“La vita di chi resta”: una laica preghiera in onore della verità
Un articolo di Anna Rivoltella
Matteo B. Bianchi questa volta scrive senza pietà. Dopo aver già conquistato il pubblico attraverso le sue precedenti opere, contraddistinte da una pungente ironia e una profonda sensibilità, con La vita di chi resta (Mondadori, 2023) decide di trafiggere l’anima del lettore mediante le armi della verità e della scrittura. Questi sono i due assi portanti del libro, che fanno da sfondo alle costellazioni di frasi lapidarie tipiche di chi, parlando con il cuore in mano, ha solo questi elementi per uscire dall’oblio.
La buona notizia è che ci riesce: pur affrontando tematiche dolorose, infonde un salvifico e soprattutto laico senso di speranza, vita, perdono e salvezza. Quella brutta è che, prima di avvertire tale bellezza, si deve passare da pagine di disperazione, cinismo, rabbia, delusione, rassegnazione, atroce e cruda verità, che fanno vibrare corde emotive solitamente in sordina. Matteo B. Bianchi con la sua maestria letteraria rievoca il dolore che lo ha posseduto nelle viscere in modo talmente spudorato e veritiero da farci chiedere per un momento se la tragedia di cui parla sia successa a noi o no.
Quando un libro è così vero da far male, c’è poco da dire: bisogna leggerlo.
COME È LA VITA DI CHI RESTA? L’ARROGANZA E IL POTERE DEL DOLORE
La vicenda è narrata, in prima persona, da Matteo B. Bianchi, in questo caso autore e narratore, che racimola i frammenti della sua vita per elaborare un evento che lo ha cambiato: la morte del suo ex compagno, avvenuta circa vent’anni prima della pubblicazione del libro. A rendere il lutto ancora più amaro, inaccettabile e insuperabile è la modalità con cui ciò avviene: un suicidio. Come si evince dal titolo, lo scrittore vuole parlare non tanto di chi se ne va ma di chi rimane fermo, immobile, incredulo, a fare i conti con il mostro più temibile di tutti: la mancanza di ciò che non potrà più essere. La narrazione si sviluppa attraverso un alternarsi di flashback e riflessioni, in un flusso di coscienza che porta il lettore a rivivere momenti di gioia e di tristezza, rendendo tangibile il senso di incompiutezza che la morte porta con sé. Il protagonista, avvolto in un’atmosfera di malinconia, affronta il dolore non solo come una perdita, ma come un’esperienza plasmante.
“c’è un prima e un c’è un dopo il dolore.
Io ero un’altra persona, prima.
e mi rimarrà per sempre il dubbio se il vero me stesso fosse il ragazzo incosciente di allora o l’adulto contorto che ne è seguito.” (pag. 80).
C’è chi vede in certe forme di onestà e di franchezza delle forme di cinismo: nel caso de La vita di chi resta nasce il sospetto di star leggendo il prodotto di una mente cinica e disillusa e può anche darsi che l’ipotesi venga accertata nel corso della lettura. Con il senno di poi, dopo averlo concluso, si può riguardare all’inizio con gli occhi del finale e, giudicandolo nel complesso, è possibile intravedere un’altra componente ancora più amabile, delicata e raffinata del semplice cinismo: l’onestà con sé stessi. Ci vuole coraggio per ammettere che “c’è una forma di arroganza nella sofferenza pura” (pag. 83): questa è la conclusione limpida e lapidaria di Bianchi, riferita all’analisi del suo stato emotivo. Forse la distanza temporale dall’evento permette un’analisi più oggettiva e fredda, permette di leggere il passato con gli strumenti emotivi e concettuali maturati nell’esperienza, ma rimane notevole lo sforzo dell’autore di riguardare in modo distaccato i propri stati d’animo.
Bianchi riesce magistralmente a descrivere quella sensazione che tutti, almeno una volta della vita, abbiamo provato: credere davvero che in fondo il nostro dolore sia il più atroce, il più meritevole di sofferenza, il più importante di tutti. Bianchi giustifica questa illusione di superiorità legandola alla sensazione di distaccamento dalla realtà tipica delle anime in pena, al sentirsi uno spettatore della vita che diventa, a causa del dolore, solo un mero insieme di eventi banali e insignificanti. Le cose che succedono agli altri appaiono inferiori poiché – gli altri – non conoscono la verità che chi soffre tocca con mano: quel dolore che solo egli sta affrontando, che è la vera oscurità. Quando si sta male davvero si attraversa sempre un momento dove si assume la convinzione di non poter essere capiti, che non esista nulla di peggio della propria condizione. Purtroppo o per fortuna, alla fine, non è mai cosi.
