L’arte queer di arrivare quarti alle Olimpiadi e altre forme di fallimento
Le recenti Olimpiadi hanno destato un inedito interesse nella competitività sportiva. L’Italia è la nazione che ha collezionato più quarti posti alle Olimpiadi di quest’anno, un posto in classifica che in una prospettiva egemonica, nella narrazione della performatività produttiva, è considerato un disvalore che deve essere biasimato. Chiaro esempio sono stati i giornalisti Rai, pronti a chiedere alla maggior parte degli atleti fuori dal podio se questa fosse stata la loro peggiore prestazione, oppure, il caso della nuotatrice Benedetta Pilato, che dopo essere arrivata quarta e aver dichiarato che quello fosse il giorno più bello della sua vita, si è sentita rispondere dalla schermitrice Elisa di Francisca che rabbrividiva per l’assurdità di questa dichiarazione. Tuttavia, se nell’atteggiamento della schermitrice sono concretizzati i valori che stanno dietro a questo ideale di successo produttivo e performativo, nelle parole di Pilato si può notare invece un diverso orizzonte assiologico che nel suo essere controegemonico possiamo definire queer. In che modo, dunque, tutto questo si lega con la teoria queer?
Eve Kosofsky Sedgwick, nel testo che in un certo senso ha aperto la strada ai queer studies, Epistemology of the Closet (1990), ipotizza l’idea che le questioni più importanti della cultura siano implicate nelle relazioni della visibilità e dell’articolazione della possibilità omosessuale.[1] Quello che tenta di fare nell’introduzione assiomatica (e poi nel dettaglio nei paragrafi 2 e 3) è interrogare il binarismo omo/eterosessuale per dimostrare come il problema di questa definizione ha influenzato indelebilmente la nostra cultura, allo stesso modo di come in passato è avvenuto per quei nodi cruciali tradizionalmente più visibili, come genere, classe e razza.
Per far questo Sedgwick analizza una serie di binarismi concernenti diversi ambiti identitari – come le coppie antitetiche segreto/rivelazione, conoscenza/ignoranza, pubblico/privato, maschile/femminile, maggioranza/minoranza, innocenza/iniziazione, naturale/artificiale, nuovo/vecchio, attivo/passivo, dentro/fuori, arte/kitsch e varie altre coppie che hanno a che fare con il nostro sistema assiomatico – per dimostrare attraverso queste categorie come la crisi contemporanea della definizione omo/eterosessuale abbia influenzato la nostra cultura occidentale. Tra i binarismi considerati da Sedgwick, tuttavia, il binarismo successo/fallimento è assente. Ovviamente, gli studi sul fallimento queer, di cui Halberstam e Muñoz sono i principali teorici, all’epoca di Sedgwick non esistevano, ma possiamo considerare questo binarismo alla luce di quanto vuole dimostrare Sedgwick dal momento che presenta le stesse caratteristiche degli altri binomi analizzati in Epistemology of the closet per evidenziare come il binomio omo/eterosessuale sia pervasivo nella nostra cultura.
Così come nelle coppie antitetiche di Sedgwick, il binomio successo/fallimento non è fondato su un rapporto simmetrico, dal momento che il termine ‘fallimento’ è subordinato al termine ‘successo’ e il termine ‘successo’ è ritenuto più importante in quanto considerato la norma, la normale aspirazione di un individuo. Inoltre, li lega uno strano rapporto non solo di opposizione ma anche di interdipendenza tale per cui uno si può definire soltanto attraverso l’esclusione dell’altro, al punto che è difficile dire cosa è venuto prima: definiamo il successo in relazione al fallimento? o viceversa?[2] L’idea di fallimento non è partorita come un pensiero indipendente ma strettamente subordinato e legato all’idea di successo e alla mancanza di questo. Fallire, nella cultura occidentale e capitalistica, significa riconoscere la propria incapacità di superare una situazione e raggiungere uno scopo, e allo stesso tempo rappresenta il tradimento nei confronti delle speranze e delle aspettative che la società pretende per noi e dei sogni che non siamo riusciti a realizzare.
