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Meta-Non-Fiction e problemi di realtà in “La verità e la biro” di Tiziano Scarpa

di Nicola Vavassori

Una cosa è certa: prima o poi un libro come questo andava scritto.

Nella letteratura europea degli ultimi anni il filone della “verità a tutti i costi” ha ormai imposto la propria egemonia. Basti pensare al successo internazionale di Carrère, della Ernaux, di Knausgård o, in Italia, di opere come Due vite di Emanuele Trevi, Niente di vero di Veronica Raimo, Come d’aria di Ada D’Adamo, Dove non mi hai portata e Splendi come vita di Maria Grazia Calandrone, La traversata notturna di Andrea Canobbio, La Sibilla di Silvia Ballestra… Un elenco che già si fa vertiginoso limitandosi a citare i testi finalisti ai premi letterari degli ultimi anni – riconoscimenti che, pur non assicurando ai romanzi in questione un marchio di qualità indiscutibile, ne testimoniano sicuramente una grande popolarità sia tra il pubblico sia tra la critica. Insomma, di questi tempi i romanzi “che vanno” – o, per essere più volgari, “che vendono” – sono quelli che raccontano storie realmente accadute, la vera verità vera: quella biografica di un personaggio storico, quella autobiografica dell’autore, o – perché no? – entrambe le cose (come accade per esempio ne La bella confusione di Francesco Piccolo). Uno scrittore, quindi, sembrerebbe essere tanto apprezzato quanto più si abnega alla causa della verità, svelando i propri segreti più privati, perversi, fuorilegge e tabù – per poi spesso pentirsene subito dopo, come accaduto agli stessi Carrère e Knausgård.

L’onere di mettere ordine in questa sfrenata corsa alla realtà – o per lo meno di riconoscerla come evidente, problematizzarla, sviscerarla a mani nude – è toccato a Tiziano Scarpa con La verità e la biro (Einaudi, 2023), candidato al Premio Bergamo 2024. Un’opera, questa, che può essere letta almeno in due direzioni divergenti e complementari. Il primo vettore va dalla realtà alla letteratura e si chiede, appunto: come si fa a tradurre la Verità con la V maiuscola in un romanzo? Come può una biro, così minuscola, bastare come unico tramite a questa operazione?

Il secondo vettore, invece, va dal libro al mondo e, proponendo una serie di “esperienze di verità” – come Scarpa chiama i numerosi aneddoti che lo mostrano alle prese con questo insidioso concetto – rivolge al lettore una nuova domanda: qual è il tuo – il nostro – rapporto con la sincerità, l’autenticità, l’obbiettività? E basterà pensare per qualche secondo al modo in cui viviamo i social e la sessualità per riconoscere quanto il tema tocchi carne viva di una ferita scoperta nella società contemporanea, anche fuori dai “romanzi-verità” che tanto amiamo.

Le premesse non sono affatto semplici, ma Scarpa non smentisce la fama che accompagna la sua firma e, intrecciando riflessioni brillanti a intuizioni visionarie – con un piccolo aiuto da parte della sapienza degli antichi Greci – porta a termine un’opera talmente densa che, richiuso il libro, il suo influsso si riverbera nella “vita vera” in modo forse irreversibile. Eppure, non si può dire né che l’opera esaurisca tutte le possibili domande sul tema che si prefissa (ma questo nessun’opera può farlo, ed è un bene), né che risponda in modo esauriente a tutte le domande che in effetti si pone: il lettore rimane quasi frastornato dalla trattazione di Scarpa che, a sprazzi, sembrerebbe contraddirsi. Ma che anche la contraddizione sia voluta?

Il primo vettore. Meta-Non-Fiction in “La verità e la biro”

A differenza di quanto afferma la quarta di copertina, se La verità e la biro “è un libro che non assomiglia a nessun altro” non è per la sua struttura ibrida (“un romanzo, una confessione, un saggio, un memoir”) comune a praticamente tutte le opere citate nel primo paragrafo, bensì per le tecniche narrative utilizzate da Tiziano Scarpa. L’intero libro, infatti, si costruisce come una riflessione metaletteraria sulla scrittura del libro stesso: l’autore discute le proprie scelte, problematizza lo statuto del romanzo, interviene postillando il testo con parentesi quadre aggiunte durante la revisione delle bozze, che ricordano le note a piè di pagina di David Foster Wallace o dell’ultimo Trevisan.

