La tecnologia – Confessioni di una Millennial
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Ho capito che l’azienda non fa per me. Non so stare seduta otto ore al giorno davanti a una scrivania. Adesso di giorno faccio la ghostwriter e la copywriter per delle aziende di automobili mentre la sera consegno le pizze. Amo scrivere e adoro guidare. La perfezione. Ho uno stipendio pieno? Ancora no. Ho un contratto? Ancora no. Vivo da sola? Ancora no. Guadagno comunque più di quando facevo uno stage presso una multinazionale. Tanta roba. Come sono le mie giornate ora? Tecnologiche. Proiettate nel futuro. Mi dicono dalla regia che la tecnologia è il Male. Ma io sono una creatura ibrida, la mia vita funziona solo con un po’ di tèchne che è arte, abilità tecnico-pratica, nonché la magia della contemporaneità. Non è solo questione di Smarphone e PC. La mia realtà è scegliere la protesi virtuale giusta in ogni contesto e situazione.
Suona la sveglia, apro gli occhi. La faccio tacere. Ancora nel letto mie mani divengono smartphone: scrollo le bacheche dei social e il cervello si attiva lentamente. Dalla regia mi dicono che i social appiattiscono il cervello. Peccato che io segua le pagine dei giornali e dei miei scrittori, filosofi, giornalisti preferiti. Mi aggiorno sull’attualità. L’ennesimo femminicidio, un po’ di victim-blaming, un ponte che cade, una scuola va a fuoco, uragani in Italia, crisi climatica. Eco-ansia attivata. Mi alzo mentre faccio partire un podcast nelle mie cuffie senza fili. Ogni giorno cambio, se voglio un po’ di notizie in più seguo quello de Il Post, se voglio un po’ di filosofia c’è Daily Cogito di RickDufer, se voglio spunti di riflessione vari ed eventuali cerco Roberto Mercadini, oppure faccio partire l’audiolibro del vincitore del premio Strega. Così, magari, un giorno scriverò qualcosa di meglio di come si cambia la catena di una moto. Chissà quando.
Mentre dal mio smartphone chiacchiera la personalità che ho scelto quel giorno faccio colazione, mi lavo i denti e mi trucco. Di solito mangio fette biscottate e marmellata bio 100% frutta senza zucchero, oppure colazione proteica con un uovo strapazzato, ovviamente solo uova di galline da allevamento a terra e all’aperto. Ci tengo alla sofferenza animale anche se non sono vegana. Non ancora. Il mio spazzolino da denti è in bambù perché con le mie scelte d’acquisto posso cambiare il mondo. Possono? No, ma io ci provo. Il mio impatto ambientale è tendente allo zero. Zero waste, zero grassi, zero zuccheri. Che tutte ste cose, se ci sono, mi fanno sentire in colpa. Allora le taglio a zero.
Dalla regia mi sussurrano che la tecnologia è il Male. Ma volete sapere con cosa scaldo l’acqua per il tè? Con il microonde. E dove conservo la marmellata? In frigorifero. Non sono forse tecnologia? Breaking News: sì. Però il mio smartphone è “un demone che mi appiattisce il cervello” e il frigorifero no. Se solo sapessi fare delle torte il forno sarebbe il mio miglior amico e nessuno se ne lamenterebbe perché sono una donna e se le donne cucinano è okay. Se, in più, sapessi fare delle foto allora potrei avere una pagina social dedicata ai dolci e sarei una stimatafoodblogger. Tutti vorrebbero che scrivessi un libro di cucina. Invece no.
Mi metto alla scrivania e sono un’esperta di moto e automobili. Sono davvero un’esperta di motori? No. Ma online questo non conta, e poi sto imparando. Faccio ricerche per scrivere gli articoli per i miei clienti. L’unico problema è che alla fine mi rimangono in mente le informazioni meno utili. Ad esempio, so che lo specchietto retrovisore lo ha inventato una donna oppure so che solo il 6% degli italiani va in moto d’inverno. Una percentuale irrisoria, ma che è comunque un gran numero di lettori, allora io che sono “gli esperti del settore” sono pronta a dare tutti i consigli per guidare la moto d’inverno, quando fa freddo. Oppure so che il navigatore per camion è diverso dal navigatore per auto. Perché? Beh tiene conto dalla mole del mezzo e dei relativi divieti stradali. Un tir non è che possagirare nel centro di un paesello. Gli verrebbe mai in mente di farlo? Non saprei. So solo che potrei ricordarmi di come si cambiano le candele dell’auto e invece no. Quello me lo sono scordata.