La nascita del concetto di fallimento queer è stata una sorta di poligenesi[3]: a parlarne per primi sono stati autori diversi a breve distanza, in particolare Muñoz e Halberstam. Per capire bene cosa sia il fallimento queer mi avvalgo dell’esempio che porta Halberstam nel suo saggio The queer art of failure (2011), quando, parlando di fallimento, inserisce la serie fotografica Fourth dell’artista Tracey Moffatt, che immortala i quarti classificati nelle varie competizioni delle Olimpiadi di Sidney del 2000. Secondo Moffatt i quarti classificati sono i ‘veri perdenti’, in quanto piazzarsi al quarto posto, secondo lei, è più triste che perdere in maniera netta. Se un atleta arriva quarto vuol dire che è quasi bravo, non è il peggiore (cosa che gli conferirebbe – sempre secondo Moffatt – un certo glamour) ma lo è quasi.[4]
Questo esempio può apparire quasi didascalico, comprendere il fallimento attraverso la messa in evidenza di coloro che non hanno ottenuto la vittoria; è un esempio calzante che tuttavia può essere fuorviante. Non bisogna fraintendere pensando che tutti coloro che hanno perso sono persone queer, altrimenti statisticamente il mondo sarebbe molto più queer che straight in maniera esponenziale. A praticare attivamente il fallimento queer non sono quelli che sono arrivati quarti (aspirando comunque ad arrivare primi); a praticare il fallimento queer è Moffatt stessa, che nello schierarsi dalla parte di quelli che lei considera i ‘veri perdenti’ si sta ponendo su un diverso piano assiologico. Solo spostando l’attenzione dai quarti classificati al lavoro e alle intenzioni di Moffatt possiamo cominciare a comprendere come funziona il fallimento queer, un fallimento che non ha a che fare con la mancata vittoria in una competizione ma nella deliberata volontà di collocarsi su un sistema di valori non egemonico contro quello che un sistema capitalistico ti vuole indicare come idea di successo. In questo caso le Olimpiadi si legano alle narrazioni egemoniche di successo radicate nella performatività produttiva ed elitaria, con le classifiche dei migliori al mondo e i nuovi record che devono essere battuti. Un orizzonte assiologico diverso è possibile, se non si guarda alla competizione con la tossica convinzione di compiacere e aderire a standard. Il carattere connaturato del successo si lega al riconoscimento da parte degli altri, del proprio merito e del proprio operato, e la messa in atto di questi comportamenti porta a criticare le soggettività invece di analizzare criticamente le strutture egemoniche. Se la società induce a concepire l’idea di vincitore (o piuttosto di vincente) non slegata all’ideale di egemonico e di tutto ciò che è considerato ‘normale’, così come l’idea di eterosessuale, di cisgender, di bianco e di abile, che si muove secondo la logica del traguardo, del successo e della successione, allora i corpi queer diventano ‘portatori sani di fallimento’[5].
Quando parliamo di fallimento queer, però, bisogna prima di tutto capire cosa si intende per queer. Halberstam intende la parola non nel suo senso più strettamente legato all’ambito sessuale, ma in senso lato con il significato di trasversale, nel suo senso originario del termine, dal germanico quer, che sta per non egemonico, antagonista e controcorrente, che si lega etimologicamente anche al verbo latino torquere che descrive l’azione di torsione, sovversione e revisione della pratica stessa di scrittura e di storia. Dunque, per queer non si intendono solo le persone queer nella concezione più strettamente politica del termine (omosessuali e persone trans*) ma in un’ottica intersezionale (e comunque politica, anche se in un modo molto diverso) presuppone anche le persone nere, gli emarginati di classe e gli oppressi.
È comunque evidente che non tutte le identità minoritarie si pongono su questo diverso piano assiologico: quando si dice “fallimento queer” non si vuole intendere che tutte le persone queer, secondo i valori della nostra civiltà occidentale eterosessista, siano falliti. Molte persone appartenenti alla comunità LGBT[6] – dunque facenti parte del gruppo storicamente connotato degli oppressi – agli occhi della nostra società vengono considerati successfull. La persona queer che aspira al successo (e che talvolta lo ottiene) è quella persona che vuole essere riconosciuta da un sistema sociale da cui è sempre stata esclusa, inserendosi in strutture bianche, binaristiche ed eteronormative, seppur omosessuale, dunque, inserendosi in quel regime omonormativo esemplificato bene dal titolo di un saggio di Antonia Ferrante, che (facendo eco al saggio di Fanon Pelle nera, maschere bianche) intitola Pelle queer maschere straight. Spesso queste maschere straight si inseriscono a tal punto all’interno di queste dinamiche egemoniche da fare proprie le “normali” aspirazioni eterosessuali: aspirano a vivere in coppia, a sposarsi, ad avere figli; tutti obiettivi che all’interno di una società eterosessuale vengono considerati come segni di successo e la cui mancanza viene a risignificare una nuova forma di fallimento[7].
