Racconti

L’avventura di una Vita

Illustrazione di Elena Buttolo

“Attraverso l’eterna notte
il tremolio sidereo nell’iride
schiuse al primate il Futuro”

Nei tempi remoti in cui la culla della civiltà brulicava di foreste e lande smeraldine, ai giovani umani bastava inerpicarsi in cima agli alberi, su quei rami tesi verso l’Infinito, per sentirsi vicini ai puntini lattescenti che, ogni sera, comparivano al tingersi di cosmo della volta celeste. Del resto, non v’era nulla di più semplice per chi disponeva di una miriade di liane e di una scimmiesca propensione all’arrampicata.

La meraviglia era così a portata di zampa, rinfocolata da una fanciullesca incoscienza del vero; sicché la mestizia e la noia esistenziali erano malanni ignoti nella vita dell’umanità degli albori. Non è di fatti contemplabile esser infelici se non si possiede coscienza di quel che manca, bensì solamente un’illusoria, parziale certezza di quanto si ha.

Dopo che molteplici generazioni di Homo ebbero avuto modo di susseguirsi su tal globo giocondo, una prolungata siccità si abbatté su larga parte delle terre dei primordi e gli ominidi si trovarono dinanzi un primo inghippo. Le foreste, sconfitte, avevano lasciato campo a piante sempre meno alte e più isolate: rassomiglianti a scogli solitari attorniati da mari di steli paglierini, il loro incedere aveva ormai sommerso gli arborei terreni dei tempi passati.

Gli Umani, nei cui spiriti già da tempo albergava un insopprimibile desiderio d’immenso, proprio non tolleravano di dover vagare per ore finanche giorni interi pur di trovare fronde libere su cui stendersi a riveder le stelle. Ciò condusse l’umanità, ancora sparsa a chiazze sul mondo, a viaggiare, ed esplorare; ma vi era anche da pensare alle incombenze di tutti i giorni, alla vita pratica e non solamente a quel che risultava lontano, irraggiungibile.
E così, per potersi anche solo avvicinare in qualunque momento a quelle cosmiche gemme da Homo tanto bramate, qualcuno prese ad ergersi stabilmente su due zampe e a rizzare la schiena: in tal maniera divenne assai più semplice rivolgere il proprio capo, e con esso i propri occhi, all’insù, verso l’ignoto privo di confini.

Beando i propri spiriti di cielo e d’inconoscibile, gli Umani avevano ormai imparato a ragionare in astratto, a figurarsi quanto trascendeva l’esperienza dei sensi: in una parola, ad immaginare. Il salto evolutivo fu incommensurabile: da allora, umano ed animale imboccarono differenti cammini lungo la via del magnifico; poiché con l’immaginazione giunse l’intelligenza. Croce e delizia per Homo, essa lo avrebbe elevato a divinità, condannandolo però al contempo ad una perenne infelicità; ma ciò, all’epoca, non era affatto chiaro. Anzi.

Avendo sottratto ben due zampe al contatto con la terra, l’umanità comprese presto come destreggiarsi con gli svariati utensili che ingegnosamente levigava, veri e propri prodotti della sua creatività. Se con le mani andava ritagliandosi un mondo nuovo, a propria immagine e somiglianza, con la mente i più temerari presero a sondare le verità soggiacenti ai misteri del mondo e della vita.

Purtroppo però, un vispo intelletto conduce il profano fra le braccia della vanesia: pertanto, contemporaneamente all’intaglio dei primi gradini della scala della civiltà, prese corpo una necessità quasi impellente di farsi beffe di quella natura che pur aveva sempre rifornito gli ominidi di riparo e ristoro; nonché di pavoneggiarsi coi parenti animali per le proprie conquiste tecniche, finendo col dar per scontati l’una e gli altri.
Tutto ciò avrebbe causato guai, un giorno remoto; ma allora tali conquiste sempre più rapidamente presero a succedersi e tramandarsi nei Tempi, verso il Futuro, di padre in figlio.

Non pareva di esser caduti dall’Eden, bensì di averlo trasformato e per il meglio, se possibile. Finché non venne il giorno in cui ogni Homo -chi più, chi meno- divenne Sapiens, pienamente consapevole del proprio intelletto: la più peculiare fra le abilità della specie, ciò che le forniva un vero e proprio trampolino di lancio. Si fece consuetudine diffusa interrogarsi, porsi intimamente delle questioni: inerenti al motivo per il quale gli umani potessero riflettere ed immaginare, al contrario dei propri coinquilini terrestri; al perché fossero giunti nel mondo, chi o cosa ce li avesse condotti e per adempiere a quale scopo, se v’era un fine.

Ci fu chi si disinteressò della questione, tornando a cacciare, a danzare od inventare; molti altri invece si crucciarono per il fatto di non riuscire a dar risposta alcuna a questioni ritenute fondanti, abbandonando perciò ogni attività pur di rimuginarci su, nella speranza di cogliere quell’illuminazione atta a svelar l’arcano. Finché gli umani meno sociali, condannati ad una perpetua tensione verso verità cui mai avrebbero potuto stabilmente approdare, afflitti da quest’incolmabile ignoranza ed inappagabile sete di sapere, iniziarono in massa a ritenere che questa vita, tal inestricabile enigma, non fosse degna d’esser vissuta più a lungo se non compresa nelle più intime sfaccettature; che tutto, persino l’amore, fosse meramente illusorio, relativo, effimero.