Chissà come reagirebbero i lettori se vedessero il nome di una donna alla fine dell’articolo. Magari un adolescente, che ancora non si ricorda bene come sistemare la catena della sua moto, leggerà il mio articolo per ripassare gli insegnamenti del padre. Il testo è scritto da una donna, ma lui non lo sa. Non sa che è stato scritto da una che da bambina voleva giocare con le macchinine, ma glielo hanno impedito. Magari penserà che le ragazze si interessino tutte solo di smalti per le unghie e shopping. Invece adesso quella bambina è “i nostri esperti, uomini, del settore”. Donna solo in segreto. Forse, leggendo la mia firma infondo all’articolo, quell’adolescente potrebbe vederci un barlume di speranza. La speranza di incontrare una sua coetanea, un giorno, che magari da piccola voleva giocare con le macchinine e ha potuto farlo. Una ragazza con cui condividere le sue passioni. E invece no.
All’improvviso ricordo che devo pagare un bonifico e che alle 10.00 ho una call. Sì, dalla regia mi dicono che la tecnologia è il Male. Però io non devo fare la coda alle poste per pagarlo. A parte quando prendo una multa, quella devo andare di persona a ritirarla. Però, per il resto, la mia banca è online. Tutta intorno a me. Ovunque. Certo, se mi fottono il cellulare sono fottuta io. Anche se con il mio stipendio precario c’è poco da fottere. Basta un attimo, prendo il mio smartphone, apro la app e pago. Fine. Tempo richiesto: meno di quattro minuti.
In azienda la gente mi guardava male quando mi alzavo anche solo per andare in bagno. Adesso vado in bagno quanto mi pare, se devo pago un bonifico, leggo le informazioni per i miei articoli mentre faccio stretching sul pavimento col mio PC leggero ultra sottile e, se ho fame, faccio uno spuntino sul divano. Alla fine cazzeggio molto tempo perché gli articoli prima mi si scrivono nel subconscio. La mia mente li elabora senza che io me ne accorga e, dopo, in pochissimo tempo, li butto giù. Alle 10.00 sono pronta per la call per allinearmi con le esigenze di un nuovo cliente. Allora sì, mi metto alla scrivania e sto seduta composta. Non perdo tempo in lunghi viaggi verso il centro città, così è meno frustrante fare una riunione in cui mi dicono un sacco di cose davvero poco utili.
All’ora di pranzo chiudo il PC, prendo la borsa della palestra e salto in macchina. Ah, sì, anche la macchina è tecnologia. Capito, regia? Ne ho una vecchissima che definisco vintage, è a GPL, per risparmiare. Ne sogno una ibrida o elettrica. Un giorno l’avrò se troverò mai in questo mondo liquido un contratto, un lavoro fisso e uno stipendio pieno. Esco di casa con gli auricolari nelle orecchie. Non solo non riesco a stare seduta, non sono capace neanche di avere una vita sedentaria. Statica. Non so viaggiare e poi allenarmi senza musica. Tamarra, ma anche un po’ Fantasy. Magari metto su Leon Faun. Il rapper che scrive direttamente da Narnia.
Siccome la sera non ho tempo di fare sport perché sono in pizzeria lo faccio quando le sciure escono da Zumba. A me Zumba non piace proprio, seguo altri corsi, tipo Gladiator. Musica zarra, pesi e fatica. Non sarà divertente come il Crossfit, ma per ora possono permettermi solo la palestra low cost vicino casa. Il tornello si sblocca con il badge, la sala è piena di macchinari, di lato ci sono i distributori automatici di bevande e merendine energetiche. Dalla regia mi dicono che la tecnologia è il Male. Forse. Però è bello poter riempire la mia borraccia schiacciando solo un piccolo pulsante colorato e sapere che se mi girerà la testa potrò prendere una merendina alla macchinetta h24. Mi alleno, sudo, doccia e via.
A casa mi preparo un pranzo light e mangio mentre guardo una serie su Netflix in arabo, perché vorrei impararlo e ascoltare gente che lo parla leggendo i sottotitoli è una minuscola ma importante parte di questa sfida. Grazie mondo digitale. Da piccola non avevo ancora la tecnologia maligna che c’è oggi. Sono tra quelle che possono ricordare i floppydisc, le videocassette, i CD-Rom, il videoregistratore, le cassette col nastro, il masterizzatore. Era un mondo migliore? Col cazzo. Quando ho smesso di andare all’oratorio perchéle suore volevano che facessi il punto croce io sono rimasta tagliata fuori dal mondo. Le videocassette non si connettono con gli altri. Nessuno youtuber mi ha potuto insegnare l’italiano o l’inglese, figuriamoci l’arabo. Ero abbandonata a me stessa. Ricordo ancora il primo autore che ho cercato online alle scuole medie.Accesi il mio pc che aveva uno schermo cubico enorme che occupava tutta la scrivania e gli chiesi: Oscar Wilde. Probabilmente al cospetto di quello schermo sembravo ancora più piccola mentre scaricavo il mio primo e-book illegalmente. O, almeno, non so se fosse legale. Adesso, invece ho le info a portata di click, da smartphone o PC. Imparo un sacco di cose anche se non mi posso ricordare tutto emi rimangono impresse soprattutto cose poco utili – ad esempio che le strisce della carreggiata stradale le ha inventate una donna – mentre non mi si fissa maiin mente quando scatta l’obbligo degli pneumatici invernali. Ma è davvero utile saperlo?
