diventata anche lei quel modello di donna preconfezionato, paradigma perfetto per bambine rabbonite tenute a debita distanza da esempi devianti, adeguandosi così a dei ruoli sociali che non sente come propri, che le preesistono e le sopravviveranno.

Vivere a Caserta però non è poi così diverso da vivere nel Rione napoletano dell’Amica geniale di Elena Ferrante: la storia di Clara e Rossella è la stessa storia di Elena e Lila, è la Storia di chi fugge e di chi resta di cui Ferrante parla in tutta la sua produzione narrativa: la città che modifica le persone, che le perseguita e le uniforma.

La vita delle ragazze perbene nelle città di provincia è una via crucis fatta a stazioni di appuntamenti sociali dove ogni allontanamento è un piccolo scandalo. La voce di quello che è stato e non doveva essere si propaga tra i palazzi del centro, penetra sotto i vetri dei balconi, arriva nei soggiorni durante la controra e lascia un brivido erotico lungo la schiena a chi dice che vergogna, questo certo non siamo noi, noi siamo migliori.[3]

A rendere perbene una ragazza, ad addolcirla, è la paura della vergogna, l’essere ritenute “non adeguate”, l’onta che ne deriverebbe. E ancora:

Che cosa era stata davvero la vita delle ragazze perbene? Tenerci docili, crescere nella vergogna chiamandola purezza. Imprigionate come Belle nel palazzo della Bestia, ci avevano addestrate ad avere paura della rosa tumulata nelle segrete del castello, lontana dal nostro sguardo.[4]

Questo motivo ferrantiano della città che imprigiona, che ossessiona le persone finché ci vivono e le perseguita quando se ne allontanano, è pervasivo in tutto il testo. Anche a Londra, lontana da casa, sente comunque il confronto con queste donne ammodo, le aspettative deluse dei suoi genitori, le cattive dicerie sul suo conto di amici e vicini di casa, fino a voler negare la propria origine casertana, il voler considerare la città natale altro da sé, un qualcosa di completamente estraneo.

La differenza che separa le due ragazze si può rintracciare nel passaggio, mancato nel caso di Rossella, da una comunità stabile ad una collettività sociale, sempre utilizzando il lessico di Mannheim. Il rapporto tra “quelli che fuggono e quelli che restano” è reso evidente nella lettera che Rossella lascia a Clara:

Scusami, Clara, mi sento una stupida a scriverti queste cose. Ti racconto tante storie a metà e forse ti annoio. Non era questo il punto, in ogni caso. Il punto è che tu sei andata, tu hai avuto coraggio e te lo invidio. Come quando leggevi i manga da ragazzina, quei fumetti che io non volevo neanche guardare per paura di essere scoperta, adesso ti mando avanti perché tu possa raccontarmi poi cosa succede, cosa si prova.[5]

Di fatto è la città che mette paura, pone limiti e tarpa le ambizioni delle ragazze, è Caserta, quella società organica dove ogni giovane occupa il suo ruolo e tutto quello che esce dalla norma viene considerato degno di biasimo. Ma non è solo quel microcosmo. Caserta è solo la più piccola delle scatole cinesi. Fuori da Caserta sono infiniti gli ostacoli che la società ti pone. E per questo motivo questo testo, proprio come i testi di Ferrante o de Beauvoir, diventa una sorta di parabola femminista che mette in luce le difficoltà che una donna deve fronteggiare per esprimere la propria individualità, chi non ha abbastanza forza per essere sé stessa e chi, pur avendola, desidera solo star lontano da quella società che le ha ricordato quanto fosse sbagliata.


[1] Olga Campofreda, Ragazze perbene, NNE, 2023, p. 8

[2] Ibid. p. 11

[3] Ibid. pp. 16-17

[4] Ibid. p. 133

[5] Ibid. p. 155

Andrea Piumino

Redattore di letteratura