I manuali anglofoni di teoria della letteratura la chiamerebbero “meta-fiction”, ma, considerando che di finzione non si tratta, bisognerebbe coniare una nuova etichetta che suonerebbe come: “Meta-Non-fiction” – con un accumulo di prefissi che già suggerisce la complicazione frattale di una simile strategia.*

Con il senno di poi questa definizione si potrebbe applicare retroattivamente anche a molte pagine dei romanzi di Nonfiction più raffinati. Si pensi a Flashover di Giorgio Falco, dove talvolta il narratore si rivolge con il “tu” all’autore che sta scrivendo il romanzo sull’incendio del teatro La Fenice. Oppure, per un riferimento più pop, si pensi a tutte quelle vignette di Kobane calling e No sleep till Shengal in cui Zerocalcare sfonda la quarta parete del fumetto per chiedere al suo armadillo quale sia il modo migliore per raccontare le vicende della resistenza curda.

La verità e la biro, però, porta la Meta-Nonfiction alla sua apoteosi: essa diventa l’argomento stesso dell’opera. Scarpa non scrive un libro, ma il commento alla scrittura di un libro. Più facile a farsi che a dirsi, per cui forse a questo punto saranno utili alcuni esempi:

Qualche settimana dopo, io e la studentessa di filosofia riusciamo finalmente a trovare una stanza per fare l’amore al chiuso, su un materasso vero. […] (Questa parte del racconto è importante, e deve essere descritta nei dettagli, perché prepara un colpo di scena).

Tiziano Scarpa, La verità e la biro, p.24

Sto riscrivendo questo diario in bella copia, lo sto smussando e ampliando per pubblicarlo. È un’esperienza completamente diversa rispetto alla scrittura di romanzi. Scrivere romanzi inventati è difficoltoso e ansiogeno.

Tiziano Scarpa, La verità e la biro, p.55

[A un certo punto avevo pensato di togliere i paragrafi precedenti, non per il contenuto in sé, ma perché fanno capire che in questo libro è prossima l’incursione di una spiaggia nudista. Pensavo che sarebbe stato meglio riportare solo le pagine in cui, di punto in bianco, mi ritroverò nudo in mezzo a decine di corpi nudi. Quasi un colpo di scena. L’effetto avrebbe applicato il tipico strumento narrativo del preavviso dissimulato, buttato in mezzo ad altre informazioni, con nonchalance].

Tiziano Scarpa, La verità e la biro, p.120

L’interpretazione che Scarpa dà del concetto di Verità all’interno della letteratura, dunque, è prima di tutto la trasparenza dei meccanismi narrativi. Il libro si smonta dall’interno mentre si costruisce. La critica novecentesca lo chiama “Antiromanzo”, ritrovandone un archetipo fin nel Don Chisciotte, che da molti è curiosamente considerato anche il primo romanzo moderno.

La differenza è che, ancora una volta, nell’opera di Scarpa ciò che viene messo a nudo non è la finzione romanzesca, ma la scrittura di non-fiction. Da una parte abbiamo Don Chisciotte, che sfoglia il romanzo di Cervantes e commenta le proprie avventure come se fossero reali, ma il lettore sa che le vicende del cacciatore di mulini a vento sono – purtroppo – di pura fantasia. Dall’altra parte abbiamo Scarpa, che riflette su episodi realmente accaduti della propria vita e si pone domande ben diverse. Perché ha scelto di raccontare un certo fatto piuttosto che un altro? La narrazione che ne fa è davvero autentica oppure relativa e parziale? Rivelare fatti privati può ritorcersi contro di lui o contro le persone di cui parla? In che modo può giustificare a se stesso la scrittura del romanzo? Come lo prenderanno i lettori?

E forse sono proprio queste domande a rendere vero un romanzo-verità.

Il secondo vettore. Mettersi a nudo

Le cose non svaniscono nel buio, bensì nell’eccesso di illuminazione: “Più in generale le cose non trovano fine nell’oscurità e nel silenzio – svaniscono nel più visibile del visibile: l’oscenità”.