Il potere del libro è quello di parlare, attraverso un filtro che trova autorevolezza nell’autobiografia, in modo disilluso delle illusioni che si creano quando si sta male
L’INGIUSTIZIA SUBITA DAGLI AFFETTI DELLE VITTIME SUICIDE.
Un tema attuale e purtroppo poco discusso nelle sedi opportune, ma che merita di essere portato alla luce ogni volta che si ha l’occasione, è quello del diritto di chi ama senza che un documento ufficiale lo certifichi. Traspare infatti, in modo saliente, l’atrocità del trattamento subito da Bianchi in seguito al lutto: lui e l’ex compagno non erano sposati e quindi, per la legge italiana, lui non poteva occuparsi della cerimonia funebre, di quel modo ritualizzato messo in atto per non disperdersi nel dolore del lutto e avere un appiglio di senso almeno nella prassi di cose da fare (andare in obitorio, firmare documenti, ricevere le lettere di condoglianze, organizzare la cerimonia funebre).
Tale piccolo ma significativo appiglio non è stato concesso a Matteo B. Bianchi, così come a molti altri le cui storie non sono raccontate. Anche se i protagonisti (Bianchi e l’ex compagno, indicato come “S” nel libro) avevano vissuto sotto lo stesso tetto, nella stessa casa, nello stesso luogo, anche se avevano provato lo stesso amore, anche se si supportavano e amavano da anni ogni giorno, scegliendosi in mezzo a miliardi di persone, non c’erano prove per dimostrarlo. La promessa più alta e coraggiosa mantenuta per sette anni, quella insita nella scelta di amarsi ogni giorno, non valeva più nulla nel dopo, solo a causa di una mancata firma su un documento legale.
“Io vivevo con lui da sette anni. Io per la legge italiana in rapporto a lui non ero niente. Io non esistevo.”
La cifra identificativa del dolore passa anche attraverso uno stile di scrittura essenziale, rassegnato, amareggiato, sconfitto, che va dritto al punto e che accetta la sua sorte: l’autore sa già che deve soffrire, tanto vale non nasconderlo, almeno a sé stesso. È un’arma a doppio taglio la sua scrittura: dimostrando una truce onestà intellettuale ed emotiva nella riflessione sul proprio passato e sulle proprie ferite, Bianchi obbliga il lettore allo stesso trattamento attraverso ricordi e vecchi traumi lasciati fino a quel momento silenti per paura di venire assordati.
LA VERA PROTAGONISTA: LA SCRITTURA COME STRUMENTO DI CATARSI E RINASCITA
Se dovessimo individuare un protagonista assoluto non sapremmo da dove partire. Nel romanzo si muovono l’autore, l’ex compagno, la morte, il lutto, l’assenza, l’accettazione e non si capisce quale sia il fondamentale oggetto di interesse. Questa ricerca potrebbe essere risolta da un elemento che è sempre stato in evidenza: la scrittura stessa. Si può affermare questa tesi proprio in virtù dell’importanza che tale azione e vocazione assume per l’elaborazione del lutto. Scrivere diventa un atto fondamentale per Bianchi, un modo per affrontare il dolore e dare forma ai ricordi, tant’è che afferma: “Scrivere è un modo per far rivivere chi abbiamo perso, per donargli una nuova vita nelle parole.”
Questa idea suggerisce che la scrittura non è solo un atto creativo, ma un mezzo per confrontarsi con l’assenza e per ricostruire un senso di continuità. Attraverso la narrazione, Bianchi riesce a esplorare e rielaborare il suo vissuto, a intraprendere un viaggio attraverso la memoria in cui ogni ricordo diventa un tassello fondamentale per ricostruire il mosaico dell’identità. Questo processo di scrittura, come forma di catarsi, riflette una necessità profonda di affrontare il dolore, trasformandolo in qualcosa di tangibile e permettendo così una rinascita, una piccola sorgente di luce in mezzo all’abisso in cui si trova.
NARRAZIONE E RICOSTRUZIONE DELL’IDENTITÀ: COSA È VERO?
Persino la forma delle frasi impresse sulle pagine ha un significato intrinseco: “se scrivo questo libro a frammenti è perché dispongo solo di questi”. Frammentaria è infatti la memoria, sbriciolati sono quei ricordi un po’ sbiaditi dal tempo, alcuni modificati dalle esigenze, altri sfruttati per non dimenticare o conservati per idealizzare. Tutti frammenti che compongono quella verità che Bianchi, con la sua penna, intende disegnare. A questo punto, è giusto chiedersi: dato che il romanzo non è una semplice cronaca degli avvenimenti passati, di che verità parla Bianchi?