I più saggi di ogni tribù, profondamente angustiati dalla nichilistica prospettiva che stava conquistando gli animi di diversi umani, decisero allora di riunirsi in consiglio.
Per conversare, fu scelta la notte: non casualmente, se è vero che il sole sì scalda ed illumina, ma così facendo cela il reale aspetto dell’universo. Diversi animi acuti si radunarono pertanto in un’appartata radura delimitata d’alberi silenti, attorno ad un alto fuoco alimentato da fulvo legname e secche frasche, all’ombra delle stelle: molte menti brillanti parlarono quella notte, per tutta la notte.
Ognuna di esse era portatrice di esperienze differenti, dunque di idee e punti di vista fra i più disparati; ma dal loro scontro-incontro ne scaturirono linee guida comuni. Innanzitutto, si indagò attorno al sapere, che come un cataclisma di biblica portata aveva spazzato via, col proprio sopraggiungere, le antiche illusioni e miti, i credi sui quali sempre s’era sorretto l’esistere degli avi.

La conoscenza, si disse, non solo affascinava, seduceva ed incantava; anche spaventava, sovrastava gli stessi spiriti che l’inseguivano: conduceva negli animi un sentimento contraddittorio e straniante, in ultima istanza sublime. I più ritennero immorale abbracciare l’ignoranza per mero timore della verità: fra la possibilità dell’oblio e del dolore coraggiosamente optarono per quest’ultima.
Scelta ardita, che non implicava solamente una decisione estemporanea, bensì l’adozione d’un preciso credo di vita che, non lo si nascondeva, avrebbe annesso l’infelicità fra le peculiarità di Homo. Vi furono pertanto dei dissidenti, incapaci di tollerare una tal prospettiva: alcuni fra essi provarono a squarciarsi il petto, nel vano tentativo di far defluire fuori dallo sterno quel vuoto che, opprimente, subitaneamente li aveva colti; mentre altri si dettero alle fiamme, nell’estremo tentativo di farlo evaporare, per disperderlo nei venti di tramontana.

Coloro i quali ritennero che la sofferenza non avrebbe mai dovuto vanificare la tenacia di vivere sempre secondo verità e giustizia, proseguirono a discutere: era possibile accettare nelle proprie esistenze l’infelicità, poiché il dolore affina l’empatia e rende più vicini a tutto ciò che esiste, e patisce; nonché quel senso d’incompletezza che, senza sosta, rimbomba nello spirito, in quanto fa sì che non ci si possa mai scordare di sondar sé stessi; e persino la mancanza d’una verità unica e stabile, poiché tal mancanza avrebbe mantenuto acuti gli intelletti, che mai avrebbero cessato di porsi interrogativi.

L’Umano non si sarebbe mai accontentato di alcunché, ma così agendo avrebbe avuto un motivo per continuare ad esistere, nonostante le avversità che gli si sarebbero parate dinanzi lungo il proprio interminabile peregrinare.

Su di un fatto infine tutti si trovarono concordi: in mezzo a tante insicurezze e perplessità, l’unica certezza per gli Umani era la vita cui avevano l’onore di partecipare, qualunque ne fosse la causa o la finalità. Tale vita era la sola avventura che possedevano e, dunque, un tesoro da tenersi stretto e da condividere il più a lungo possibile con più persone possibili. Unicamente in tal modo non sarebbe mai andata smarrita la coscienza delle umane pene ed errori: essi avrebbero seguitato ad esistere, affinché un giorno il mondo potesse divenire quel che avrebbe dovuto e potuto essere. Il peso del dolore cui la specie era stata condannata si sarebbe diluito, se compreso ed affrontato da ciascuno, nel proprio piccolo.

Sul principiare d’una nuova alba, mentre il Sole scalpitava per uscir naufrago da quell’intensa nottata ed il consiglio scioglieva per sempre il raduno, pare che i saggi si sdraiarono pancia all’aria cercando anche solo d’immaginare quanti e quali interrogativi avrebbero potuto ricongiungersi ai propri responsi, quanti altri fascinosi misteri sarebbero stati posti e sondati: alcuni sarebbero risultati banalmente utili; mentre altri avrebbero oltrepassato la soglia dell’incredibile, apparendo incomprensibili ai più. Lacrime di commozione colsero chiunque tentasse di cimentarsi in tal esercizio d’immaginazione: e vi fu chi poté partecipare in minima parte al Futuro, intuendone alcune delle meraviglie.

E così i cari avi affidarono alla loro progenie il compito di trovare un giorno le risposte che tanto avevano ricercato invano: sicché vissero, e tramandarono tutto ciò che ebbero avuto modo di imparare nel ristretto arco di una vita. Prima oralmente, poi a lettere incise su pietra, papiri, pergamene, carta e digitale. Grazie a questa risolutezza nell’affrontare e vivere sofferenza ed ignoto, si poté apprendere come costruire edifici più eminenti degli alberi stessi, per poter seguire sempre più da vicino una vecchia passione.

Si narrò, in un antichissimo scritto, di una torre altissima, ritrovo per Umani d’ogni lingua e cultura che volessero provare a toccare il cielo e gli astri che vi dimoravano con le proprie mani: affinché ciò risultasse possibile, l’Umano osò persino sfidare i cieli in altezza, applicando il proprio acume alle conoscenze acquisite col volgere delle epoche. Pare che, a causa di tal supponenza, la torre ed i suoi costruttori caddero in rovina per volontà d’un’altra creazione di Homo: il Padre dei Cieli. Non prima però di esser riusciti a sfiorare, commossi, gli agognati astri con le punte delle dita. È probabile che ciò sia una fantasia di vecchissima data, fra le miriadi prodotte dalla vulcanica fantasia umana; eppure ci fa capire quanto sia atavico e connaturato nei Sapiens il desiderio di giungere alle stelle, ove par dimori quanto da sempre vanno ricercando: l’Infinito.


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Credits:
Illustrazione di Elena Buttolo
@e.butt.

Simone Bertuzzi

Redattore sez. Storia & Società