Byuung-Chul Han, La società della trasparenza

Perché la verità è considerata un valore? Ci vorrebbe un intero saggio per fare chiarezza sulla questione e infatti il filosofo sudcoreano più letto del mondo, Byung-Chul Han, vi ha dedicato l’opera La società della trasparenza, pubblicata in Italia nel 2012 da Nottetempo. Dalla sua estesa riflessione, prendiamo in prestito questo estratto, che traccia un collegamento diretto tra la visibilità e l’oscenità. Lo stesso parallelismo è, potremmo dire, il fulcro tematico che accomuna la maggior parte degli episodi raccontati da Tiziano Scarpa in La verità e la biro.

Non sempre – anzi, quasi mai – la verità è gradevole. La maggior parte delle volte è censurata o edulcorata, proprio perché volgare, triviale, pornografica. Ma un autore che si propone di esplorarla a fondo non può fare lo schizzinoso. Così Scarpa dedica più della metà della sua opera alla sfera sessuale. Per prima cosa lo fa raccontando aneddoti privati: quella volta che una studentessa di filosofia troppo sincera gli confessò di andare a letto con il professore, quella volta che una giornalista lo invitò a cenare al buio sul pavimento del suo salotto finendo a letto con lui, e via dicendo. Ma non mancano riflessioni autorevoli sull’argomento, riprendendo le parole di Pavese, Saffo, e perfino Piera Degli Espositi, famosa attrice che, a 79 anni, rimpiange il catcalling che riceveva da giovane. Il tutto confluisce nel filone narrativo centrale: una vacanza a Kos, che culmina con l’esperienza di una giornata in una spiaggia nudista.

L’insistenza sull’argomento prima diverte, poi intriga e infine nausea: una parabola perfetta che descrive il rapporto dell’occidentale medio con la verità. Se il lettore si ritroverà ad alzare gli occhi al cielo nel leggere l’ennesima descrizione minuziosa di una fellatio o del pene di Tiziano Scarpa, allora il libro avrà colpito nel segno. Il disgusto, infatti, diventa una cartina tornasole per l’ipocrisia. In una cultura come la nostra – in cui, riflette l’autore, gli utenti sui social si esibiscono come gladiatori nell’arena, in cui l’unico modo per lamentarsi di qualcuno è farlo con qualcun altro che non è il diretto interessato, eccetera – avere pudore della propria nudità è un controsenso. Se si insegue la verità, allora bisogna essere disposti a mettersi a nudo, per scoprirla fino infondo; bisogna trattare il proprio corpo e il corpo degli altri con la stessa trasparenza e serietà con cui si parla della tragedia greca.

Ed è proprio dal mondo classico che Scarpa recupera una consapevolezza inedita sulla questione, come se le risposte a lungo cercate fossero già state pronunciate e dimenticate da quasi tre millenni. Sulla sessualità, per esempio, il caso di Tiresia insegna che chi dice ciò che non si può dire “viene punito. Ma anche, viene risarcito e premiato” (p.63).

Quid est veritas?

Secondo Agostino di Ippona, quando Ponzio Pilato chiese a Gesù “Che cos’è la verità?” (Gv 18,38), il nazareno rimase in silenzio perché la risposta era già contenuta nella domanda. “Quid est veritas”, infatti, può essere anagrammato nella frase “Est vir qui adest”: la verità “è l’uomo che ti sta davanti”. La verità di Dio, secondo Agostino, è autoevidente: si dimostra mentre si afferma, anzi, per il fatto stesso che la si sta affermando.

Forse, allora, se La verità e la biro evita di rispondere direttamente alla stessa domanda – che in questo caso non gli viene posta dal prefetto di Giudea, ma dall’autore stesso – è perché l’unica soluzione soddisfacente è quella che si realizza nel corso della scrittura. L’unica verità possibile è un libro che si domanda che “cos’è la verità” senza trovare una risposta. Quid est veritas? Est liber quid adest.

Allora anche i vuoti, le contraddizioni, i dubbi che l’opera lascia a fluttuare di fronte al lettore, in realtà, sarebbero una parte fondamentale di quella verità, così sfuggente da non poter essere contenuta nella biro. Eppure, ciò non toglie che il libro di dubbi ne apra parecchi e sarebbe troppo semplice accontentarsi di una citazione biblica come deus ex machina per liquidarli. In particolare, li si potrebbero riassumere in due questioni, due ambiguità che permeano tutta l’opera, e ciascuna meriterebbe una discussione a parte. Qui, allora, proveremo a delinearle e poi, forse, sarà lo stesso autore a parlarcene. (Lo ha fatto in un’intervista, che trovate qui sotto).