Le persone queer che non hanno questa maschera, invece, sono le vere portatrici sane di fallimento. Persone che vivono fuori dal tempo e dallo spazio, proprio perché a loro è stato precluso l’accesso a determinati spazi e determinati momenti: vivono fuori dalla storia perché sono stati considerati inintelligibili dal sistema normativo eterosessuale. Non è un caso se Halberstam approda alle riflessioni sul fallimento queer subito dopo aver indagato la temporalità e la spazialità queer. Nel saggio In a queer time and place (2006), il saggio precedente a The queer art of failure, Halberstam ha cercato di dimostrare che questa esclusione dal tempo e dallo spazio normativo ha fatto sì che le persone queer si organizzassero per creare degli spazi propri con una temporalità estranea a questo sistema dal quale sempre sono stati preclusi e oppressi. Questi spazi propri possono essere assimilati al concetto foucaultiano di eterotopia, ossia dei contro-spazi che esprimono la contestazione degli spazi egemonici avendo come scopo quello di «cancellarli, compensarli, neutralizzarli o purificarli»[8]. Foucault stesso afferma che «non esiste alcuna società che non si faccia la sua eterotopia o le sue eterotopie»[9]; e quella omosessuale (ma soprattutto, quella più largamente queer) non è in fondo essa stessa un tipo particolare di società?
In questi contro-spazi si ha una temporalità – che potrebbe essere definita eterocronia[10] – che predilige il presente sulla trasmissione generazionale di valori e proprietà, e non persegue necessariamente la maturità (intesa come età della vita) o la longevità a tutti i costi, ma che privilegia l’instabilità alla continuità sociale fondandosi su economie precarie. È evidente come questo testo, seppure pubblicato sei anni prima di The queer art of failure, contenga già in nuce le idee di fallimento queer. È in questi contro-spazi, in questa temporalità non normativa, in questa mancata aspirazione all’assimilazione e desiderio di antisocialità, che si fallisce: nel tempo straight tutto ciò che è queer può solo fallire: noi persone queer siamo i falliti agli occhi capitalisti degli eterosessuali in quanto non ci siamo impegnati abbastanza per essere integrati nelle loro istituzioni.
Applicare ai corpi queer l’etichetta di falliti, dunque, restituisce il significato della parola da cui ha origine: fallace, che inganna, porta all’errore, non fondato nel vero. L’idea che ci sia una sola verità, un solo modo di vivere, di pensare e di esistere, giustifica e riduce ai minimi termini comportamenti promossi dalla società capitalista.[11]
Riprendendo un’analogia ancora di Servello,[12] si può dire che in questa “alfabetizzazione coercitiva” della società, i corpi queer, non considerati “leggibili” dal sistema etero-patriarcale dal momento che vivono in spazi e tempi diversi, assurgono al ruolo e alla funzione di “illeggibili”, dunque corpi che sono inintelligibili da una prospettiva eterosessista diventano invisibili in quanto non vengono riconosciuti nel normale sistema assiologico di valori. Ma questa loro inintelligibilità, seppure possa sembrare controproducente per il riconoscimento delle identità subalterne, diventa un rifiuto politico, un metodo per sfuggire alla manipolazione, che rende manifesta la realtà queer che non solo scavalca il regime classificatorio del successo capitalista ma ne stravolge i paradigmi.
Attraverso la prospettiva della leggibilità, la persona queer può avere successo solo se aderisce a questa socialità eteronormativa al punto da diventarne motivo di vanto, anche a livello economico, come afferma Harris,[13] «per quello stesso architrave sociale che lo ha rilegato alla condizione di emarginato».[14]
Il successo inteso come accumulo di beni e simbolo di uno status sociale che deve aderire ad una serie di regole socialmente e culturalmente introiettate, è manifestazione di uno stato patologico della società patriarcale e capitalistica. [15]
Ciò che la narrazione egemonica ha dunque sempre messo in ombra della temporalità e della spazialità queer è proprio la sua camaleontica capacità in divenire dell’essere in potenza, che si manifesta nella possibilità di fallibilità, di indefinitezza, di rottura dai fondamenti eteronormativi di tempo e storia.