Dopo mangiato sistemo gli articoli della mattina e posso sedermi alla scrivania senza fremere per un po’,ma solo fino alle 17.00, alle 18.30 devo essere in pizzeria e non è possibile consegnare pizze a stomaco vuoto: sarebbe una follia. Così mi prendo del tempo per me e per fare una merenda-cena. Prima di uscire indosso la mia giacca riscaldata rossa. Mai sentito parlare di giacche riscaldate? Raga, là fuori fa freddo e io lo combatto con la tecnologia. L’ho letto quando l’ho comprata: il mio giubbotto ha dentro dei pannelli in fibre di carbonio – o grafene, non saprei – collegati a una batteria.Emettono calore a infrarossi. Per finire, è anti-vento, anti-pioggia e anti-unto-della-pizza. Anti-tutto. Mondo scansate. Praticamente ho una giacca che è una navicella spaziale e mi può anche ricaricare il cellulare. Può sempre servire, infatti la sera ho bisogno del navigatore. Quando esco di casa accendo la giacca, quando arrivo in pizzeria la spengo, alla prima consegna la riaccendo.
Il mio capo è egiziano. È da quando lavoro lì che sto imparando l’arabo e i principi base della cultura musulmana. Appena varco la soglia mi investe il corano, cantato come se fosse un mantra dalle casse del locale. Non capisco una parola, ma mette una pace incredibile. Quando entro saluto: “Salhamalecom” e lui: “Alecom Salam” poi gli chiedo come va: “Amehel e?” lui: “Alhamdulillà”. Bene, grazie a dio. Per ora le mie competenze di arabo si fermano qui.
Questo lavoro mi rilassa. Chi lo ha detto che consegnare pizze è una mansione umile? Per me è un’esperienza spirituale in cui imparo una nuova lingua, un nuovo sistema filosofico e porto gioia ai clienti. Fin dal primo giorno ho capito che tra le persone più felici al mondo ci sono quelle che ti aprono la porta in pigiama e stanno per mangiare la pizza. Così mi sento una portatrice di felicità. Do gioia alle persone. E cosa c’è di più elevato al mondo di ricevere conoscenza e dare del bene all’universo? Io non lo so.
Il capo è qui da dieci anni,ma ancora non sa l’italiano e credo non sappia neanche pronunciare bene il mio nome. Infatti mi chiama Amore. Tranquillo, adesso ci sono io che sono figlia di immigrati sudamericani quindi capisco tutti i linguaggi fanta-italiani del mondo. I miei nonni parlavano un napoletano-spagnolo-italiano, mio padre si esprime come il papa argentino e mia madre è convinta che le cose si possano risoluzionare sempre, perché in spagnolo si dice solucionar.
Il sabato c’è anche un altro ragazzo che consegna le pizze. È uno studente di architettura nato e cresciuto in questo paesino minuscolo di periferia. A volte si porta il PC perché tra una consegna e l’altra si dedica a dei progetti. La mia caratteristica è che non si vede che sono straniera, lui invece ha la pelle scura. Mi chiedo se la gente con lui reagisca come fa con mequando gli porto la pizza. Saranno felici allo stesso modo gli abitanti bigotti di questo paesello? Non so. E non so nemmeno come si facessero le consegne a domicilio prima di Google. Senza il navigatore dello smartphonenon potrei fare questo lavoro. Google mi indicherà la strada. Google cosa farò da grande? Che ne sarà di me? Ah, no, non in senso metaforico. Google devo consegnare una pizza in via Matteotti 12, dimmi dov’è, grazie. Salgo in macchina e scandisco bene: “Okey Google” poi pronuncio l’indirizzo e parto per la prima consegna. Quando comincia il ritmo della serata il capo accende la radio e l’atmosfera spirituale svanisce per fare spazio alla frenesia dell’orario di punta. Magari dalla regia mi diranno anche che la tecnologia è il Male, ma io oggi non potrei fare questo lavoro senza.