Prima ambiguità. Come si fa a sapere se quello che viene raccontato nel libro è vero? Bisogna fidarsi dell’autore che insiste continuamente sul fatto che tutti gli episodi raccontati sono realmente accaduti. Laddove ci potrebbe essere il dubbio, Scarpa lo marca con una parentesi piena di ironia che assicura: “(Lo giuro)”. Eppure, sono moltissimi i romanzi che partono dalle stesse premesse e affermano “Questa è una storia vera” per creare una storia di finzione. Non si parla di opere di nicchia, ma di grandi classici come Robinson Crusoe, il Tristam Shandy, e anche La vera vita di Sebastian Knight di Nabokov, che gioca sulla stessa ambiguità fin dal titolo. E se, dopo l’ultimo capitolo di La verità e la biro, Scarpa avesse aggiunto una nota finale in cui si rivela che tutta l’opera, in realtà, è frutto di pura immaginazione? Forse sarebbe stato un colpo di scena troppo duro da sopportare, per il lettore convinto che tutto ciò che legge in un romanzo-verità… sia verità.

Scarpa, dunque, gioca sul filo del rasoio, dondolando su un terreno fragilissimo e inconsistente come un racconto fatto di parole. Questo ci porta dritti alla seconda ambiguità. Il fatto stesso di tradurre un episodio reale in forma narrativa significa renderlo meno reale. Dare un ordine coerente agli avvenimenti della propria vita, costruire su di essi un significato, è un’operazione comune non solo agli scrittori, ma la cui autenticità è completamente relativa.

Scarpa sfiora spesso questo problema, viscerale per ogni autore che voglia scrivere “storie vere”. Osserva per esempio che la revisione di un libro è un’operazione tutt’altro che spontanea e naturale (“ogni frase che scrivo contiene momenti diversi: quello della sua prima stesura, quello della dettatura e trascrizione, quelli delle infinite revisioni e riformulazioni” p.72), che i personaggi non sono riconoscibili (“Ho fatto in modo di rendere irriconoscibili le persone di cui parlo” p.139) e soprattutto che la scrittura è fondamentalmente un’arte di reticenza.

L’autofinzione, lo riconosco, è inevitabile perché non c’è mai una verità completa: la finzione sta nel fatto che ogni inquadratura ritaglia e lascia fuori molte cose. […] Dire tutto non si può. Intanto perché è impossibile conoscere tutto per intero. E poi perché c’è una quantità di cose che ci sfugge; anche parlando di sé stessi non si è perfettamente consapevoli, non si conoscono le proprie zone d’ombra.

Tiziano Scarpa, La verità e la biro, p.76

Così, nell’ultima pagina dell’opera, l’autore arriva ad ammettere (in un dialogo, tra l’altro, immaginario) che la verità può esistere solo nell’artificio: “è lì che l’abbiamo confinata” (p.211). E forse suggerisce un’ultima, definitiva, chiave di lettura a questo romanzo ibrido che diventa il perno di un intero genere. Basterebbe, insomma, una modifica al titolo, un minuscolo segno grafico sopra la congiunzione, per essere onesti fino infondo: La verità È la biro.


*Per amor di cronaca, bisogna specificare che il termine “Meta-Non-Fiction” è già stato utilizzato altrove, ma – che io sappia – non è mai stato canonizzato ufficialmente o definito con precisione in teoria della letteraura.

Per la realizzazione di questo articolo si è preso spunto da diverse interviste a Tiziano Scarpa su “La verità e la biro”. Le principali sono:

Dialogo tra Tiziano Scarpa e Roberto Ferrucci a Palazzo Festari. https://www.youtube.com/watch?v=Ae98gCpjGZY

Intervista scritta di Emiliano Ceresi e Matteo De Giuli su Lucy. https://lucysullacultura.com/litaliano-e-un-medioevo-coi-surgelati-intervista-a-tiziano-scarpa/

Intervista di Giacomo Raccis in occasione della presentazione al Premio Bergamo, alla Biblioteca Tiraboschi. https://fb.watch/r7FDXOsRpR