“mi interessa la verità, non la corrispondenza esatta col reale.”
“dovessero chiedermi cosa c’è di vero in questo libro, risponderei, senza esitazione: tutto”
Bianchi evidenzia una differenza cruciale, ben affrontata da Gadamer in Verità e metodo: il filosofo si riferisce all’esperienza estetica, ma la differenza tra i due concetti che danno il titolo alla sua opera è utile a noi per spiegare di che tipo di verità parla Bianchi.
È possibile infatti spiegare, attraverso le parole di Gadamer, la concezione implicita di verità nel libro di Bianchi: esiste una verità che non è un fatto esclusivamente oggettivo (o individuato da un metodo scientifico), ma è qualcosa che viene esperito e compreso attraverso l’interazione dell’uomo con l’oggetto in questione, in questo caso il lutto. In tal senso, basti salvare il concetto fondamentale: la verità è legata all’esperienza e alla comprensione soggettiva, non a un dato oggettivo verificabile. Gadamer suggerisce che comprendere un’esperienza estetica non significa semplicemente raccogliere dati o fatti, ma innestare una trasformazione dell’interprete stesso. Facendo un parallelismo è possibile affermare che la verità vissuta da Bianchi grazie all’esperienza del dolore è paragonabile alla concezione di verità che Gadamer attribuisce alla fruizione di un’esperienza estetica: entrambe indicano una forma di verità che è più profonda e significativa rispetto alla datità degli oggetti e degli eventi. Il fine non è negare il valore della verità storica fattuale o scientifico metodologica, ma affermare che l’esperienza umana, con la sua complessità e profondità esistenziale, porta con sé una verità più significativa della semplice veridicità dei fatti e verificabilità scientifica.
IL PERICOLO DI PREFERIRE LA NARRAZIONE ALLA REALTÀ
“la pazzia è preferire la rappresentazione alla realtà”
È anche vero che, nel caso del lutto, per quanto la scrittura aiuti, non bisogna lasciarsi troppo andare all’interpretazione senza mantenere un contatto con la realtà, perché è facile, in periodi molto dolorosi, rifugiarsi in un mondo parallelo fin troppo fantasioso. Questo pericolo lo affronta ancora Bianchi con estrema lucidità, ammettendo, che in un momento di estremo bisogno di rassicurazioni, aveva anche consultato quei libri di guru e sciamani a cui non aveva mai creduto ma, nei quali, cercava un senso o una ragione. Le motivazioni celate dietro questo gesto risiedono nel fatto che l’uomo vive di narrazioni: la sua stessa identità è una narrazione e, quando soffre troppo, piegare la narrazione a strumento di consolazione viene molto facile.
Incisiva a riguardo, è la frase che scrive Bianchi per giustificare l’interesse verso la sezione di libri di crescita personale:
“non credo a quello che raccontano i sensitivi in questi libri infantili e sensazionalistici, però spero che abbiano ragione.”
“leggo libri che me la raccontano e mi sta benissimo così”.
Ma forse, anche in questo caso, come tutti i casi, non è proprio la narrazione l’unica direzione di senso possibile per salvarci?
UNA LAICA PREGHIERA
Nonostante il cinismo, nonostante il dolore e in virtù di questo, dopo aver toccato il fondo, essersi perso nel buio della morte, della fine, nella resa all’irreversibilità del tempo, Matteo Bianchi lascia al lettore un finale di dolcezza, amore, felicità. L’autore ha trovato, finalmente, la pace.
Le ultime righe sono un inno alla vita, alla fede, alla speranza, ai nuovi incontri, agli amori presenti, a quelli finiti ma ancora vivi in noi. È un finale che fa esplodere tutta la commozione e l’atroce felicità dopo duecento pagine di dolore e commozione. Matteo Bianchi, narrando il suo viaggio verso una rinascita, riesce a perdonare e perdonarsi, riesce ad andare avanti, a raccontare, e soprattutto, dando ordine e senso alla sua vita, illumina e migliora anche quella del suo lettore.
Quale migliore modo di superare un lutto se non attraverso un inno alla vita: una laica – drogata – preghiera. C’è tanta, infinita, umanità nelle sue parole. Nessun religioso sarebbe potuto essere più spirituale.