Stacco alle 21.30, ma l’ultima mezz’ora non c’è granché da fare ed è allora che spengo la giacca, mi siedo alla cassa e il capo da dietro il bancone mi racconta qualcosa della sua terra, dei suoi valori o della sua vita. È una sorta di maestro, mi dice di come per la sua cultura le donne siano il cuore della terra e dell’universo tutto, che non è vero che i musulmani sono violenti. Ce ne sono, ma lui non è così. A volte mi raccomanda di pensare di più a me stessa, al mio bene, alla mia felicità perché si vede che mi preoccupo e che penso troppo agli altri. Quando sono giù se ne accorge e mi dice nella sua lingua bizzarra che traduco per voi: “Amore, devi pensare solo a te stessa e a stare bene, non agli stronzi che ti trattano di merda”. Mi spiega che lui ha capito subito che il mio Kalaktalera buono, cioè che il mio io più autentico, profondo e vero era sincero. Poi, sorridendo aggiunge che, se esagera, posso mandarlo a fanculo e non ascoltarlo. Sì, questo non è il lavoro che farò per sempre, eppure la mia strada passa proprio da qui e non vorrei essere altrove perché io non so cosa ci sia di più elevato al mondo di conoscere me stessa attraverso lo sguardo di un’altra cultura. La mia strada passa attraverso questo ascolto. Attendo e osservo.
Forse è per questo che mi ricordo cose che per la regia sono le meno utili. Ricordo soprattutto che lo specchietto retrovisore dell’auto o le strisce della carreggiata li hanno inventati delle donne. Dalla regia mi dicono che la tecnologia è il Male e che le donne dovrebbero fare il punto croce o usare al massimo il forno. Ma le mie torte fanno schifo, vi avverto. Forse ricordo solo ciò che la regia ritiene essere meno utile. Mi ricordo solo le cose che servono a me, a stare bene, a imparare ad essere me stessa, a scoprire com’è veramente il mio Kalaktal. Faccio un lavoro umile? La tecnologia mi appiattisce il cervello? Mi ricordo solo le cose più inutili?
Alle 21.30, dopo il lavoro, a volte esco a bere una birra con gli amici altre torno a casa. Quando arrivo in camera mianon sono del tutto scarica. Ormai funzioniamo a batterie io, il cellulare, il giubbotto, gli auricolari. La sera ci mettiamo tutti in carica, anche se io per ricaricarmi stacco la spina.È una sorta di schiavitù ricordarsi delle batterie, malo è anche perdere così tanto tempo della nostra vita dormendo.Vorrei essere sempre sveglia.La sera prima di mettermi a letto mi strucco, lavo i denti e collegotutti i miei dispositivi. Se lo il giorno dopo sono scarichi, io sono morta. Sono morta? No, non è vero. Però, sarebbe tutto una sbatta.
Dalla regia mi dicono che la tecnologia è il male, ti addormenta il cervello, ma io a questa tarda ora della sera sono ancora sveglia. Tutto questo è male, è sbagliato? Èil modo in cui sono fatta. Così, a dire il vero, la sera non ho ancora voglia di staccare la spina. Tutto questo è esattamente me: la connessione, la fusione con tutti gli strumenti e le realtà che attraversano la mia giornata. Posso farne a meno, ma perché dovrei privarmene?
La sera non stacco e mi chiedo: ma chi cazzo ci sta alla regia? Forse mio nonno? Forse un uomo maschio bianco etero cisgender? E cosa vuole dire cisgender? Che il suo genere corrisponde al suo sesso biologico. Chi cazzo ci sta alla regia?
Allora di notte, quando ancora non ho le batterie scariche, prendo il mio PC con su gli adesivi “OH SHIT!”, un pugno alzato, una saetta: “Danger: Hig Voltage” e un teschio; accendo la luce soffusa accanto al comodino e le mie dita si immergono nei tasti,come se fossero liquide si fondono con essi. Avvolta dal mio pigiama grigio e morbidosonella mia mente si srotola una pellicola. In gran segreto, mentre scrivo questo racconto, alla regia ci sto io.
Faccio un lavoro umile? La tecnologia mi appiattisce il cervello? Ricordo solo le cose più inutili? Scrivo delle domande le cui risposte possono essere comprese solo da chi, come me, è una creatura ibrida, scomposta, che non sa stare seduta. Esseri la cui strada passa proprio da qui e non vorrebbero essere altrove perché non sanno cosa ci sia di meglio di conoscere sé stessi attraverso lo sguardo di un’altra. Risposte che possono essere comprese solo da umani che ascoltano e, nell’attesa, osservano. Risposte che possono essere cercate se con un po’ di tecnologia, due cuffiette nelle orecchie, uno smartphone al posto della mano destra, possiamo attivare la voce di qualcuno che ci doni queste domande.