Halberstam, in The queer art of failure, pone al centro della sua indagine lo smantellamento delle logiche di successo riscrivendo nuovi modi di fare mondo che passano direttamente dalla paura, dalla perdita e dall’incertezza di cui i corpi queer diventano espressione. A livello teorico non si può che essere più d’accordo, tuttavia per farlo, Halberstam si appella alla teoria bassa di Stuart Hall per prendere come esempi di fallimento queer i film di animazione per bambini e alcuni film da lui stesso definiti “demenziali”. Capisco il concetto di risemantizzare medium egemonici – concepiti all’interno di un sistema capitalistico e produttivo – per far parlare identità non egemoniche, ma per parlare di fallimento, sembra più calzante far parlare la marginalità.[16] Per questo motivo di Halberstam sono sicuramente condivisibili le sue riflessioni su Moffatt e sugli altri artisti presenti nel capitolo 3 e 4 per parlare di fallimento queer ma meno il resto del suo “silly archive”. Per parlare di fallimento queer la posizione più integra sembra invece quella proposta da Muñoz nel suo Cruising Utopia (2009). Il saggio a dire il vero non è dedicato primariamente all’idea di fallimento. L’utopia a cui fa riferimento Muñoz però è un’utopia che non ha a che fare con la progettualità di un futuro, ma all’idea di costruire un futuribile nel presente attraverso l’identificazione di eterocronie ed eterotopie. A questo proposito il sottotitolo è molto eloquente, The Then and There of Queer Futurity, dunque un “allora” e un “altrove” della futurità queer, due concetti simili e a tratti sovrapponibili a temporalità e spazialità queer. E anche Muñoz, come Halberstam, dopo aver parlato di queste utopie-eterotopie (ed eterocronie), arriva a parlare di fallimento. E gli esempi che porta sono esempi provenienti dal margine, proprio in quell’orizzonte della futurità queer. Performance di artisti di un panorama underground legati all’idea di fallimento non perché le loro performance riscuotevano poco successo[17], ma perché ponendosi su un piano assiologico diverso da quello egemonico, facevano del fallimento e della negatività un dissenso politico, una forma di resistenza minoritaria alle forme del controllo sociale che passa attraverso il rifiuto.
Il nostro sistema produttivo capitalistico, facendo leva sulla tradizione, sul moralismo e sulla morigeratezza, ci induce a pensare che i corpi queer non siano solo coloro che praticano l’azione di fallire, ma rappresentino coloro che diventano il fallimento stesso. Riprendendo il titolo dell’articolo di Servello, i corpi queer diventano disastro, da sostantivo che indica il fallimento a sostantivo che indica il fallito. Per questo motivo bisogna rigettare quanto ci vuole insegnare la nostra società, e trasformare lo spazio del fallimento in un terreno fertile che ci permetta di vederne il potenziale rigettando l’idea dell’eccezionalismo umano portata avanti dalla retorica del successo.[18]
Ci dovremmo dunque riappropriare della parola fallimento, risemantizzarla e sentirci orgogliosi di avere fallito, allo stesso modo di come negli anni ‘90 Queer Nation si è riappropriata della parola queer. Fallimento, come la parola queer, è una parola che porta con sé una forte negatività, ma una negatività che viene esperita solo da coloro che sono partecipi di un sistema egemonico oppressivo. Proprio per la negatività che è connaturata nel termine stesso, in questa società produttiva capitalistica deve essere per le persone queer e per tutte le identità non egemoniche in generale un motivo di vanto. ci si deve porre come obiettivo quello di allontanarci dai modelli produttivi rappresentati dalle persone che hanno avuto successo in questo sistema di valori nonostante la loro omosessualità, dobbiamo invece collocarci in un sistema assiologico diverso, che non partecipa a queste dinamiche. Come recitava il titolo di un evento del collettivo genderqueer LTTR (Lesbians To The Rescue), bisogna praticare di più il fallimento: fallire deve diventare una pratica, un allenamento, un necessario esercizio collettivo per contrastare tutti i processi che ci hanno classificato come “illeggibili”, etichetta che ci viene affibbiata dall’unica strada possibile: la perfezione del successo. Dobbiamo allora usare il fallimento come strumento per mostrare il nostro rifiuto politico:
[uscire] dal copione, laddove il copione è il mandato per il quale le persone queer e ogni performer di una cultura minoritaria lavora non per sé ma per una gerarchia culturale distorta.[19]
[1] Sedgwick, p. 51.
[2] Sedgwick, p. 42.
[3] Uso questo termine ovviamente non nel suo significato religioso ma nel significato che assume il termine nella filologia classica: sui manoscritti gli errori poligenetici sono quelli che i copisti possono compiere sul testo in modo personale e indipendente senza che vi siano relazioni di parentela filologica tra i due manoscritti. Un concetto simile è evocato, pur senza farne il nome, anche da Donna Haraway quando parla del conio del termine “capitalocene”: “se si pensa di averla inventata, basta guardarsi attorno per rendersi conto di quante altre persone la stanno inventando in questo momento” (Haraway, p. 215).
[4] https://www.artgallery.nsw.gov.au/collection/works/?group_accession=154.2011.1-26 sito sul quale è visibile l’intera serie (ultima consultazione 17/08/2024).
[5] Servello, p. 22.
[6] Mi fermo qui con la sigla e non vado oltre volutamente, in quanto queste sono le “etichette” che più protendono alla normatività, in particolare omonormatività e transnormatività.
[7] L’idea di “successo” legata al regime omonormativo è lucidamente messo in luce da Daniel Harris nel suo importante The rise and fall of gay culture. Tuttavia, se in questo sistema assimilazionista successful è chi è monogamo, chi si sposa e chi conduce la sua vita sostanzialmente da “eterosessuale”, per l’idea di successo non è per forza necessario avere i figli, basta essere integrati e assimilati a questo sistema eteronormativo, e Harris lo spiega bene in termini economici (Harris, p.78): se una coppia ha figli, dimostra di avere possibilità economiche per poterseli permettere in quanto le pratiche di adozione e gestazione per altri non sono alla portata di tutti. Se invece non hanno figli sono una coppia di “dink” (dual income, no kids), e quindi la loro capacità di spesa è innegabile. L’omosessuale che aspira al successo sa che deve essere appetibile a livello economico perché sa che quella assimilazione a cui aspira dipende dalla quantità di denaro che è in grado di fornire a questo sistema capitalistico. Dunque ne deriva che la società non ha accettato il gay in quanto uomo che fa sesso con altri uomini, ma lo ha accettato in quanto consumatore. E questo crea un problema di classe perché gli unici gay che possono davvero aspirare al successo sono soltanto quelli che hanno un reddito in grado di giustificare “l’onore” dell’assimilazione che viene loro concesso. Dunque come già messo in luce all’inizio di questo lavoro, l’idea di successo non è solo legata all’assimilazione da parte degli eterosessuali ma è anche (e soprattutto) strettamente connessa al sistema consumistico e capitalistico.
[8] Foucault, p. 12.
[9] Ivi, p. 14.
[10] Iivi, p. 20.
[11] Servello, p. 21.
[12] Ivi, p. 23.
[13] Cfr. nota 7.
[14] Servello, p. 23.
[15] Ibid.
[16] Su questo argomento, cfr. Audre Lorde, Gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone, in Sorella Outsider
[17] In particolare Muñoz parla dell’eredità di Jack Smith, che seppure provenga da un panorama culturale underground, ha avuto un riconoscimento da parte di critici “imborghesiti” come Sontag. Sul perbenismo di Sontag rimando al lucido articolo Sontag’s Urbanity di D. A. Miller.
[18] Halberstam 2002, p. 20.
[19] Muñoz, p. 230
Bibliografia:
- L. Bernini, Le teorie queer. Un’introduzione, Mimesis, 2017
- F. Buffoni, Silvia è un anagramma. Per giustizia biografica, Marcos y Marcos, 2020
- A. A. Ferrante, Pelle queer maschere straight. Il regime di visibilità omonormativo oltre la televisione, Mimesis, 2019
- M. Foucault, Utopie. Eterotopie, Cronopio, 2006
- J. Halberstam, L’arte queer del fallimento, Minimum fax, 2022
- J. Halberstam, Temporalità queer e geografie postmoderne, in Maschilità senza uomini Saggi scelti, Edizioni ETS, 2010
- D. Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, 2019
- D. Harris, The Invention of the Teflon Magazine. From After Dark to Out, in The Rise and Fall of Gay Culture, Hyperion Press, 1997
- E. Kosofsky Sedgwick, Stanze private. Epistemologia e politica della sessualità, Carocci, 2011
- H. Lemmey, B. Miller, Bad Gays. Crudeli e spietati: una storia omosessuale, Il saggiatore, 2023
- A. Lorde, Gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone, in Sorella Outsider, Meltemi, 2022
- D. A. Miller, Sontag’s Urbanity, «October», Summer, 1989, Vol. 49 (Summer, 1989), pp. 91-101
- J. E. Muñoz, Cruising utopia. L’orizzonte della futurità queer, Nero, 2022
- G. Polimeni (a cura di), Catalogo delle lettere di Eugenio Montale a Maria Luisa Spaziani (1949-1964), Università degli Studi di Pavia, 1999
- L. Servello, Disastro. Derivato di “astro”, col prefisso dis- peggiorativo. Non allineato con le stelle. Sfavorevole agli astri. Cattiva stella, in AA.VV., Queer pandemia. Contaminazioni artistiche di altro genere, Tlon, 2023
- S. Sontag, Flaming Creatures di Jack Smith, in Contro l’interpretazione e altri saggi, Nottetempo, 2022